Articolo da “Il Campanile” 2003 (XXXIV, n. 10, p. 4)

 

 

 

La “Solofrana”, un corso d’acqua dal passato importante

 

 

A Solofra era chiamato Fiume delle Bocche, a Montoro rivus siccus (riosecco o risicco

 

 

Tutti noi sappiamo quanto il nostro corso d’acqua sia negativamente famoso, insieme al Sarno, per il suo contributo all’inquinamento del golfo di Napoli. In effetti è ridotto ad una cloaca a cielo aperto che accoglie un rigagnolo d’acqua maleodorante e guardato con diffidenza da tutti e di cui nessuno vuole parlare. E noi abbiamo anche la possibilità di costatarne la sua bruttezza se percorriamo la nuova strada che lo costeggia alle spalle della Collegiata, mentre più sopra, al Toppolo, il suo invaso è pieno di sterpaglie toccando le vecchie concerie, fino ad arrivare al ponte della Scorza quando ancora si vede il suo greto sassoso e tristemente vuoto. Tutto questo però non era così una volta e non mi riferisco a quando la Scorza era luogo di passeggiate salutari e Solofra era denominata “località di soggiorno”, quando accoglieva sia le famiglie dei solofrani, che risiedevano a Napoli, per le vacanze autunnali nella casa solofrana sia famiglie napoletane amiche o che raggiungevano Solofra per vivere le famose ottobrate solofrane, come ci è raccontato ampiamente dalle pagine d’inizio Novecento delle “Rane”. Né mi riferisco a ciò che era fino a tutti gli anni cinquanta quando ospitava lungo le sue rive della Scorza, al di sotto della “peschiera del mulino”, i solofrani nelle feste campagnole, oppure faceva da sfondo, insieme al liarvo, alla festa della Madonna del Soccorso, che offriva all’ombra dei suoi castagni occasione di un festoso ritrovo. Mi riferisco ad un tempo più lontano quando questo nostro corso d’acqua aveva acque abbondanti e pulite che, percorrendo tutto il fondovalle ricevevano qua e là nuove acque e con esse contribuiva a fare della nostra conca un “luogo salubre” con boschi, selve ed aria pura, come esattamente dice il nome “Solofra”, datogli appropriatamente dai suoi primi abitanti. Proprio per la ricchezza delle sue acque all’altezza della Collegiata lo troviamo col nome di “flubio  - cioè “fiume”, corso perenne - come Fiume era chiamato tutto il casale delle concerie prima di essere denominato Toppolo. E per inciso faccio rilevare che ricchi di acqua erano tutti gli altri invasi  - parlo del vallone del Sorbo o di quello di Caposolofra -  tanto che ancora nel Cinquecento erano usati per il trasporto a valle della legna tagliata sui monti, come chiaramente si legge in un articolo degli Statuti solofrani, mentre l’acqua che scorreva in un altro vallone, quello dei granci, ancora nel Settecento rappresentava, a causa dei suoi straripamenti, un problema per i campi di S. Agata. Ma ritorniamo al nostro fiume (quando si meritava questo nome) e andiamo alla località “Chiusa”, che era tutta occupata dalle sue acque, e dove esso aveva un doppio nome “flubio rivus siccus” in cui è racchiusa tutta la sua importanza e la sua funzione. Infatti è in questa zona che il fiume straripando formava un ampio greto usato, quando le acque ritornavano nel loro alveo naturale, come strada. Ecco allora il fiume offrire ai pastori sanniti la via (appunto rivus siccus) per raggiungere i pascoli invernali della pianura salernitana. Quel rivus siccus era, dunque, in quei tempi lontani un tratturo fluviale, rispondendo esattamente alle abitudini di quei pastori che usavano, nei loro trasferimenti, proprio i greti dei fiumi. Saranno poi i romani a farne una via  - la “via antica che va a S. Agata” dicono i documenti -  per cui al fiume rimase solo il nome “rivus siccus” (risicco a S. Pietro) fino a S. Severino dove prendeva il nome di “Saltera” fino alla confluenza col Sarno.

Fu ancora la realtà di questo fiume a permettere la costruzione della pieve di S. Angelo e Santa Maria sulla collina dove ora è la Collegiata nei cui campi già si praticava la concia. Ma è proprio la concia che ha dato fama al nostro fiume. Quest’attività ha bisogno del tannino, che in abbondanza si raccoglieva lungo il corso d’acqua, ed ha bisogno di acqua, molta acqua, e poiché era maleodorante, anche quando si conciava al vegetale per i cattivi odori della fase della macerazione, questa località, la conca solofrana, così appartata, dove l’aria pura tra i boschi attenuava “la puzza della concia”, fu favorita e protetta da Salerno. Questo grande centro mercantile infatti aveva il problema delle concerie, che gli Ebrei possedevano nella giudaica salernitana  - i vicoli stretti di via Mercanti -  che furono spostate proprio lungo le rive della futura Solofrana, da S. Severino (allora si chiamava Rota) a Solofra. Qui c’erano tutte le condizioni perché la concia potesse svolgersi senza problemi e dove soprattutto c’era la pieve che apparteneva alla Chiesa di Salerno la quale aveva anche la gestione della Giudaica ebraica. Ecco allora come questa attività solofrana, legata al fondo pastorale, diventò un’attività stabile e caratteristica del posto e perché fu protetta da precise leggi sia longobarde che normanne e persino da disposizioni imperiali del grande Federico II di Svevia.

Dobbiamo quindi a questo insieme  - pastori, fiume, pieve, boschi -  se la concia si fermò a Solofra e ne diventò un’attività specifica e connaturata al territorio. E il nostro fiume l’ha permessa e sostenuta quando non era una cloaca a cielo aperto e quando le “acque lorde”, come erano chiamate le acque della concia, erano usate per irrigare i campi essendo, per il contenuto, tutto vegetale, altamente concimanti. Per concludere mi piace sottolineare un articolo dei nostri Statuti, il n 50 del primo corpus statutario, quello più antico  - risale al XIII secolo -  nel quale i conciatori solofrani si mettono d’accordo sull’uso dell’acqua stabilendo una turnazione, quando le acque reflue venivano scaricate senza problemi nel fiume e quando le concerie non erano che fosse interrate o seminterrate ospitate sotto tettoie (astraco) coperte da scandolis (mattoni) ed aperte verso il fiume.

Mimma De Maio

 

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