Il brigantaggio del XVII secolo

 

Le bande durante la rivoluzione di Masaniello (1647)

 

Termina con questo articolo il percorso all’interno del brigantaggio meridionale che è cominciato con gli episodi del periodo postunitario e poi, andando a ritroso, è proseguito con i fatti che avvennero durante la rivoluzione del 1799. Ci soffermiamo ora sulle vicende della rivoluzione masanelliana (1647), quando il napoletano fu attraversato da una gran quantità di bande armate guidate dai cosiddetti capipopolo. Si insorse allora contro le prepotenze e i soprusi a danno delle popolazioni inermi; contro tributi e obblighi vari, ingiusti e asfissianti, spesso non capiti e imposti dai baroni e dalla corona senza alcun controllo e senza possibilità di alcuna difesa; e ancora contro una gran massa di finanziatori  - i funesti arredatori -  che, speculando a loro favore sulla riscossione dei tributi, aggiungevano altro danno. La situazione era così degradata ed insostenibile, il malessere così diffuso e sentito che appena giunse la notizia, che il pescivendolo amalfitano Tommaso Aniello si era ribellato contro le gabelle napoletane, esplose un’insurrezione spontanea e violenta, che rapidamente coinvolse l’intero napoletano.

Siamo in un periodo in cui facilmente si formavano gruppi armati che scorazzavano nelle campagne a loro modo facendo giustizia. Sopruso si aggiungeva a sopruso. Né i tempi erano immuni da costumi briganteschi, come quelli di cui furono tristemente famose le Compagnie di ventura che, persino al servizio delle Regie Udienze (squadre di Campagna o Fucilieri di montagna), invece di assicurare l’ordine pubblico, diventavano una vera e propria piaga per le popolazioni. Tra questi soldati infatti c’erano delinquenti comuni, sbandati o gente che viveva alla macchia, che, mal pagati e senza controllo, si rifacevano sulla gente che li ospitava con ruberie e soprusi di ogni genere. Vale ricordare che la promessa di non avere gli odiati “alloggiamenti di soldati” fu tra le cause maggiori che aveva spinto i solofrani a vendersi agli Orsini.

Fu facile durante questa rivoluzione creare una banda, ogni paese ne ebbe una col suo capopopolo a vendicarsi contro nobili e ricchi signori, ad occupare e svaligiare case e palazzi, ad impossessarsi delle amministrazioni locali, a chiedere maggiori autonomie. A Montoro ci fu la banda di Pietro di Blasio, a Salerno quella di Ippolito Pastina, un fornaio che aveva in odio i soprusi, a San Severino ci fu Paolo Di Napoli, uomo sedizioso e temerario e cavallaro della Dogana di Foggia. Solofra, che per gli stretti rapporti con Napoli venne subito a contatto col moto, in questa occasione non ebbe un vero e proprio capopopolo. Molti seguirono il Di Napoli, che nel sanseverinese lottava contro i Caracciolo che erano anche i feudatari di Serino e quindi di S. Agata. Altri solofrani entrarono nella banda del Pastina per gli stretti rapporti che Salerno aveva con Solofra e perché il fornaio salernitano girando per la provincia era venuto a contatto con i danni che tale situazione arrecava al nostro commercio. Non fu difficile a questi solofrani invadere le strade tumultuando, minacciando di “bruciare, ammazzare et fare altri maltrattamenti” e di impossessarsi dei locali dell’Universitas I solofrani più facoltosi, colpiti dalle minacce della rivolta, si chiusero nelle loro case stringendosi intorno al duca Ferrante Orsini, che fu portato in salvo in una grotta del Vellizzano in località Sasso del Sorbo di proprietà dei Ronca. I casali più popolosi e operai  - i Volpi, la Fratta, la stessa S. Agata -  furono subito in mano ai rivoltosi che indissero  - siamo a fine agosto -  un parlamento cittadino. Nell’assemblea popolare fu eletto per acclamazione un sindaco amico, Geremia Troisio, che tracciò un ampio programma antifeudale. I suoi punti principali erano: la “reintegra di tutti i beni demaniali” che da sempre erano stati il sostegno dei poveri e che invece erano stati usurpati dai passati amministratori; la costituzione di un “archivio cittadino”, dove il documento conservato avrebbe limitato i soprusi; il mantenimento di tutti gli esercizi pubblici (panettieri, macellai, ecc) che assicuravano l’alimentazione alla popolazione; la garanzia dell’impunità per tutti coloro che erano impegnati nella lotta armata contro i fautori del feudatario. 

Intanto giungevano notizie del comportamento di Francesco Marino Caracciolo, che ospite dei fedeli Gaiano, aveva fatto piantare, sia a Montoro che a S. Severino, delle forche sulla piazza del mercato, a cui il Di Napoli, di risposta, aveva fatto “trovare impiccati alcuni cani”, provocando la furia del popolo e la ritirata del principe. Questo fu il momento più intenso della rivoluzione, poiché il Di Napoli, forte del sostegno di S. Severino, di Montoro e di Solofra, fece sollevare Serino e S. Agata, portando prima il suo aiuto al Pastina nell’assedio e nella presa di Salerno (dicembre) e poi rivolgendosi verso Avellino e Ariano con saccheggi di case, chiese e conventi, mentre il Pastina entrava in Aversa e Nola (gennaio). A questo punto inizia il declino del fronte rivoluzionario perché il re concesse l’amnistia a chi avrebbe abbandonato la lotta, e riuscì con vari stratagemmi a eliminare i capipopolo più bellicosi. Tra questi ci fu il Di Napoli, che si era autoinvestito del titolo di “principe di Avellino” ed aveva avanzato molte richieste, e che, convocato a Napoli, fu arrestato e, dopo un sommario processo, ucciso. Non meno atroce fu il periodo post rivoluzionario con connivenze tra baroni e banditi, i primi a riprendersi le terre e a vendicarsi con uccisioni e ritorsioni, i secondi a dar loro una mano per avere libero campo per altre violenze, ruberie, ricatti e assassini. Al terrorismo baronale si aggiungeva la violenza popolare.

A Solofra, che non aveva pagato i tributi durante tutto il periodo rivoluzionario, furono impiegate le forze regolari per “ripristinare l’ordine”. Rimase un sordo rancore contro gli Orsini e i loro amici che esplose a fine secolo con la lotta contro il fratello del Cardinale (e poi Papa), Domenico.

 

 

 

 

 

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