La chiesa di Santa Maria delle selve,

a protezione della concia pastorale

 

 (ai Cappuccini)

 

Tra tutte le numerose chiese del territorio solofrano questa è senza dubbio la più significativa, poiché richiama un antico passato e perchè la sua collocazione, a mezza costa sulle pendici del Vellizzano, la pone tra i vari punti religiosi, e per di più mariani, a protezione della conca. Il suggestivo nome non si riferisce solo all’ambiente montano che la circonda, ma al valore che le selve avevano per i pastori che vi traevano il sostentamento, dal pascolo, alla legna, ai frutti, alla concia che proprio nelle selve è nata. Anzi questa era l’attività principale che si svolgeva sul posto, se si considera che alla destra della chiesetta c’è campo del lontro, dietro la località cantarelle, al suo fianco il vallone omonimo, più giù i caprai. Tutti noi sappiamo che  lontro e cantarelle sono i nomi delle fosse della concia pastorale, per cui la chiesa si configura a protezione di questa attività, secondo la primitiva funzione, che, fin da tempi ancestrali, ha avuto il divino nell’accompagnare i momenti essenziali della vita dell’uomo. La montagna di Vellizzano poi col suo caratteristico nome (da vello, la pelle dell’animale) conferma questa originaria impronta che i luoghi hanno. Un’antica attività dunque in uno degli insediamenti più antichi della conca, inglobati in un fondo chiamato in tempi lontani “costantini”, che andava dal fiume delle bocche a Turci e in cui si svolgeva  - il documento che lo descrive e molto esplicito -  la cosiddetta industria nemoris, legata cioè all’uso del bosco. 

Nel Cinquecento, quando i documenti in nostro possesso diventano più numerosi, era un importante punto religioso dei casali Vicinanzo e Sorbo, i cui abitanti governavano, nominati annualmente, la omonima Confraternita, gestendo i suoi beni secondo le regole della finanza ecclesiastica, a cui attingevano i Confratelli. Tra le opere pie c’era il sostegno agli “ammalati, poveri, vedove, pupilli, prigionieri”, la sepoltura dei poveri e dei confratelli, le processioni, tutte attività sovvenzionate da una questua che veniva fatta ogni martedì e la prima domenica del mese da persone appositamente nominate e vestite di un rude sacco. Due erano le feste principali che in quel periodo vi si celebravano: il martedì di Pasqua e a metà di agosto, accompagnate da una messa cantata, a suffragio dei morti della Confraternita. Poiché in queste occasioni c’era un grande afflusso di fedeli e la stagione lo permetteva, si allestiva all’esterno un altare con un grande crocifisso. La chiesetta era dunque al centro di un’intensa vita religiosa quando nel 1577, con disposizione testamentaria, Nicolò Landolfi donò un terreno per la costruzione di un convento, che nel 1585 ebbe la Bolla di fondazione dall’arcivescovo di Salerno Marsilio Colonna. Alla realizzazione dell’opera concorsero molti cittadini, l’Universitas che rese il monastero esente da tasse e gabelle, e il Capitolo della Collegiata (primicerio Agostino Garzilli). La costruzione del convento portò ad un ampliamento anche della chiesetta, da cui però ne rimase staccato con un muro, per non far perdere la preminenza della chiesa e per indicare che il convento si appoggiava ad essa, ma non la inglobava. Questa infatti continuò ad essere gestita dai laici della Confraternita. I monaci dell’ordine francescano, a cui fu affidato il convento, dettero vita ad una meritevole opera a sostegno dei malati poveri, attività che avrebbe dovuto continuare dopo la soppressione del convento nel 1809. Si fece infatti allora un progetto di un Asilo di mendicità, ma i locali, forse per la loro posizione troppo isolata,  rimasero abbandonati fino al ritorno dei Cappuccini nel 1830. E fu questa posizione isolata che fece inglobare il Convento nella successiva legge di soppressione del 1867. In tale occasione il Comune chiese la concessione dei locali, e della libreria del Convento, l’uso dell’orto e della chiesa, assicurandone, a sue spese, la cura. Richieste esaudite tranne per i libri che furono trasportati alla sede centrale di Nola.

Diversa vita ebbe la chiesa che, se pure in tono minore, continuò ad essere vicino ai bisogni dei fedeli, che la arricchirono di altari di jus patronale e di opere d’arte, tra cui una Pietà di Tommaso Guarini e una Madonna della Purità, molto probabilmente di Pacecco de Rosa (o come dicono i restauratori, forse sbagliando, di Angelo Solimene) e le tele del refettorio del convento alcune delle quali sono del solofrano Matteo Vigilante. Tutte queste tele hanno subito un restauro dopo il terremoto del 1980 ed ora sono ritornate al loro posto.

Vale ancora sottolineare ciò che la tradizione più recente ci tramanda della partecipazione della chiesa al concerto di campane che si scatenava il sabato santo, quando in quel giorno si celebrava la Resurrezione (sparo della gloria) e che iniziava con il campanone di San Michele, proseguendo con le altre chiese, secondo un preciso ordine, fino a raggiungere la comune esplosione finale. Ancora si ricorda una festa che si celebrava accompagnando la raccolta delle castagne, una vera ottobrata solofrana, che vedeva la gente radunarsi nello spiazzo dinanzi la chiesetta per riposare le membra dalle fatiche di quell’attività e rinfrancare lo spirito.

Oggi il posto è sicuramente un punto naturalistico di grande interesse turistico per lo stupendo panorama che si gode dal suo belvedere, e per l’ambiente montano da cui è circondato, mentre la chiesa continua la sua vita sotto la guida del suo antico e fedele custode, padre Venazio, ora accompagnato dalla presenza di padre Marino, che vi ha donato il tocco dei suoi fiori. La struttura conventuale, che ha avuto una buona ricostruzione e presenta ambienti spaziosi, potrebbe essere più proficuamente usata, come punto di accoglienza per il turismo o per incontri culturali se solo si riuscissero a superare gli ostacoli che la rendono praticamente inutilizzata. Infine vale denunziare l’obbrobrio dei cartelli turistico-naturalistici fatti apporre tempo fa dalla Comunità montana serinese solofrana con fondi europei, che parlano impropriamente di chiesa di San Francesco, mostrando non solo un vituperabile disprezzo per il significato e la storia del luogo e dei suoi monumenti, ma anche una ristrettezza mentale, inaccettabile oggi quando un semplice clik su internet avrebbe permesso di ovviare all’errore.

Mimma De Maio

 

 

Da “Il Campanile”, 2008, (XXXIII, n. 5, p. 4)

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