Elementi di economia

Ottocento

 

Con la Rivoluzione partenopea del 1799

 Solofra subì forti danni di natura economica.

 

Perdette l'arte del battiloro e vide molto ridimensionate alcune attività di lavorazione della pelle: cordami, tamburi e scarpe.

 

La sua realtà artigianale si ridusse alla sola concia della pelle

 

 

La struttura produttiva solofrana

La sua struttura produttiva improntata su un sistema di lavorazione tradizionale a basso contenuto tecnologico, poggiava su piccole e medie imprese a carattere familiare che proprio per questa caratteristica riuscì a superare le secche dell'economia meridionale.

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Il nucleo familiare fornendo sia la manodopera che il capitale costituiva una risorsa capace di adattarsi a tutte le situazioni di crisi. Inoltre nelle ampie alleanze familiari, che ancora in questi tempi si realizzavano, si creavano delle sinergie che trasformava il sistema produttivo locale in una unità unica e coesa che era la vera forza di questo sistema.

La famiglia permetteva il reperimento dei capitali, la gestione dell'attività produttiva e il sostegno nelle situazioni di crisi. Per le imprese economicamente più deboli essa costituiva un vero e proprio punto di forza. Un sostegno importante erano i beni portati in dote talché il matrimonio si palesava come una vera propria strategia economica e tramite di esso si realizzava una vera connessione tra azienda e famiglia. Molto spesso erano i matrimoni che davano luogo alla costituzione di una piccola impresa per avviare la quale non erano necessari alti investimenti sia perché non erano necessari strumenti tecnologicamente avanzati sia perché essa avveniva con l'affitto di una fabbrica completa degli strumenti di lavoro. Tale realtà dava la possibilità di iniziare un'attività produttiva autonoma dove il capitale serviva solo per l'acquisto della materia prima (le pelli grezze e le sostanze concianti) mentre solo alla fine del processo di lavorazione con la collocazione sul mercato del prodotto finito si recuperava il capitale.

Vale la pena di richiamare l'idea di unica conceria che questa caratteristica dava all'attività lavorativa solofrana già nel Cinquecento.

 

Un'attività divisa in parti

Come avveniva nel XVI secolo l'attività di concia veniva divisa in parti e svolta singolarmente nelle varie unità lavorative che poi facevano capo a imprese più grandi.

C'erano imprese che svolgevano la fase di concia e imprese che eseguivano la fase di rifinitura. Quest'ultima, che richiedeva competenze e abilità più specialistiche rispetto a quelle necessarie nella prima fase della concia, era divenuta una prerogativa esclusiva solo di alcune imprese.

Perciò le 35 imprese documentate a Solofra nel 1832 devono intendersi a capo di una fitta rete di attività minori la cui estrema duttilità permetteva di adeguarsi alle esigenze del mercato svolgendo una importante funzione ammortizzatrice.

Gli imprenditori, nei periodi di congiuntura positiva, in cui la domanda eccedeva la capacità produttiva della propria impresa, commissionavano all'esterno la realizzazione di varie fasi della produzione e non solo quelle che richiedevano competenze più specialistiche.

 

Fattori negativi

Questo processo era gravato da altri fattori come la bassa tecnologia, il lungo tempo di produzione che dipendeva dal tipo di pelle da conciare ma che non era inferiore a tre mesi e giungeva fino a un anno e mezzo. Grave conseguenza era il fatto che il conciatore andava incontro a cali di prezzo che gli impedivano di avere introiti sufficienti a coprire i costi sostenuti inizialmente. Inoltre questi imprenditori si avvalevano di capitali presi a credito per sostenere le spese. La mancata copertura dei costi dava luogo a situazioni di insolvenza creditizia che metteva in moto i tradizionali meccanismi giudiziari, previsti dalla legge, volti a salvaguardare gli interessi lesi dei creditori.

 

Procedure di fallimento

Coinvolti nella procedura del fallimento potevano essere sia il piccolo commerciante impegnato nell'attività di compravendita delle pelli, sia l'imprenditore che svolgeva la vera e propria lavorazione conciaria, sia l'impresa che aveva messo in commercio capitali più cospicui e soprattutto era proprietaria degli impianti di produzione sia quella che disponeva di un capitale più modesto.

Il fallimento dipendeva dalle caratteristiche strutturali dell'impresa conciaria ma non concludeva il suo ciclo vitale era infatti l'espressione di difficoltà temporanee in cui l'economia di mercato trascinava le attività conciarie.

 

Le fabbriche e le industrie esistenti nel 1842:

Carmine Antonio Buonanno

Gennaro Buonanno

Domenico Caiafa

Tommaso D'Amato

Diego D'Arienzo

Domenico De Santis

Pasquale e figli De Vita

Gaetano Garzilli

Giovanbattista e fr.llo Garzilli

Pasquale e fratelli Garzilli

Pasqualantonio Giannattasio

Donato Giliberti

Luigi Giliberti

Soccorso Giliberti

Donato Grassi

Tommaso Grassi

Tommaso Grimaldi

Giuseppe Guarini

Michele Guarino

Vincenzo Guarini

Nicola Maffei

Michele Martucci

Nicola Pandolfelli

Gio Grazio Petrone

Nicola Pirolo

Nicola e figli Romano

Giosuè Scarano

Gaetano e figli Trerrotola

Michele Troisi

Nicola e figli Troisi

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Si conciavano cuoi vaccini, pelli pecorine e caprine. I cuoi in parti erano del Regno delle Due Sicilie in parte straniere. Le pelli pecorine e caprine erano tutte del Regno.

Vi lavoravano circa 600 operai con un salario da grana 30 in giù per gli uomini per le donne di grana 12.

La quantità di lavoro in un anno: cuoi forestieri circa 400 cantaia, pelli caprine 500 cantaia, pelli pecorine 500 cantaia.

Il prodotto si vendeva nel Regno e all'estero. Le lane tutte nel regno.

(Dalla relazione del Sindaco Luigi Giliberti fatta il 24 giugno 1842)

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Nel corso degli ultimi anni dell'Ottocento le imprese furono investite dalla crisi economica che colpì in modo più o meno diretto tutte le imprese operanti nel settore.

 

 

Alcuni casi di fallimento all'inizio del Novecento

 

 

Società Giliberti-Romano

 

La società Ciriaco Giliberti-Nicola Romano "per l'esercizio di una conceria di pelli e per la rivendita di lana", investiva un capitale di ottomila lire.

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Una tradizione di famiglia.

Per entrambi i soci la lavorazione conciaria costitutiva una tradizione di origine familiare il padre di Nicola Romano, Raffaele, aveva infatti gestito per anni una conceria, ma, quando suo figlio aveva intrapreso l'attività produttiva per conto proprio, affidò a quest'ultimo i suoi capitali, limitandosi esclusivamente a fornire prestazioni lavorative in qualità di semplice operaio presso la sua conceria. Ciriaco Giliberti era in rapporti di parentela con Vincenzo Giliberti, noto nella zona come "attivo e intelligente" imprenditore, e da questi Ciriaco ottenne in affitto la conceria di via Campi con i relativi strumenti di produzione.

 

La conceria

La conceria in cui essi esercitavano l'attività produttiva vera e propria si sviluppava su due livelli ed era costituita da quattro vani al piano terra e da altri due vani situati al di sotto del livello della strada. Nel vano immediatamente adiacente alla porta d'ingresso venivano effettuate le operazioni preliminari della concia. Qui c'erano cinque "tavole da steccare", che venivano utilizzate per eliminare la lana dalle pelli, " un travetto e uno scanno di legno castagno che serviva per ungere le pelli ". Nella stanza accanto dove avveniva la rifinitura c'erano altri scanni, quattro tavole per l'apparecchio dei cuoi, 17 baccelle per stendere le pelli e una piccola caldaia di rame. Nei vani sottostanti dove c'erano otto tine di legno cerchiati in ferro, avvenivano le operazioni di concia vera e propria.

 

L'impresa gestita da Nicola e Ciriaco era un'attività a confine tra l'impresa e il negozio, non aveva solo finalità produttive ma anche attività di vendita dei residui della lavorazione, tra cui le lane ottenute dalla depilazione delle pelli grezze che fu oggetto di una vivace e intensa attività di compravendita. Nonostante ciò i profitti erano comunque esigui, tanto che spesso fu necessario coprire i costi di esercizio col credito.

Era una piccola attività di carattere artigianale impegnata prevalentemente sul mercato locale. Benché la conceria fosse dotata di una struttura adeguata a svolge anche l'intero ciclo produttivo, la sua produzione realizzava prodotti a mezza concia, i quali, per poter essere messi in commercio, necessitavano di un'ulteriore fase di lavorazione: la rifinitura.

I principali acquirenti del prodotto semifinito erano alcune imprese locali di maggiori dimensioni, in particolare quelle di Pasquale De Vita e di Francesco Buonanno che intrattenevano con l'impresa di Giliberti e di Romano rapporti commerciali,

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Il De Vita sostenne di aver acquistato dalla società Giliberti-Romano 100 dozzine di pelli a mezza concia, che egli avrebbe successivamente raffinato, "perché come è abitudine in paese solo pochi conciatori raffinano la loro merce e la riducono allo stato di poterla mettere in commercio".

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L'impresa di Giliberti e di Romano acquistava sulle piazze di Salerno e di Napoli le pelli grezze per poi vendere il prodotto semiconciato alle imprese più grandi di Solofra. Queste ultime, in forza della loro posizione dominante, riuscivano quasi sempre a spuntare nelle contrattazioni di compravendita il prezzo che risultava loro più conveniente. I margini di profitto dell'impresa in questione risultavano, in tal modo, spesso modesti, compressi come erano tra il prezzo che si determinava, a monte del processo produttivo, sui mercati di approvvigionamento della materia prima, e il prezzo che veniva imposto, a valle, sul mercato di sbocco locale.

Nel corso del 1902 fu proprio un problema legato alla mancata realizzazione di un prezzo adeguato a coprire i costi di produzione che spinse repentinamente l'impresa verso la crisi economica. Secondo quanto gli stessi imprenditori dichiararono in sede giudiziaria, nell'ambito del procedimento fallimentare che si aprì a loro carico, essi andarono incontro al fallimento per aver subito una grave perdita sul commercio del loro prodotto.

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"Noi avevamo sessantacinque quintali di pelli - riferì il Giliberti - che non volemmo cedere al prezzo di lire 220 al quintale e poi dovemmo venderla, dopo averla tenuto per lungo tempo in magazzino, per lire 117 al quintale "..

 

In tale vicenda l'impresa registrò una perdita di 6.000 lire che generò, come effetto immediato, una situazione di insolvenza creditizia.

 

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La ditta Vincenzo e Gaetano Giliberti

Vincenzo Giliberti e suo fratello Gaetano, sulla base di un atto donazione, nel 1895 ebbero la proprietà dell'azienda paterna con un capitale commerciale di 20.000 lire.

Al fine "di regolare più stabilmente per lo avvenire questo stato di comunione a meglio stabilire l'andamento del loro anzidetto commercio", essi si recarono dal notaio per stipulare un contratto di società. In questa, occasione venne stabilito che l'attività sarebbe stata esercitata sotto denominazione sociale di "Ditta Gaetano e Vincenzo f.lli Giliberto" che sia gli utili che le perdite sarebbero stati divisi in parti uguali e nel caso uno dei due avesse avuto necessità di ritirarsi dall'attività, si sarebbe proceduto alla "liquidazione degli affari" e a una divisione paritaria sia dell'attivo che del passivo dell'impresa. Inoltre essi si assumevano l'impegno di effettuare una "regolare tenuta dei libri di commercio, segnando tutti gli affari fatti a nome della ditta"

Cinque anni dopo, il 24 giugno del 1900, i fratelli Giliberti, ritenendo "che non conveniva loro di continuare il contratto di società e proseguire in comune le operazioni del loro commercio, si sciolsero dal vincolo di società che li avvinceva [ ... ], procedendo ad ogni conto di dare e avere nel rapporto tra di loro e quello coi terzi".

Il documento notarile non fornisce ulteriori specificazioni in merito alle motivazioni che furono alla base di tale scelta. Né è possibile sapere se lo scioglimento della società dette luogo anche a una divisione della proprietà della struttura produttiva.

Nel 1904 Vincenzo Giliberti risultava proprietario di due concerie e di diversi magazzini di deposito merci dislocati in varie parti del paese. La conceria di via Campi veniva spesso data in affitto, mentre quella situata al rione Toppolo, attigua alla sua casa di abitazione, costituiva la struttura produttiva in cui egli esercitava ordinariamente la sua attività. Questi era, enfaticamente descritto da un giornale locale (Corriere di Avellino, n. 11) come "giovane attivo e intelligente che studia tutti i mezzi per migliorare la sua industria e la posizione dei propri operai" aveva ottenuto, solo qualche anno prima, "lusinghieri attestati" nelle diverse esposizioni di Bologna, Marsiglia e Baden, "esponendo i suoi montoni lavorati".

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I locali dell'impresa

Nell'atrio che precedeva l'ingresso principale dell'abitazione, immediatamente adiacente alla conceria, vi erano due magazzini di deposito, " uno contenente pelli conce, ed un altro pelli grezze". Altri due depositi, invece, erano situati lontano dal luogo di produzione, uno " alla via delle concerie" e l'altro alla "via Magnolie".

La conceria di via Toppolo si sviluppava su due livelli. Al pian terreno vi erano due ampi vani contenenti 18 vasche in muratura, e altri due vani con vari cavalletti in legno. Al primo piano, invece, a cui si accedeva mediante una scala esterna, si trovavano tre luminosi locali adibiti "per l'apparecchio" delle pelli, più un'area scoperta riservata ad uso di spanditoio. Su questo stesso piano si trovava anche " uno studietto in legno contenente libri e carte del commercio ".

L'attività

Vincenzo Giliberti era impegnato nella realizzazione dell'intero ciclo produttivo, che andava dalle fasi di concia a quelle di rifinitura. La peculiarità di quest'impresa risiedeva soprattutto nella capacità di commercializzare il proprio prodotto su scala più ampia rispetto alla media delle imprese locali. Giliberti, infatti, disponeva di una rete di distribuzione che contava alcuni punti di vendita situati a Salerno, Messina e Marsiglia, la cui gestione era affidata a una serie di agenti di commercio che operavano anche a Milano, Genova Roma Santa Croce sull'Arno.

 

Nel 1904 l'impresa Giliberti registrò un passivo del valore di 59.699 lire, contro un attivo costituito dalla modica somma di lire 7.132. La procedura fallimentare però, grazie all'intervento di un parente del Giliberti che riuscì a fornire una solida garanzia per la soddisfazione dei suoi crediti, si concluse con un concordato che realizzò gli interessi sia dei creditori che del fallito, ritenuto "dalle autorità giudiziarie meritevole di considerazione perché vittima di infortuni".

 

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La Ditta De Santis

Nel 1910 la "Ditta De Santis" rimase vittima della procedura fallimentare in seguito al fatto che "le pelli comprate allo stato grezzo ad un prezzo corrente sul mercato, furono con gran difficoltà lavorate e restarono per molto tempo invendute, poi si dovettero vendere ad un prezzo inferiore a quello di acquisto"'.

L'impresa De Santis operava nel settore conciario dal 1902 e, nonostante la breve interruzione provocata dal fallimento del 1910, continuerà ad essere attiva fino al 1932.

La gestione dell'impresa avveniva all'interno del nucleo familiare e la stessa realizzazione del processo produttivo vedeva la diretta partecipazione di ciascun membro della famiglia. Nicola De Santis, titolare della ditta, esercitava "con capitali propri l'industria della concia" in collaborazione con suo fratello Giovanni, il quale si occupava, tra l'altro, anche di "acquistare e rivendere merce conciata per fuori Solofra". Allo stesso tempo essi si avvalevano anche delle prestazioni lavorative fornite dal padre, Michele, che, nonostante la sua avanzata età, forniva comunque un prezioso contributo alla conduzione dell'azienda.

"Lo stabile ad uso di conceria" era stato preso in affitto dal conte Emanuele Garzilli ed era composto da tre vani situati a pian terreno, "l'uno a destra del cortile entrando ed in fondo, e gli altri due più sottostanti a destra ed a sinistra dell'androne che dal detto cortile conduce al giardino di Emanuele Garzilli". Il primo dei suddetti vani veniva utilizzato come magazzino di deposito merci, mentre gli altri due venivano impiegati per effettuare le operazioni di concia. Qui, infatti, vi erano 11 vasche a muro, 3 botti, 4 tinelli e gli altri attrezzi e ferri del mestiere. La conceria non disponeva della consueta area adibita a uso di spanditoio, né dei tradizionali strumenti di lavorazione necessari ad effettuare le operazioni di rifinitura.

Michele e Giovanni De Santis, oltre a comprare pelli grezze e rivendere il prodotto semifinito, si "industriavano pure a conciare pelli per conto altrui". Durante le fasi di inventario dei beni suscettibili di pignoramento, infatti, essi dichiararono che parte del quantitativo di pelli in fase di lavorazione presente nella propria fabbrica non era di loro proprietà e che ad essi ne era solo stata affidata la lavorazione. L'impresa, dunque, operava anche su commissione di alcuni operatori conciari locali che provvedevano anche a rifornirla della materia prima necessaria. La produzione per conto terzi si realizzava "senza alcun, contratto scritto, ma per contratto verbale e per antica consuetudine". 

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La "Ditta Giannattasio"

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 La famiglia del Giannattasio era una famiglia di operatori conciari cui la proprietà dell'azienda era stata trasmessa di padre in figlio e dove pertanto la gestione dell'impresa era stata tradizionalmente associata alla proprietà degli impianti di produzione.

La fabbrica, situata al rione Toppolo, era di dimensioni medie e presentava la tipica struttura predisposta a realizzare l'intero ciclo produttivo.

Nel 1897 Francesco Giannattasio, si trasferì "a Buenos Aires chiamato dalla sorella, che dimorava colà con la famiglia, per collocarlo in una fabbrica di conciar pelli". Nel 1901 dato che in famiglia non vi era nessuno in grado di portare avanti la gestione dell'azienda paterna, sua madre, in qualità di legittima amministratrice dei beni dei suoi figli minori Felice e Annina, concesse in affitto "la fabbrica ad uso di conceria di loro proprietà ".

Qualche anno più tardi Felice, raggiunta la maggiore età, assunse la gestione dell'impresa.

 

Nel corso dei primi anni del Novecento quest'impresa riuscì a sviluppare una fitta rete di contatti commerciali con quelle che erano state le aree storiche di insediamento dell'industria conciaria settentrionale, come Genova, Milano e Torino.

Nell'ambito dei mercati meridionali, invece, i rapporti commerciali dell'impresa Giannattasio risultavano del tutto assenti con la piazza di Salerno, mentre erano alquanto intensi i legami con Napoli e in particolare con la "Ditta Gennaro Maffettone". L'impresa Giannattasio quindi aveva sviluppato rapporti abbastanza articolati con il mercato, a cui ricorreva anche per il reperimento della forza lavoro.

Infatti, benché Felice prendesse egli stesso direttamente parte alla realizzazione del processo produttivo, si avvaleva anche delle prestazioni lavorative fornite da cinque operai che percepivano un salarlo di 2 lire e 90 centesimi ciascuno.

Nel 1910 la Ditta registrò un deficit di 20.000 lire che portò alla sentenza dichiarativa di fallimento.

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La causa che generò il tracollo economico dell'azienda fu determinata da una perdita verificatasi in seguito "al ribasso di prezzo" subito da una partita di pelli che il Giannattasio aveva acquistato alcuni mesi prima dalla ditta Righetti di Napoli.

Il fallimento non dette luogo, però, alla definitiva scomparsa dell'attività produttiva, dato che si fece ricorso all'istituto giuridico del concordato, mediante il quale si pervenne ad una mediazione fra la massa dei creditori e l'imprenditore insolvente.

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Superata la situazione critica, il Giannattasio continuò ad esercitare la propria attività e alcuni anni dopo, nel 1918, "la sua fabbrica di cuoio per suola" fu tra la poche imprese solofrane che ebbe modo di ricevere la visita della "Commissione ministeriale per l'incremento dell'industria conciaria", nel corso della quale, "osservandosi i cuoi in corso di concia, tutti ebbero a complimentarsene con il direttore proprietario".

La ditta Giannattasio continuerà a essere attiva e comparve negli elenchi degli espositori irpini redatti dalla Camera di Commercio di Avellino nel 1931.

 

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(Da Valeria Ascione, L'industria conciaria di Solofra tra fine Ottocento e primo Novecento: un caso di distretto industriale, in AA. VV., Manifatture e sviluppo economico nel Mezzogiorno. Dal Rinascimento all'Unità, a cura di F. Barra, Avellino, 2000)

 

 

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