| Quando si
  parla del monastero di S. Agostino i giovani solofrani non
  sanno cosa sia, né riescono a configurarsi le sue forme o il luogo dove
  sorgeva. Si può ricorrere alle fotografie, poiché dopo la Collegiata è stato il
  monumento più riprodotto e sicuramente ci si rammarica che la ricostruzione
  non ce lo abbia restituito, come è successo per il
  Palazzo ducale, che in più la comunità acquistò da privati. Per il monastero
  invece si decise, all’indomani del terremoto, di costruire al suo posto un
  diverso edificio e tutti ne ricordiamo il cattivo
  esito  - fu chiamato il “mostro” –  né dimentichiamo un secondo intervento, che
  in malo modo ha cercato di restituire alla costruzione una parvenza delle
  antiche sembianze. S.
  Agostino, dunque, era un monastero e una chiesa che risalivano al Trecento,
  la cui funzione fu strettamente legata all’attività
  artigiano-mercantile della nostra cittadina, che già in quel tempo
  aveva capacità autonome. La costruzione avvenne ad opera
  del giovane feudatario Filippo Filangieri ed ancor più per volere della madre
  Francesca Marra, che durante la reggenza aveva sposato, in seconde e terze
  nozze, due rappresentanti di una delle famiglie più importanti della Salerno
  artigiana dell’epoca. Fu proprio lo stretto rapporto di Solofra con il centro
  mercantile di Salerno che si volle sfruttare. Il complesso
  infatti fu voluto per creare nel nostro paese un punto di raccolta dei
  prodotti  - ecco il motivo della sua
  collocazione allo sbocco della via che viene dal Toppolo - che si conciavano
  nelle botteghe lungo il fiume. Bisogna tener presente che a quei tempi era
  necessario accumulare un buon numero di pelli prima
  che iniziasse il lungo e pericoloso viaggio mercantile verso i luoghi
  fieristici. Questa raccolta avveniva sotto la protezione del monastero che era collegato con l’omonimo monastero di Salerno,
  centro del mercato delle pelli di quella città. La sua fondazione di
  conseguenza provocò a Solofra il trasferimento di diversi mercanti e
  conciatori, sia da Salerno che dal salernitano, che
  in questo secolo  -  siano nel Trecento -  formarono la base più sostanziosa della
  società solofrana.  I
  due edifici insieme alla chiesa di Santa Croce, posta un poco più in basso,
  crearono alla sommità della strada, detta fin d’allora Via nuova (oggi via Roma e via Gregorio Ronca), un centro mercantile, che
  fu l’inizio della famosa Platea
  solofrana, la strada del commercio, che noi ancora oggi chiamiamo Piazza. La costruzione subì durante i
  secoli vari ampliamenti con il sostegno delle famiglie solofrane. La più
  munifica fu quella dei Petrone a cominciare dal capostipite, Andrea, che
  contribuì in modo sostanzioso alla costruzione della chiesa e volle
  l’istallazione in essa di una tomba di famiglia e di
  un sedile, posto in luogo distinto di fronte al pulpito, che per molto tempo
  fu occupato dai membri della famiglia. Costoro inoltre in diversi periodi
  successivi contribuirono all’ampliamento e all’abbellimento sia della chiesa che del convento assegnando alla istituzione persino un
  fondo rustico. I lavori più sostanziosi si ebbero alla fine
  del Quattrocento, quando, a causa di un terremoto, si rifece la cupola
  e il cappellone. Altri interventi avvennero all’inizio del secolo successivo,
  quando fu rifatta l’ultima parte del campanile, che aveva una lanterna con
  quattro bifore e quando, pochi anni dopo, il chiostro fu abbellito con il
  colonnato che è giunto fino ai nostri giorni. Tra gli interventi di restauro
  va ricordato quello terminato nel 1746 con la consacrazione della chiesa ad opera del vescovo Costantino Vigilante.  La
  chiesa aveva due entrate, una più grande ad ovest sulla la via
  Nuova, l’altra a sud verso la via Cupa (ora Abate Giannattasio). Aveva
  diverse cappelle ai due lati con pietre tombali delle più antiche famiglie
  solofrane, mentre i documenti ci permettono di
  seguire i vari interventi dandoci una descrizione precisa del tempio e della
  sua ricchezza.  Il
  convento ha sempre ospitato un buon numero di monaci e ci fu un periodo, nel
  Cinquecento, in cui la comunità solofrana nominava i suoi rappresentanti in
  una specie di organo di gestione. Sicuramente prima
  che la Collegiata
  avesse il suo Collegio canonicale in rappresentanza
  delle famiglie solofrane, S. Agostino svolse una funzione di coagulo della
  vita comunitaria.  Aveva una fornita
  biblioteca di testi di teologia e medicina, donati anche da studiosi
  solofrani, ed ospitò una scuola di musica. Fu soppresso nel decennio francese
  (1806-1815) seguendo la sorte di molti centri ecclesiastici nella ventata di
  trasformazione dell’antico stato feudale meridionale in stato
  moderno. L’edificio fu assegnato al Comune che vi pose la sua sede. In verità
  anche prima l’Archivio della Universitas
  era collocato in un locale del convento a piano terra a cui si accedeva dal
  chiostro. A quei tempi infatti e fino alla
  costituzione dello Stato moderno, per reggere un Comune, che aveva funzioni
  limitate, non c’era bisogno di uffici. I locali del monastero lungo tutto
  l’Ottocento furono il centro della vita comunitaria.
  Accolsero per esempio l’Ufficio postale, il Teatro comunale e furono
  arricchiti dagli affreschi, nel salone superiore, del pittore Alfonso Grassi
  andati perduti.   La
  chiesa fu demolita nel 1887 con decreto provinciale per motivi di viabilità.
  Siamo in un periodo in cui i centri della nostra provincia di dotavano di una rete stradale interna, comoda e moderna, e la
  chiesa con la sua mole occupava gran parte della sede stradale. In questo ambito la nostra Platea (oggi Piazza Umberto I e
  Via Felice De Stefano) aveva subito pochi anni prima un ampliamento con
  l’apertura del viale che porta a S. Domenico. Era allora sindaco Arcangelo Giliberti mentre gli assessori erano Costatino Vigilante
  della famiglia del Sorbo e Liborio Giannattasio, dell’antica famiglia
  baronale, che non riuscirono ad impedirne la demolizione nonostante il deciso
  intervento del nostro rappresentante alla Provincia, il magistrato Giuseppe
  Maffei. Le lapidi sepolcrali furono trasferite nella chiesa di San Domenico mentre parte delle sepolture, rimaste nel terreno,
  emersero quando si fecero i lavori di sistemazione della strada e le ossa
  furono portate al Cimitero. Il vuoto lasciato lungo il muro orientale del
  monastero fu colmato con la costruzione degli ambienti, al
  di qua del campanile, che ospitarono a piano terra gli uffici della
  Polizia urbana. Di tale costruzione fece parte un ambiente, prima del
  porticato, occupato dalla Società di Mutuo Soccorso che si trovava al di sotto della sede stradale per accedere al quale si
  scendevano diversi gradini: era una parte della cripta della chiesa.   La
  fotografia che pubblica questo giornale e quelle poste nelle pagine del sito solofrastorica.it danno una chiara
  idea delle dimensioni e delle forme dell’intero complesso mentre in
  biblioteca è esposto un modellino del monastero, opera dell’artista solofrano
  Vito D’Urso, a tutti però manca la chiesa poiché non ne abbiano alcuna
  l’immagine: quando fu demolita la macchina fotografica non era stata ancora
  inventata.   Mimma
  De Maio |