Solofra ricorda

 

Padre Floro Di Zenzo, un doveroso ricordo

 

 

Dantista e professore all’Università di Salerno

 

Nella primavera di venti anni fa moriva a Serino, dove era nato, Salvatore Floro Di Zenzo, monaco francescano, poeta, studioso di letteratura, docente all’Università di Salerno. Noi lo ricordiamo come grande conoscitore di Dante, perchè in questa qualità negli anni ottanta diresse la Lectura Dantis solofrana, un ciclo triennale di letture esegetiche delle tre cantiche della Divina Commedia che videro la presenza a Solofra di eminenti studiosi. Floro Di Zenzo in quei tre anni si mostrò vero amico di Solofra, poiché, portò nei suoi incontri solofrani il frutto dei suoi studi, che egli ci comunicava per prima, come una primizia. Padre Floro era un fine filologo, un dotto medievalista, uno studioso delle fonti della Divina Commedia, specie quelle arabe, che dettero una spinta considerevole agli studi sul poeta fiorentino. Proprio in quegli anni fu fortunato scopritore del codice palinsesto della Divina Commedia, il Phillips 9589, “l’unico che presenta delle varianti”, diceva il dantista con grande soddisfazione. Ebbene il Padre volle dare la notizia di quella sensazionale scoperta, proprio a Solofra  – si commentava l’ultima cantica del poema dantesco -  prima di portarla  presso i maggiori studiosi di Dante del mondo, a Fulda in Germania, a San Paolo del Brasile e in altre prestigiose università, dove era di casa. 

Ma non fu questo il solo caso, perchè si può dire che le letture dantesche solofrane ebbero, per merito dello studioso serinese, l’impronta di un fatto eccezionale. In altri incontri il Di Zenzo annunziò l’interpretazione di due oscuri versi dell’Inferno, quelli della invettiva di Pluto del canto VII e le parole dì Nembrot del canto XXXI, interpretazioni che causarono un grande interesse, suscitando non poche discussioni e una forte eco tra gli studiosi, perché  - Padre Floro aveva l’autorità per poterlo fare -  “mettevano in ginocchio tutta la critica dantesca di secoli” e "scomodavano parecchi santuari del dantismo".

Se questi furono gli eventi più movimentati non fu meno importante tutta l’innovativa impostazione che il monaco serinese dette alla lettura della Divina Commedia. Egli diceva che la via più corretta per capire l’opera di un autore è quella di far parlare l’autore stesso. Perciò per comprendere quale fosse il vero significato della Divina Commedia bisognava rivolgersi a Dante. Orbene il poeta fiorentino, parlando della sua opera, la chiama “lo sacrato poema” (XXIII Paradiso). Partendo da questa definizione, Padre Floro faceva osservare, che nel Medioevo i libri “sacrati” erano quelli messianici, quelli delle grandi profezie, i libri che contenevano qualcosa da rilevare. Se Dante definisce la sua opera “sacrato poema”, concludeva Padre Floro, significa che egli vi dava il valore di un messaggio di salvezza, che si rivela attraverso il cammino verso Dio.

Il viaggio attraverso i tre regni dell’oltretomba, precisava lo studioso, avveniva attraverso un lungo itinerario che comprendeva un primo momento, quello della caduta, dell’andare verso la morte che è configurato nell’Inferno, dove l’uomo perde gradatamente le caratteristiche proprie a causa del peccato, che lo deforma dal di dentro fino a giungere al ghiaccio della Caina, l’ultimo girone, che rappresenta la non vita. C’è poi il secondo momento, quello dell’attesa, e siamo al Purgatorio, in cui la morte dell’anima viene vinta dalla graduale conquista dello spirito umano che diventa sempre più capace di vita (faceva osservare il Di Zenzo come questo momento fosse scandito da significative presenze femminili, indici di vita). Infine c’è il terzo momento quello della pienezza, della conquista del sacro ed abbiamo il Paradiso.

Questa interpretazione dava alla Divina Commedia il valore di “un’epifania dello spirito” che può innalzarsi sulla scala dei valori riuscendo a sublimare le forze della materia fino a cogliere il sacro, che è “godimento intellettuale, luce ineffabile, in cui si svela anche il mistero di Cristo”. È proprio per questo significato “pieno, universale, che comprende l’uomo tutto intero e vale per tutti gli uomini che la Commedia diventa il libro per eccellenza, un vero libro”, diceva il Di Zenzo e continuava sottolineando che per comprendere a pieno la complessa simbologia della Commedia bisogna tenere presente questo percorso (egli lo chiamava “un’andata verso il centro”), che coglie il problema essenziale di tutta l’umanità, i suoi valori eterni. Questo tipo di lettura è quella che fa scoprire un Dante più vero, più vicino a noi non in senso riduttivo, un Dante che avrà sempre da dire qualcosa ad ognuno, in cui tutti si troveranno coinvolti in prima persona. Lo stesso Poeta usa per la sua opera un genere umile, la Commedia, proprio per essere capito da tutti, perché a tutti si rivolgeva, anche alle “muliercole”, ed usa la lingua del popolo, il volgare. Ogni altra lettura è superficiale, dove ci si ferma al primo significato (la “lectio facilior”) mentre bisogna porre ogni episodio su questo sfondo e farne una lettura profonda (la “lectio difficilior”).

A conferma Padre Floro citava il filosofo tedesco Erich Fromm che della Commedia dice “è un’universale historia salutis mundi rapportata ad altissimi livelli di dettato linguistico, un miracolo di letteratura, un libro sempre giovane, sempre nuovo, sempre attuale” e aggiungeva “siamo noi che siamo diventati vecchi, spiritualmente vecchi”.

Mimma De Maio

 

Da “Il Campanile”, 2008 (XXXIX, n. 6, p. 4)

 

 

 

 

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