Traversie finanziarie e feudali della comunità solofrana nel Cinquecento.

 

 

I danni del dominio feudale alla economia solofrana

 

 

 

La comunità solofrana ha sempre poco sopportato il dominio feudale, che era il nemico numero uno delle sue attività, sia quelle artigiane che quelle commerciali. Il feudatario, infatti, oltre a godere direttamente di alcuni beni (detti feudali) e a riscuotere su altri del danaro (i censi), con altre sue prerogative pesava enormemente sulle attività solofrane.

C’era, per esempio, una tassa che risultava particolarmente onerosa, era il laudemio, che si pagava quando un bene veniva venduto e siccome a Solofra i beni venivano usati come pegno nel prestito del danaro o nelle contrattazioni commerciali, succedeva che in queste occasioni si faceva un atto di vendita che in effetti non era una vera e propria vendita, ma su cui il feudatario pretendeva il pagamento di questa tassa anche da parte del compratore e del venditore, cosa che era vietata dagli Statuti. Essa veniva, quindi, a pesare sul commercio. Per questo motivo i solofrani avevano ottenuto un articolo statuario che ne vietava una parte, dimezzando la tassa, che però non veniva rispettato.

C’erano poi i diritti sulle gabelle e sui dazi e quelli della giurisdizione (le cause che avvenivano nel tribunale locale) che erano altri ostacoli all’economia locale. I primi perché erano tasse vive sulla produzione locale, i secondi perché la giurisdizione era molto viva in una comunità che usava il debito per il commercio per cui avveniva frequentemente di ricorrere a dilazioni o a pignoramenti o ad altri contrasti e liti, che si risolvevano nel tribunale locale. Anche qui il feudatario poteva far valere la sua prepotenza, come per esempio non rispettando alcune clausole che permettevano alcune dilazioni nel ricorso agli atti giudiziari.

Difficilmente la comunità poteva contrastare queste prepotenze, sia per i favoritismi di cui godevano i feudatari, ma soprattutto perché a Napoli, dove si doveva ricorrere, la Corte non era sempre forte nei riguardi della feudalità, alla quale per tenersela buona, permetteva queste prepotenze, che sono passate alla storia col nome di abusi feudali.

Oltre a ciò c’erano tantissime altre angherie che il feudatario poteva imporre alle comunità. Tra queste l’uso del demanio pubblico (le terre di tutti) che in teoria erano delle comunità, su cui, invece, il feudatario pretendeva delle tasse per il pascolo o per l’uso di un bosco o per porne a coltivazione una parte o per l’uso della legna o di altro prodotto del bosco e soprattutto per l’uso  dell’acqua. Quest’ultima angheria era quella che più pesava sulla comunità solofrana per via della concia, che dal demanio non prendeva solo l’acqua, ma anche la corteccia delle querce e dei castagni e persino le pietre per la calce.

Quando la concia solofrana cominciò a costituire un grande valore per l’economia l’angheria dell’acqua, imposta dagli Zurlo, diventò troppo pesante ed ancora più se ne sentì il peso con Ludovico della Tolfa, divenuto feudatario nel 1528. Per questo motivo i solofrani si rivolsero alla Regia Corte di Napoli tanto che Carlo V, allora come re di Spagna, confermò all’Universitas di Solofra «le ragioni sulle acque e sui mulini di Solofra con loro fabbriche et edifici e con tutti loro introiti». E poiché il della Tolfa non ne volle sapere di rispettare tale prerogativa, l’Universitas decise di chiedere l’autonomia feudale comprandola dalla Regia Corta. Essa in effetti, entrò nel regio demanio, quindi venne a dipendere dal re e non dal feudatario. La Corte in tal modo continuava a riscuotere le tasse (le funzioni fiscali) ordinarie e straordinarie, come quando c’era il feudatario, ma riscuoteva anche tutti gli altri diritti del feudatario.

 

 

 

 

 

 

 

La difficile gestione dell’autonomia demaniale

 

 

Per Solofra tale status significava dare respiro alla sua economia, infatti non c’erano le angherie del feudatario, ma significò anche (bisogna considerare che non si era in uno stato di diritto) venire a contatto con finanziatori e fiscalari  della Corte (erano coloro che anticipavano le entrate delle terre che poi riscuotevano presso le comunità) i quali perpetravano altri soprusi.

Gestire una economia in forte evoluzione non era però facile. Per esempio la comunità solofrana dovette ricorrere ai propri fiscalari (detti anche arrendatori) a cui vendeva le proprie tasse (“vendere le terze” si diceva). Erano anch’esse persone che, come avveniva per la Corte, anticipavano una certa somma alla Universitas, gravata dell’interesse del 10%, e avendo il diritto di riscuotere i dazi e le gabelle. Anche costoro potevano, in vari modi e all’incontrario di quelli della corte, imporre dei soprusi. Come dire liberatosi di un male se ne incontrava un altro non meno subdolo.

Durante il periodo demaniale, che va dal 1535 al 1555 e vide un grande sviluppo della economia locale, la comunità di Solofra ebbe a che fare sia con vari i fiscalari della Corte di Napoli sia con quelli propri a cui l’Universitas si rivolse per avere dei prestiti per pagare l’autonomia feudale, sia al Della Tolfa che alla Regia Corte.

In dieci anni Solofra impegnò le sue gabelle e i dazi per quasi 18.000 ducati con un interesse del 10%, rivolgendosi a piccoli finanziatori, i quali poi provocavano altri problemi di raccordo e gestione, infatti c’era un’altra persona, il napoletano Berardino Sarrocco, che si preoccupava di pagare il dovuto ai creditori e c’erano i gabellieri locali che raccoglievano praticamente le gabelle. Il sistema insomma era contorto ed oneroso.

Per risolverlo, visto che il gettito delle entrate aumentava, nel 1544 i solofrani fecero una importante operazione finanziario-fiscale, vendettero al Sarrocco, la riscossione di tutte le gabelle e i dazi per dieci anni per 4000 ducati l’anno (in dieci anni si prevedeva quindi di guadagnare solo sulle gabelle 40.000 ducati). Il Sarrocco ebbe in effetti l’incarico di eliminare gradualmente i debiti detti sopra, di pagare annualmente gli interessi, ricevendo per l’incomodo 179 ducati.

Restavano le tasse ordinarie (670 ducati all’anno) che ogni famiglia lavorativa doveva pagare alla Regia Corte.

Nello stesso anno l’Universitas fece un’altra operazione, cioè vendette i beni feudali ad Alessandro de Antenoro di Napoli, per 4000 ducati, che permise di eliminare altri debiti che pesavano su questi beni. In questa operazione entrò lo stesso Sarrocco. il quale ebbe l’incarico di gestire tale indebitamento.

In effetti mentre l’Antenoro, un finanziatore figlio di un importante mercante fiorentino che operava nel napoletano, entrò nel possesso dei beni feudali di Solofra compresa la giurisdizione, il Sarrocco, come gestore delle gabelle e dei debiti, ne venne a controllarne l’economia.

 Meglio questo di un feudatario con le sue prepotenze ed angherie, con i suoi sgherri e le sue carceri.

Queste operazioni, a parte la loro specifica valenza, ci danno la possibilità di conoscere il valore della economia solofrana a metà Cinquecento, ci permettono di conoscere con maggiore precisione i beni feudali di Solofra. Essi erano due terre dette “starza soprana” e “starza sottana”, site nel casale Burrelli (pie’ S. Angelo), un palazzo costruito dieci anni prima con più appartamenti inferiori e superiori con cortile, giardino, puteo e condotto di acqua2 sito anch’esso ai Burrelli e confinante con i beni della “starza”, un oliveto sito in località “scanate” (quello intorno al castello ma non il castello), in più 96 ducati all’anno per il censo su alcuni beni, il laudemio e la giurisdizione.   

Questa operazione fu fatta dal notaio napoletano Marco Andrea Scoppa nella curia di Solofra alla presenza del sindaco degli eletti e dei deputati di quell’anno e di un folto numero di cittadini.

 

 

 

 

 

La vendita di Solofra alla Ferrella-Orsini

 

Alla fine dei dieci anni, il 18 settembre del 1555, la Comunità solofrana, avendo dovuto subire “danni ed interessi” e soprattutto avendo dovuto sopportare la piaga degli alloggiamenti, cioè l’obbligo di dare vitto e alloggio alle compagnie di militari di stanza nel napoletano, che gli avevano provocato un grave danno anche di 2000 ducati ogni alloggiamento, decise di vendersi alla Duchessa di Gravina Beatrice Ferrella Orsini e di rinunziate ad essere nel demanio regio.

La vendita fu contrastata da un acceso gruppo di oppositori che trovarono l’accordo solo perché la Duchessa promise di fare Solofra “Camera riservata”. Era questa una prerogativa che il feudatario poteva chiedere su una delle sue terre, che in tal modo veniva liberata dal peso degli alloggiamenti. Promise ancora nuovi capitoli statuari, che in effetti furono 36.

L’Universitas, dunque, cedette alla Orsini non solo i beni feudali dati all’Antenoro, compreso questa volta il castello, ma anche tutti gli introiti delle gabelle e dei dazi, oltre al laudemio e alla giurisdizione civile criminale e mista, in più 600 ducati annui per il godimento di alcuni diritti.

La compera di Solofra costò all’Orsini 17.000 ducati che comprendevano 7500 ducati da dare alla Regia Corte come costo del feudo, più alcuni debiti di dieci anni prima non ancora risolti e altri nuovi debiti. Ciò comportò però una causa con l’Antenoro, che si oppose, anche se il contratto fatto con l’Universitas di Solofra contemplava il diritto di retrovendita cioè di ricompera dell’oggetto di vendita, in questo caso di Solofra. Per questo motivo perse la causa.

 

 

 

 

 

 

Una causa intentata dall’Universitas di Solofra contro la Orsini

 

 

Il dominio feudale della Ferrella-Orsini non fu felice, tanto che l’Universitas di Solofra intentò nel 1577 una causa contro l’Orsini accusandola di non rispettare i capitoli statuari da essa firmati, di non fare niente affinché Solofra vedesse rispettato il suo diritto di Camera riservata, e soprattutto di non rispettare il demanio. La causa comportò la promulgazione da parte della Università di 50 capitoli in cui furono esposti i capi dell’accusa alla Orsini sui quali dovettero pronunciarsi cinquanta testimoni di Solofra e dei paesi limitrofi come Serino, Montoro e persino S. Severino. L’interrogatorio, che fa parte degli atti del processo, costituisce un documento interessante non solo per conoscere le prepotenze a cui un feudatario poteva giungere, e come facilmente non venivano rispettati i capitoli statuari, ma anche per avere chiare alcuni elementi della realtà solofrana del Cinquecento.

Tutti i testimoni confermarono il totale non rispetto degli articoli statuari da parte della Orsini, sia quelli che riguardavano la curia e la giurisdizione, sia la figura del Capitano, che era una persona del feudatario e doveva avere dei requisiti di sicurezza, sia l’elezione degli amministratori che spettavano all’Università e invece erano controllati dalla Duchessa, sia il rispetto di alcune prerogative profumatamente pagate, fino ad arrivare al divieto per i conciatori solofrani di uscire di notte per recarsi nelle concerie o al divieto di caccia. Naturalmente c’era la pretesa del pagamento dell’acqua.

Circa gli alloggiamenti i dichiaranti dissero che la Orsini non aveva fatto mai nulla per evitarli pur ogni volta sollecitata. Si disse che essi avevano provocato molti danni, non solo per quanto costavano, ma per i saccheggi e le depredazioni a cui i soldati si abbandonavano, quanto anche alle spese che i solofrani avevano dovuto sopportare per chiedere l’allontanamento dei soldati. C’erano stati anche delitti che provocarono una inchiesta da Napoli. Si dichiarò che l’unica causa della rinunzia al demanio era stata la protezione dagli alloggiamenti e non i debiti, poiché in quel tempo ed anche successivamente, ancora dicono i testimoni, c’erano molti solofrani che erano proprietari di 10 e 20 mila ducati e che da soli avrebbero potuto comprare il feudo. Molti chiesero la revoca della vendita.

L’accusa si rivolse anche contro la costruzione del palazzo ducale per due motivi, sia perché l’Orsini aveva avuto, all’atto della compera del feudo, un palazzo nuovo poiché costruito appena venti anni prima, molto ampio e comodo e che valeva 4000 ducati, che aveva fatto abbattere contro la volontà dei solofrani facendo costruire al suo posto un altro palazzo collocato quasi di fronte alla chiesa togliendo spazio alla stessa e di cui una parte era caduto, per cui poi si addivenne ad un accordo e cioè di spostare il nuovo palazzo più dietro e più ad est, che è poi quello che ora ammiriamo.

Più grave però fu l’accusa dell’usurpazione dell’acqua, infatti l’Orsini aveva preso l’acqua dal fiume delle bocche per alimentare ben tre fontane del Palazzo, una nella cucina, una nel giardino ad est, ed una nella “starza” ad ovest. Questa acqua pertanto veniva a mancare alle concerie molte delle quali erano state costrette a chiudere o a spostarsi altrove, specie quelle poste al di sotto del palazzo. La Duchessa inoltre faceva controllare il canale facendo incarcerare tutti quelli che tentavano di prendere un po’ d’acqua.

La causa terminò con una sostanziale vittoria dell’Orsini, come non poteva essere diversamente. Essa in effetti ebbe l’uso del demanio e quindi dell’acqua, né per gli alloggiamenti si potette ottenere molto poiché per causa maggiore potevano essere imposti anche nelle terre dichiarate Camere riservate e sappiamo dalla storia che lungo tutto il seicento essi provocarono danni ingenti. Non si potette però non imporre all’Orsini il rispetto degli Statuti, per i quali però, ancora dalla storia sappiamo, che spesso non furono rispettati. Gli Orsini per esempio ebbero spesso la possibilità di controllare l’elezione del governo della Università mandandovi uomini di loro fiducia.

Mimma De Maio

 

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Le pagine dedicate agli Orsini

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