A colloquio con un reduce della guerra di Russia

 

 

 

Ci sono avvenimenti che col trascorrere degli anni vedono aumentare la loro incisività, per il valore di cui sono pregni, per l’efficacia dei loro significati come a dirci che quell’evento non può e non deve essere dimenticato. Mi riferisco a ciò che vissero tanti italiani nelle sterminate pianure russe durante la seconda guerra mondiale. Tra costoro c’era Carmelo D’Arienzo.

Il nostro concittadino fece parte del Corpo di Spedizione Italiano in Russia. Era un soldato di leva, classe 22, chiamato alle armi il 29 gennaio del 1942  ed arruolato nel 72° Reggimento Fanteria,  poi trasferito, il 3 agosto di quello stesso anno, al 79° Pasubio in Verona. Partì per la Russia il 14 agosto successivo partecipando alle operazioni di guerra in quella terra e vivendo la disperata ritirata nelle steppe gelate del Don, la cui tragica realtà ci è stata data più che dalle pagine della storia da quella dei tanti racconti fatti dai superstiti. 

La battaglia del Don, che coinvolse tutto lo schieramento tedesco ed alleato, tra la grande ansa del Don e il Caucaso, durò, per gli italiani, tre mesi, durante i quali i disagi di una guerra, già di per sé difficile, furono accentuati dalle gelide temperature, quell’anno particolarmente dure. Fu un fronte di 900 chilometri di sofferenze e di morte, che si frantumò contro la grande concentrazione dell’armata russa che chiuse tutto lo schieramento in un’enorme tenaglia. Ai nostri soldati toccò difendere 280 chilometri con solo 6 armate, male equipaggiate, ma animate da un coraggio che ci è stato sempre riconosciuto.

Il D’Arienzo fu coinvolto nella seconda fase della battaglia del Don. Era l’11 dicembre, ci dice, quando i combattimenti si fecero insistenti. I russi attaccavano con assalti continui e furiosi, usando la loro micidiale arma, il katiuscia. Non ci fu tregua, le ondate divenivano sempre più frequenti “ed erano in tanti”. Tutto questo inferno durò 5 giorni, cinque giorni di “apocalisse”, dice il D’Arienzo che era addetto alla ricetrasmittente che funzionò finché fu possibile.

Il cedimento fu inevitabile, venne a mancare l’appoggio dell’artiglieria, non c’erano munizioni,   viveri, acqua. I soldati cadevano ad uno ad uno, interi reparti furono completamente annientati fino a che si ebbe al certezza dell’accerchiamento, di trovarsi in una sacca senza via di uscita, per di più incalzati dai soldati russi rincuorati dai risultati, sicuramente più adatti a sopportare quel freddo e meglio equipaggiati.

Il racconto dei giorni della ritirata si fa incalzante e crudo. Si andava a piedi, nella neve alta dove si affondava o dura dove l’equilibrio diveniva precario, sferzati dal freddo pungente e dal gelo che se di giorno era di meno 25 gradi di notte raggiungeva i meno 40. Si giunse anche ai 47 al di sotto dello zero. Tutto si gelava dal respiro, all’urina, dallo sputo, all’acqua che non si poteva bere. Si andava spinti dalla voglia di non soccombere, chi si fermava era perduto, cadeva e non si rialzava più. Si andava senza possibilità di difendersi, sempre inseguiti dal nemico che si nascondeva dappertutto, compariva all’improvviso, faceva imboscate. Si riposava dove e quando si poteva, le rade case erano insicure poiché non sempre si trovava un posto più protetto o un po’ di caldo o del cibo. Le isbe russe potevano essere terribili trappole. Solo dal cielo giungeva qualche aiuto paracadutato dagli aerei tedeschi, era cibo ma erano anche munizioni, allora succedeva che cadendo al suolo quelle esplodessero e l’aiuto sperato si trasformava in fonte di altra morte. Ricorda il nostro “soldato nella neve” la “valle della morte”, la ormai famosa depressione nei pressi di Toposh dove la carneficina divenne totale con i suoi trenta mila morti. Ma anche con i suoi coraggiosi episodi sotto il fuoco dei micidiali katiuscia. Era lì il D’Arienzo quando dovette lasciare i suoi commilitoni, anche i più cari, e quando i tanti, i troppi feriti furono ammassati al riparo di un capannone perché fossero difesi dal freddo della notte e quando da un costone, dove si erano riparati, videro il capannone avvolto dal fuoco di un incendio. Testimoni di quella mattanza furono con lui altri solofrani, alcuni ebbero la fortuna di portare tra noi quei terribili ricordi, altri li lasciarono lì con loro nella neve.

Il racconto contiene gli stessi orrori, ha la medesima connotazione di oppressiva impotenza, crea la stessa atmosfera di quelli narrati da Bedeschi o da Rigoni Stern, che erano con lui negli stessi luoghi e nella stessa vicenda, allora mi accorgo di essere di fronte ad uno di quei testimoni silenziosi che ha conservato nella memoria la sua vicenda, rimasta lì senza subire dal tempo neanche una scalfittura, un testimone che dice con naturalezza degli arti  - tutti e quattro -  completamente congelati, un congelamento di secondo grado, e della sua buona sorte, di aver avuto cioè quel male, che prendeva e non perdonava, tardi, in tempo, spiega, per avere le cure in due ospedali militari già in quei luoghi di guerra e poi in Italia, al “Mazzacorati” di Bologna, dove, guarito dal congelamento, l’11 marzo del 1943, venne inviato in convalescenza a casa.

Interessante è quello che si legge sul suo foglio militare. Qui è scritto che il militare è “ritornato in servizio al 79° Reggimento il 25 aprile del 43”, mentre la voce successiva dice: “sbandatosi in seguito agli eventi sopravvenuti all’armistizio dell’8 settembre” e poi “considerato in servizio dal….”, e così via una sequela di scarne notizie, che contrastano con ciò che il suo racconto aveva fatto intravedere e che creano un gelo, come quello dell’inverno nelle lontane lande ucraine. Anche quel foglio mostra una gelida lontananza verso un tragico vissuto subìto negli anni della giovinezza, e nei riguardi di un simile testimone, che anzi è posto nella massa anonima dei tanti “sbandati” dell’8 settembre.

Ancora più gelido e distante appare il tutto se si considera che il nostro D’Arienzo non ha avuto alcun riconoscimento, non una medaglia, che non si nega a nessuno, non un segno, mentre quella esperienza è rimasta in lui, per tutti i suoi anni, viva, mai dimenticata o entrata solo in penombra come per ristoro.

Mimma De Maio

  

 

 

Da “Il Campanile”, dicembre 2004 (XXXV, 11, p. 4)

 

La famiglia D’Arienzo

 

 

 

                                                                                

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