Protagonisti solofrani

 

GIOVAN SABATO IULIANI

 

(1651-1736)

 

La figura più rappresentativa della vita religiosa solofrana a cavallo tra il Seicento e il Settecento è quella del primicerio Giovan Sabato Iuliani che può definirsi un “personaggio” sia per le doti di prestanza fisica che per quelle intellettuali, sostenute da una solida cultura[1].

 

1. Di lui hanno parlato A. Graziani, Memoria del primicerio D. Giovan Sabato Iuliani e di alcuni buoni cittadini di Solofra, Avellino, 1889. L’opera ha il pregio di riportare le memorie del notaio Vito Antonio Grassi contemporaneo dello Iuliani raccolte in un manoscritto. Le notizie narrate dal Grassi sono attendibili poiché il Graziani dichiara di averle controllate dall’archivio Orsini a cui aveva potuto accedere. V. pure F. Scandone, Documenti per la storia dei comuni dell’Irpinia, Avellino. La raccolta riporta alcuni documenti riguardanti la vicenda dello Iuliani. O. Caputo, Sacerdoti salernitani, Salerno, 1981,  pp. 149-131. G. Didonato, Solofra nella tradizione e nella storia, III, Messina, 1923, p. 157.

 

Nacque a Solofra il 21 febbraio del 1651 da una importante famiglia del Toro soprano da Annibale e da Feliciana Maffei. Studiò a Napoli, dove aveva la residenza un ramo della famiglia, presso i Gesuiti manifestando ben presto la vocazione di abbracciare la vita sacerdotale. Il padre, dottore in legge, preferendo che il rampollo rimanesse in famiglia o per lo meno in paese, quando il 13 agosto del 1675 morì il primicerio Grimaldi lasciando vuoto il seggio primiceriale alla Collegiata, candidò il figlio alla carica ecclesiastica solofrana più importante. In questo intento si impegnarono altre persone che vedevano nel giovane Giovan Sabato una persona adatta per coprire quella carica. Questo giovane infatti suscitava nell’animo dei solofrani una forte impressione per le doti di eloquenza che trascinavano ogni uditorio e per la prestanza fisica che ne facevano un vero punto di riferimento dando maestà e vigore a quanto diceva. Aveva però anche un carattere molto forte che determinò in parte le vicende della sua vita.

Il canonico Flavio Landolfi ottenne il consenso degli altri canonici del Collegio della Chiesa madre solofrana. La nomina a primicerio infatti era elettiva tra i membri del Capitolo Collegiale e i canonici erano i rappresentanti delle famiglie locali più facoltose e loro prerogativa e questa famiglia, che entrava in tale consesso per la prima volta, ne aveva i requisiti. Entrarvi da primicerio era un privilegio troppo grosso, un voler scavalcare altri candidati o eludere diritti acquisiti da altre famiglie, ma per la famiglia Iuliani, imparentata con la potente famiglia Maffei, non ci furono ostacoli da questo punto di vista. C’era però la giovane età del candidato di appena 24 anni e il fatto che il giovane non ancora aveva assunto i voti sacerdotali. Tramite monsignor Nicola Tura, che era il precettore di Casa Orsini, lo Iuliani  ottenne il sostegno della Duchessa Orsini presso il pontefice Clemente X che avallò la nomina a primicerio del giovane[2].

 

2. Clemente X, della potente famiglia romana dei Colonna, era imparentato con gli Orsini infatti fu questo papa a nominare prima Arcivescovo e poi Cardinale Pier Francesco Orsini, il futuro papa Benedetto XIII. Bisogna considerare che il napoletano era feudo della Chiesa di Roma per cui il papa poteva intervenire nelle nomine ecclesiali.

 

Appena eletto primicerio lo Iuliani apportò alcune modifiche nella Collegiata come l’eliminazione di molti altari privati che erano sorti fuori delle Cappelle disturbando l’armonica disposizione delle linee architettoniche del Tempio. Questi altari che soprattutto servivano per sostenere, con la finanza ecclesiastica il commercio, erano anche il segno dell’ascesa sociale della famiglia ed il marchio più alto del patriziato solofrano. Per questo motivo ce n’erano dappertutto nella chiesa ai due lati non solo di ogni navata laterale ma anche di quella centrale e poi in tutto il transetto. L’eliminazione di questi altari scatenò quindi l’opposizione delle famiglie che si vedevano private degli jussi acquisiti, le quali però non potettero fare nulla poiché la curia episcopale di Salerno dette ragione al primicerio.

Lo Juliani adottò ancora nuove regole circa la disposizione del clero nella Chiesa, la prima delle quali toccava dei diritti usurpati da alcune famiglie solofrane. Erano privilegi che si erano formati nei secoli come quello di occupare dei posti nel presbiterio insieme al clero, anche da parte delle donne purché di alto rango. Il primicerio invece ci tenne a tenere distinta l’area destinata al clero da quella destinata ai fedeli. Bisogna tenere presente che tali privilegi nascevano dal fatto che la Chiesa era una specie di chiesa patronale delle famiglie dominanti che poi diventava anche chiesa della intera comunità visto che l’Universitas, che era il governo della comunità dei cittadini, era in effetti governata da quelli che partecipavano alla finanza cittadina col pagamento dei tributi.

In questa occasione si vide che questa classe sociale cominciava ad avere degli oppositori. Era da poco finita la rivolta masanelliana che aveva visto proprio la classe inferiore opporsi a quelle più abbienti e a quella baronale che nei feudi aveva il sostegno del patriziato locale. Alla fine del Seicento a Solofra si era dunque formata una classe di opposizione a quella patrizia, ai magnati che erano alleati con l’Orsini anche perché tendevano a far parte della classe baronale secondo una tendenza sostenuta dal governo vicereale che proprio alla fine del Seicento aveva incrementato la vendita dei titoli nobiliari. Contro questi privilegi e contro questo stato di cose si oppose il primicerio Juliani che fu subito osteggiato dalle famiglie che combatteva le quali non tardarono a rivolgersi all’Orsini.

Esse denunziarono il comportamento dello Juliani contro quelli che ritenevano loro diritti e che invece erano soprusi e gli chiesero di sostenere le loro pretese visto che era il rappresentante di quella classe che non aveva fatto altro che esercitare prevaricazioni e soprusi. Entrò nella questione il Cardinale Vincenzo Maria Orsini che in quel frangente risiedeva a Solofra che dette ragione al primicerio approvando le sue decisioni. Il fratello Domenico accettò il parere del Cardinale ma sottolineò che il modo era stato poco rispettoso e che il giovane prete doveva calmare i suoi bollenti spiriti. Era evidente però il contrasto latente tra i due gruppi in cui era divisa la società solofrana dei quali quello più debole, che cercava di combattere contro i soprusi e le prevaricazioni del feudatario, ora aveva un convinto assertore.

Il contrasto si riaccese quando arrivò in visita episcopale a Solofra l’Arcivescovo di Salerno, Alvarez, che fu ospitato dall’Orsini mentre ciò spettava al clero come aveva stabilito il Concilio di Trento proprio per evitare pericolose alleanze tra il potere ecclesiastico e quello feudale che avrebbero potuto fare della Chiesa se non alleata succube di particolari situazioni locali[3]. In questa occasione sembrò che la Chiesa di Salerno si alleasse col feudatario, mentre la classe artigiano-mercantile solofrana non sopportava la longa manus che il feudatario tentava di stendere sulle attività locali. I rapporti con l’episcopio salernitano però si placarono tanto che l’Alvarez nella relazione ad limina elogiò le qualità dello Iuliani, definendolo “doctus magis lingua quam studio juris canonici et civilis cui operam dedit”, il modo di condurre la vita ecclesiale della comunità e sottolineò la efficienza e la vitalità della Chiesa solofrana[4]. Altra divergenza avvenne poco dopo circa la nomina a parroco di S. Giuliano di una persona poco degna contro la quale lo Juliani si oppose[5]. Intanto era stata ultimata la costruzione della Collegiata che fu consacrata dal Cardinale Orsini essendo primicerio lo stesso Iuliani.

 

3. Il Concilio di Trento nel rimettere ordine nei rapporti tra il clero e l’episcopato diocesano e tra questo e i feudatari al capitolo n. 3 sess. XXIV affermava che era diritto e dovere del clero di dare vitto e alloggio al vescovo in visita.

4. ADS, VV. PP. cart. 22 (Salerno e diocesi) 1566-1684, fasc. visita personale a. 1681.

5. G. Crisci, La Chiesa di Salerno attraverso i suoi vescovi, vol. II, Roma-Napoli, 1977, pp. 145-148.

 

Altro elemento di opposizione era il fatto che la Chiesa accoglieva coloro che vi si rifugiavano a causa dell’immunità ecclesiastica che permetteva a chi chiedeva asilo di difendersi dalle prepotenze feudali. Questo fatto alimentava l’opposizione contro il feudatario e faceva della chiesa un mezzo per combatterne la forza. Insieme allo Iuliani a combattere contro l’Orsini ci fu anche il sindaco Filippo Fasano che parecchie volte fu costretto a rifugiarsi in chiesa e per intercessione del primicerio Iuliani ebbe un foglio di immunità che lo mise al riparo dai tribunali feudali[6].   

 

6. I feudatari avevano nei loro feudi il mero e misto imperio cioè la possibilità di controllare le cause civili e penali per cui potevano porre sotto accusa e rinchiudere in carcere i cittadini. In questo modo in mano al feudatario c’era l’arma per allontanare ogni opposizione e continuare a perpetrare gli abusi che in un ambiente economico si sentivano maggiormente. Al tribunale erano infatti legate le carceri in cui erano tenuti in modo disumano i condannati che nella maggior parte erano i creditori.

 

Questi episodi dimostrano che le tensioni contro la famiglia orsina erano giunte ad un punto culminante. Esse erano cominciate fin da quando aveva acquistato il feudo di Solofra. Siamo nel 1555 e Solofra, che da circa venti anni godeva di essere nel demanio regio che la liberava dal peso delle tasse feudali, per le gravi spese dovute ai debiti contratti per pagarsi la libertà feudale a cui si aggiungevano quelle sopportate per la costruzione del grandioso tempio della Collegiata, fu costretta a vendersi alla feudataria Ferrella-Orsini. Il dominio orsino cominciò sotto cattivi auspici poiché vi fu un gruppo ben agguerrito che non vide di buon occhio la perdita dell’autonomia e che aveva dovuto soccombere contro quello più ricco che avrebbe dovuto sostenere il peso dei debiti e che invece pensava che sarebbe stato meglio mettersi sotto la protezione di una famiglia feudale. I rapporti furono tesi fin dall’inizio e subito sfociarono in una causa intentata dalla Universitas contro la Orsini per non aver rispettato le clausole del contratto di compera del feudo da lei stessa firmato, che, pure se in parte vinta dalla Universitas, non cambiò le cose poiché la feudataria continuò ad esercitare i soprusi lamentati.

Lo scontro con la famiglia Orsini divenne più crudo quando il principe nella continuazione delle prepotenze perpetrate contro le popolazioni decise di spostare il centro mercantile nella piazza davanti al suo palazzo[7].

 

7. F. Scandone, op. cit.

 

Questa decisione toccava nel cuore le attività economiche solofrane la cui vita contributiva si reggeva a gabella, le tasse cioè venivano prelevate all’atto della vendita dei prodotti. Poter controllare il luogo dove avvenivano le contrattazioni significava tenere ancora di più sotto il controllo queste attività che erano il centro della vita economica locale. Già gli Orsini prelevavano una forte quota sulla vendita dei prodotti, già l’Orsini partecipava direttamente alla vita economica del paese con l’aver istituito tutta una serie di botteghe lungo la via che dalla platea, il centro mercantile, portava al suo palazzo, ora questa pretesa significava ed era vista dalla intera popolazione come un colpo al cuore alla vita artigiano-mercantile locale. Colpire il commercio significava colpire la intera vita economica locale.

La situazione divenne subito grave anche perché il principe di Gravina, Domenico Orsini, era giudicato dagli uomini del tempo senza sentimenti di giustizia e condizionato dalla mala compagnia, comunque dal fatto che avesse sempre bisogno di denaro poiché aveva come rendita solo i proventi del feudo di Solofra[8].

 

8. I proventi del feudo di Muro e Gravina andavano alla madre, quelli di Vallata al fratello cardinale.

 

A questo punto si chiarirono le due fazioni che dividevano la società solofrana una popolare capeggiata dal primicerio ed una patrizia che parteggiava per l’Orsini, capeggiata da Giovanni Pietro Murena, agente del feudatario e acerrimo nemico del primicerio. Per la prima volta la classe meno abbiente, che aveva sempre accettato il predominio di quella più ricca nelle cui mani era sempre stato il governo della Universitas poiché solo i ricchi potevano anticipare i tributi, le si opponeva.

Lo Juliani si recò a Napoli per difendere con la sua eloquenza i diritti solofrani sul commercio accompagnato dai capi della fazione antifeudale tra cui Filippo Fasano e Gabriele Petrone. Il Viceré inviò a Solofra un commissario per controllare la situazione, ma questo servizio era a carico della comunità che dovette pagare le spese di sostentamento dei Commissari di 300 ducati, che furono raccolti dalla sorella dello Juliani, Rubinia. Costoro inviarono alla corte di Napoli un rapporto sfavorevole all’Orsini, il quale per nulla intimorito convocò il parlamento solofrano che però non si potette riunire poiché mancava il nuovo sindaco Giosafat Landolfi anche lui del partito antifeudale che era stato costretto per la sua opposizione all’Orsini a riparare nel Convento di S. Agostino sotto la protezione di quella Istituzione.  

Il feudatario allora si rivolse alla Nunziatura chiedendo di arrestare insieme allo Iuliani anche altri canonici della Collegiata, che furono presto liberati per l’opposizione di tutta la comunità[9]. L’Orsini allora, attraverso amicizie e sostegni, ottenne che il Viceré firmasse l’esilio per le famiglie più importanti famiglie solofrane, ordine che non fu mai eseguito poiché altri solofrani si recarono a Napoli a esporre le loro ragioni tra cui Gabriele Petrone, Altimari e De Villa e ne ottennero la revoca.

Il principe non desistette di fronte alla forza con cui i solofrani avevano combattuto per scrollarsi di dosso le angherie feudali e ricorse ad un tranello. Riuscì ad attirare dalla sua parte alcuni solofrani, il chierico Giovanni Parrella e il Governatore Calandra. Assoldò poi dei sicari con l’ordine di uccidere Gabriele Petrone. Il 1° luglio del 1691 il Petrone era a casa e ad ora tarda ricevette la visita del Parrella traditore che lo trasse nel tranello facendolo uscire in piazza San Rocco dove trovò gli sbirri del principe che lo imbavagliarono lo trascinarono al ponte dello Spirito Santo e lo uccisero[10].

 

9. I canonici erano G. Vigilante, A. O. Landolfi, F. Grimaldi, A. Guarini.

10. Il Graziani narra che il giorno dopo trovarono il cadavere che fu seppellito, ma non si sa dove.

 

Tutto questo era avvenuto con l’assenza del primicerio Iuliani che era a Napoli da dove, saputo il fatto, riuscì a far aprire un processo contro l’Orsini. Il processo, che si svolse in Castel dell’Ovo nel 1691, dovette tenere presente una informativa di Giovanni Murena agente dell’Orsini che naturalmente fu tutta a suo favore, ma terminò con la condanna del Principe che stette in carcere per un anno e mezzo uscendo solo il 27 marzo del 1693 per l’intervento del fratello Cardinale. L’Orsini ebbe la libertà con l’impegno di presentarsi al tribunale ogni volta che veniva richiesto dallo stesso Tribunale. Era una specie di libertà vigilata che terminò cinque anni dopo quando la famiglia Petrone acconsentì alla cancellazione della limitazione.

Domenico Orsini però non desistette e, libero da ogni impegno con la giustizia, rivolse la sua attenzione al primicerio contro cui aveva un conto da saldare anche perché il suo potere nel feudo era di molto scemato. Si rivolse agli ambienti romani, dove la famiglia era molto influente e riuscì a procurarsi un mandato di cattura per il primicerio. Ma il sacerdote in chiesa non poteva essere arrestato. L’Orsini allora ricorse al tradimento di alcuni canonici che trascinarono il primicerio fuori della Chiesa dove sul sagrato erano ad attenderlo gli ufficiali del Capitano di Giustizia che lo arrestarono. Era il 12 marzo del 1692 quando fu portato a Napoli[11].

 

11. Il Graziani riferisce che gli fu trovato in tasca un promemoria per il Viceré spagnolo in cui denunziava le angherie e i soprusi del principe.

 

Dinanzi a questo ennesimo sopruso e poiché ormai il primicerio rappresentava l’anima dell’opposizione popolare contro il feudatario iniziarono le manovre per una insorgenza anche se lo stesso primicerio esortò i parrocchiani a desistere da azioni violente. Per sei mesi lo Iuliani restò nelle carceri della Nunziatura poi ottenne la libertà perché per placare gli animi intervenne la Santa Sede. Il papa Innocenzo XII lo chiamò a Roma e lo  nominò Rettore del Conservatorio di San Giovanni in Laterano. Era stato così allontanato dal paese una persona che nella diplomazia del tempo doveva essere controllato in un feudo di una potente famiglia romana.

In San Giovanni in Laterano lo Iuliano conobbe ed entrò in amicizia con il Cardinale Giovan Francesco Albani che ne ammirava la forza del sentire. Divenuto l’Albani papa Clemente XI propose al giovane sacerdote la nomina episcopale che lo avrebbe definitivamente allontanato da Solofra[12], ma lo Iuliani non se la sentì di prendere un impegno che non si addiceva con le sue aspirazioni. Stette infatti a Roma solo tre anni dopo di che gli fu concesso di ritornare a Solofra (1696). Era il giorno di Pasqua e i solofrani lo accolsero con tutti gli onori persino dai canonici traditori. Nove anni dopo nel 1705 morì il suo nemico, Domenico Orsini[13].

 

12. Sembra che la proposta alla nomina a vescovo gli fosse stata offerta prima anche da Innocenzo a cui il primicerio avrebbe risposto :«La patria chi l’aiuta?» e dallo stesso Orsini divenuto papa a cui rispose: «La mia Sposa è la Collegiata di San Michele».

13. Nel racconto di Vito Antonio Grassi c’è anche il fatto che l’Orsini aveva deciso di costruire un “casino” all’angolo del suo palazzo di fronte alla porta della Collegiata per assistere alle funzioni senza entrare nella chiesa e che in questa opera fu ostacolato dal primicerio e da altri solofrani fino a che dovette desistere. Questo fatto ha dato il via al racconto di un ponte costruito dall’Orsini dal suo palazzo alla chiesa e tagliato da San Michele. 

 

La morte dell’Orsini non fermò il Murena che “per mezzo di falsi testimoni” mirò a “distruggere la pubblica quiete, ed a rinnovare le liti del feudatario contro l’Università” continuando la lotta contro la fazione opposta[14]. Nel 1706 sia il primicerio che il governo civico fecero ricorso contro Giovan Pietro Murena. Il ricorso in data del 3 settembre è così riassunto dall’Ufficio del Collaterale nella relazione inviata alla Regia Udienza di Principato Ultra:

 

Il sindaco e gli eletti di Solofra espongono che nella terra sono alimentate discordie ad opera del dott. Giov. Pietro Murena e di “persone discole”. Esse durano “da 20 anni, con dispendio del pubblico e rovina di case particolari, come accadde a Pietro Giliberti per l’uccisione di Giuseppe Fasano. Poi vennero le archibugiate al Cappuccino, P. Giuseppe da Solofra; poi la distrutta casa di Giuseppe Vigilante, fatto fallire con imposture. Il dottor Murena attizzò il dissidio tra il fu duca di Gravina ed i vassalli, e propose di trasferire la piazza [il mercato] innanzi al Palazzo del Duca. E promosse innumerevoli liti. E così, avendolo il Preside disterrato [mandato in esilio] egli si trasferì in Napoli. Di concerto con l’avv. Mascolo, fece arrestare nel cortile del S. R. C. il procuratore dell’Università, dott. Fasano. A ruote riunite, quel Tribunale diede a don Francesco Gascon il mandato di liberarlo. Così il dott. Fasano fu liberato, e carcerato il dott. Murena, che poi fuggì, e fece ricorso al vicerè del tempo, conte di S. Stefano. Inoltre il dott. Murena aveva fatte imporre nuove gabelle (feudali): ad es. una di 600 ducati per sarmaggi [carichi someggiati] di cui aveva assunto l’esazione per ducati 400; e si era appropriato di poi di tutta la gabella del vino, e di parte di quella del pane dell’Università. Il preside di P.U., duca della Saracina, ne ordinò l’arresto; dopo il destierro [esilio dalla sua terra] se n’era andato a Serino, e, dopo l’accordo col giovane duca di Gravina, il dottor Murena fu citato in Collaterale, dove il processo fu appartato. Restituito alla sua residenza, da due mesi, ha ricominciato a seminare zizzania, anche tra i parlamentari [consiglio dei trenta][15].

 

Alla Regia Udienza giunse da parte dell’Ufficio del Collaterale anche un’informativa che riassumeva la deposizione del Murena il quale aveva esposto che:

 

mentre egli era nella terra Agente del feudatario, duca di Gravina, il primicerio della Collegiata, d. Giovan Sabato Giuliano, era processato dal Tribunale della Nunziatura come capo fazioso e tumultuario per «i rimori che accaddero in detta terra». Di poi a richiesta del Nunzio, per disposizione della S. Congregazione delle immunità, fu «tratto fuori dalla Chiesa maggiore, ov’erasi rifugiato, consegnato alla Nunziatura, e condotto a Roma». Di là col consenso del duca, fu licenziato, col mandato di non ingerirsi più negli affari della terra. Anche il dottor Murena lasciò Solofra, nominato dal duca Governatore dell’altro suo feudo di Muro; ed ivi sposò una nipote del vescovo. Al ritorno in Solofra, trovò l’Università oppressa dal suddetto primicerio che «cercando tirannicamente gli amministratori, ne succhiava tutto l’avere. Ebbe procura da 100 cittadini; si recò dal Duca di Gravina, poi nella Gran Corte della Vicaria e nella Regia Camera, per la resa dei conti di tali amministratori che avevano creato “un grande attrasso di debiti”, e corse pericolo di vita. Ciò nonostante, il primicerio non desisteva dalle violenze. Entrò con altri, nel monastero di S. Maria delle Grazie, violando la clausura, e fu scomunicato dall’Arcivescovo di Salerno. Andò a farsi assolvere a Roma. Tornato, rinnovò le minacce a proposito del rendiconto di Alessio Landolfi, che per 5 anni era stato Sindaco. Senza intesa del sindaco attuale, Domenico Antonio Murena, aveva convocato il parlamento il 2 agosto per l’elezione, e fu minacciato di esser preso a furia di popolo lui, e il consiglio. Così era stato eletto sindaco Alessio Landolfi, “uomo di bassi natali, per coprire i suoi difetti”. La mattina del 3 agosto il primicerio aveva preso di petto Mario Landolfo, uno del Consiglio, minacciando di farlo trascinare per tutta la piazza. Di poi, accostatosi alla casa del dott., ch’è sopra la piazza, disse che lo ebbe ammazzato, insieme col notaio Emilio Pacifico, Felice Ronca, Niccolò Petrone, consiglieri a lui contrari.16

 

 Lo stesso giorno il Collaterale inviò due richieste alla Regia Udienza di P. U. di informarsi sul ricorso del primicerio di Solofra, don Giovan Sabato Juliani e del governo civico, contro il dott. Murena, circa l’esposto del sindaco di Solofra che affermava di essere stato eletto regolarmente con la conferma del Collaterale.

Lo scontro si risolse con la pace tra le parti. Il nuovo feudatario Filippo Bernualdo Orsini promise amicizia con la comunità solofrana e ritornò nella sua città natale ove morì il 27 marzo del 1736.

Lo Juliani continuò a proteggere Solofra dagli abusi feudali come fece nel 1730 contro la Principessa Caracciolo nella difesa di un privilegio che Solofra aveva nell’acquisto del grano contro le pretese della dogana di Avellino.

 

14. A.S.N, Partium Collaterale, vol. 113, f. 134. Si può ipotizzare che il Murena volesse coinvolgere anche il  successore di Domenico Orsini e magari essere di nuovo nominato agente del feudatario.

15. A.S.N, cit. Il governo civico, che aveva inviato il ricorso contro il Murena, era costituito dal sindaco Alessio Landolfi e dagli eletti Felice Petrone, Carmine Grasso, Giuseppe de Maio e Giuseppe Giannattasio. Avevano firmato anche i parlamentari Antonio Landolfi, Altobello Garzilli, Alfonso e Giuseppe Guarino, Matteo Garzilli, Andrea Pandolfelli. Ne aveva autenticato le firme il notaio Antonio Grassi di Solofra

 

 

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Appendice

 

Testimonianza lasciata nel 1722 dal notaio Vito Antonio Grassi

 

 

[...] Per circumscrivere ed esprimere le prerogative, virtù e zelo del rev. Primicerio dott. don Gio Sabato Giuliani, prima ed unica dignità dell’insigne Collegiata e matrice chiesa di S. Michele Arcangelo della cara patria di Solofra che lo resero illustre in grado superiore e ne godé li frutti delle sue virtuose operazioni, non da me ma da scrittori d’autorità e fama segnalata bisognerebbe esser descritta e abberne nota, pure per memoria et esempio ai posteri e per zelo che ho all’onor suo doversi havere parole pericondri non deboli e assai sublime per esser non onorifica menzione delle vicende e virtù, merita fedeltà, calore e zelo; per quello mi detta la penna è un mero abbozzo non che verità compita. [...].

Hebbe in sorte la cara patria di Solofra haver per figlio si gran soggetto, singolare, erudito, di pregi superiori ad ogni altro che ne’ secoli passati havesse partorita la patria, per sollievo dell’istessa, e suoi cittadini, nato dal fu Annibale Giuliani suo padre e Feliciana Maffei sua madre, huomo di valore non inferiore al figlio, cittadino de primari, e di zelo pubblico, l’anno del Signore Verbo incarnato 1651 a 21 febbraio.

Fanciullo e sino all’età abile alli studi in Napoli benché di personaggio maestoso, decoroso, e di aspetto nobile, e singolare chioma naturale che s’usava in quei tempi, hebbe però sempre sentimenti di vera religione cristiana d’esempio et edificazione universale.

Adocchiato da’ Reverendi. Padri Gesuiti in Napoli nell’età d’anni 23 mentre haveva fatto gran profitto in particolare nella legge civile, e pensava il padre per vita sua casarlo per mantenimento e continuazione della sua progenie, non havendo altri figli se non il rev. sig. Gaetano, allora clerico di minore età del Primicerio e prossimo al sacerdozio. Aderendo alla persuasione di detti Reverendi Padri egli ricevé il di loro abito con ammirazione universale e dispiacenza singolare paterna.

Gionto nella patria per diporto da Napoli a petizione del padre, e per persuaderlo nella vita se stare, ad altro non si vedeva applicato che alla frequenza delle Congregazioni et d’ogni opera pia, et in dispute con religiosi et altri letterati, rispondendo ammirabilmente alli casi morali delle Congregazioni de’ sacerdoti e d’esempio ammirabile in ogni virtù.

Vacò nel tempo stesso il Primiceriato di detta Collegiata per morte del rev. Primicerio don Fabrizio Grimaldi l’anno del Signore 1675. Il rev. don Flavio Landolfo, un canonico dell’istesso Collegio conoscente l’essere del suddetto rev. Primicerio, con l’unione de soci collegiali e del padre Annibale, amareggiato nel vedersi perdere il figlio a causa della soverchia inclinazione nella religione de’ Reverendi Padri Gesuiti, non giovando le sue persuasione per rimoverlo, scrisse in Roma, l’istesso Capitolo, con la felice memoria della Sig. Duchessa Della Tolfa, al segretario di sua casa rev. don Nicola di Tura allora secolare, poi vescovo di Sarno, et occasione della parentela col Papa di quel tempo Clemente X, furono spedite le bolle in testa del detto rev. don Primicerio, insaputa del medesimo, et escluso il rev. don Canonico decano dell’istesso Collegio, don Giuseppe Garzillo, al quale era stata segnata la grazia col regalo di ducati cento al sig. segretario, pagati dal medesimo canonico don Giuseppe, dande ad intendere al Papa d’essere stato errore di persona, onde fra breve tempo avendo il rev. don Primicerio Giuliani l’ordini sacri et il Primiceriato.

Ordinato sacerdote, preso il carico di Primicerio curato, anco da chierico, benché reluttante, per soddisfare al comune voto di tutta la Patria, pare incredibile li passi pericolosi della sua condotta in varie emergenze, per la spontanea veridica, et indefessa cordialità verso li sentimenti del ben publico e privato, non risparmiando né fatiche, né pericoli, né spese esorbitatissime de proprio per giovare al comune con zelo del giusto, e dell’onesto e con sentimenti di verità. Havendo avuta sempre idea di promuovere la verità ed abbattere il vizio, eletto da Dio per governo di detta Collegiata di S. Michele e sollievo della Patria ne’ beni spirituali e temporali.

Molti furono i pregi che resero illustre e decorarono il suddetto rev. Primicerio Giuliani, molti li travagli e pene che sofferse et in somma per il bene comune della Patria di Solofra e molti sono li premi che l’istessa godé per suo mezzo, quali, le non in  parte divisioni per memoria ai posteri.

È da sapersi che il primo pregio consisteva nell’aspetto [...] distinguendosi con singolarità da ogni ceto di persona di questa Patria. Abbe pieco dritto anco in prime della sua età, con non altra posura, havea [...] il petto e la dottrina, e la piacevolezza mostrò sempre di lungo [...].

Il primario pittore di Napoli Giovanni Colombo incontrandosi col suddetto rev. Primicerio et approntandosi a fronte con un sacerdote cittadino che in Napoli medesimo risiedeva nell’istesso Palazzo del Colombo poco appresso vicino al Convento de’ Reverendi Padri Geloromini, li disse: “Ho veduto il nostro Primicerio che pare un S. Paolo”.

Altri pregi consistevano nella dottrina in omne scienza, petto e fortezza magnanima nel parlare con chi si sia personaggio di grado superiore anco di Sua Santità e Viceré di quel tempo, come e più colte mostrò, con libertà singolare, memoria feconda, pronto nel rispondere a qualsesia motivo di dotti consigli pareri sinceri, umile e cordiale con tutti perdonava [...] qualunque offenzone, elemosiniero che alle [...] dava tutto senza lasciarsi niente per se, e più volte veniva aspettato da’ poveri vergognosi per la strada della sua casa, ove dimorava e sita nel casale del Toro soprano.

Pregio era anco e lo rendeva illustre la particolar devozione alla B. V. sotto il titolo de’ Sette dolori, S. Michele Arcangelo, S. Antonio, S. Filippo [...] ai quali in ogni emergenza raccomandava la propria Patria quando in Napoli, a Roma o in ogni altro luogo entrava et orava in ogni chiesa che nel passare s’incontrava.

Fin dal principio del possesso del Primiceriato del detto anno incominciò il suddetto rev. Primicerio Giuliano il zelo [...] in salute dell’Anime a se commesse, in togliaria l’occasione de’ mali. È da sapersi che nella detta Collegiata di S. Michele [...].

La Collegiata di S. Michele veniva disornata da tutti i costrutti d’intorno all’altare maggiore e nelle lastri cossì della crociera come nella navata di mezzo fatti da primarie famiglie. Il rev. Primicerio forse col parere dell’Ecc.mo Sig. Cardinale Ursino che si ritrovava in Solofra), chiamò a se quattro gioveni ben forti, serrata la chiesa nell’hora che si mangiarasi, fra poche hore furono diroccati. Li compatroni per la lontananza dell’Arcivescovo residente in Salerno ricorsero al suddetto sig. Cardinale. Il medesimo rispose che si aveva a calare sincome calò alla  Chiesa e chiamato il rv Primicerio lo domandò della causa di tal novità contro la volontà de’ compatroni messi ad obblighi di messe. Rispose: «per la difformità suddetta», et «che le medesime si sarebbero trasportate all’Altare maggiore» disse Sua Eminenza a' compatroni, e li quietò. Questo e più o meno presentemente si pratica, ma per che nell’istesso luogo delle donne risiedeva anco l’Ecc.ma sig. Duchessa e veniva a stare dietro alli stessi de’ Capitolari e sacerdoti, ne fu dato la notizia all’Ecc. Signore allora don Domenico Orsino e malignato con lo medesimo il sodetto rev. Primicerio Giuliani; il medesimo usando prudentia andò di persona dall’Ecc.mo Sig. Cardinale Orsino fratello di detto Ecc.mo Sig. Duca, all’hora Arcivescovo di Cesena poi di Benevento, e poi Papa col nome di Benedetto XIII che trovollo in visita tanto lo pregò che venì detta Eminenza di persona a vedere il fatto; stimò bene l’oprato del detto dn Primicerio Giuliani, rimproverando li malignatori del servizio di Dio.

Gionto in visita monsignor Alvarez fu Arcivescovo di Salerno fu convitato dal detto Ecc.mo Sig. Duca di Gravina a risiedere nel Palazzo a sue spese. Il rev. Primicerio Giuliani con la dottrina del Sacro Concilio di Trento descritta nel cap. III della  sessione 24 la quale incomincia [...] fe intendere al suddetto monsignore che voleva darli expensas, lo che cagionò tumulto nel Palazzo, con radunar gente per carcerarlo; havutane la notizia si ne uscì dalla Collegiata per dentro la Congregazione detta del Soccorso et accompagnato da persone confidenti per le selve si portò in Montoro in casa de suoi Parenti di Casa del Pozzo, e da là in Roma. Monsignore irato non potendo in altro modo sfocare la rabbia scomunicò tutti li Governatori seu Procuratori della Chiesa, per causa da [...]. Havutane la notizia il Sig. Primicerio in Roma comparve nella Congregatione dell’Em.mi Signori Cardinali e con la sua dottrina fe’ subito assolvere li suddetti Governatori seu Procuratori di Chiesa non essendo la scomunica retta, meritando questi esser ben voluti per il buon zelo nell’amministrazione e che non potevano esser scomunicarti.

Oltre di che ottenne decreto che li testimoni che s’hanno da esaminare per il contratto matrimoniale che andavano in Salerno nella corte arcivescovile, si fussero esaminati in Solofra, come oggi si pratica, con la ragione che non vi era pericolo di matrimoni duplicati ma bensì pericolo di continenza a causa della lontananza di 12 miglia, e si cominciarono più litigi.

Nel ritorno di monsignore alla visita cominciò il suo sermone: “Ecce venio ad vos et si tertio veneno non parcam”. Per il che andarono in Roma diece preti don Gennaro Maffei, poi canonico, don Silvestro di Tura, don Giosafat Ronca, dn Giovanni Frescolone, poi agostiniano, don Pietro Antonio di Maio, don Bartolomeo Fasano, don Aurelio Giliberti, poi parroco al Canale di Serino, don Angelo Guarino, don Gio Marino Vigilante, don Oliviero di Maio poi canonico. Il suddetto Ecc.mo sig. Duca don Domenico che favoriva monsignore Arcivescovo inviò Pierro Pacifico dal sodetto rv Primicerio e preti acciò si fussero pacificati con andar solennemente in Salerno a riverire monsignore. Fu risposto esser loro sudditi della Santa Sede che da’ Cardinali erano stati ricevuti, benchè non avessero portata la croce.

Pretese detto Ecc.mo sig. Duca domine, voler costruire un casino all’angolo del suo Palazzo, che veniva all’incontro della porta maggiore della Collegiata di S. Michele, di circa palmi 74 in quadro in pianta del largo di detta Chiesa, e come si diceva per udire da detto luogo la S. Messa. Nel cavare li fondamenti s’oppose il suddetto Primicerio con fortezza magnanima togliendo sciamanti da mano dall’operai, dicendo che allora ivi si fabbricava, quando la prima pietra era la sua testa, et infocato dal zelo li  fonticava la medesima testa.

Essendo vacata la Parrocchia di S. Giuliano per morte del fu parroco don Vincenzo Guarino, ed essendo il rv Primicerio Giuliani inclinato all’avanzo di persona letterata per onore della Patria e bene universale trattava far deferire la parrocchia al rv dn Placido Alfano per leggere la dottrina a’ giovani e ritrovandosi impegnato monsignor Alvarez di favorire la sig. domina Beatrice Orsini religiosa nel monastero de signore re monache di S. Maria delle Grazie sotto la regola di S. Chiara, per il rev. don Donato Vigilante, oprò tutte le sue garbatezze il suddetto don Primicerio per far desistere monsignore da detto impegno, ma per che il medesimo fu troppo duro, seguendo l’impegno suddetto il rev. Primicerio voleva concorrere lui alla Parrocchia, et a’ novi contratti fra di loro, a causa delle turbolenze passate nei tempi di dette visite, fe’ carcerare il Primicerio, e perché il medesimo era amicissimo col Cantore, in un subito fu spicciato postiglione per Roma, dove si ritrovava suo fratello don Gaetano Giuliano, per attenzione del quale fu fatta Congregazione dalli Ecc.mi sig. Cardinali ed ordinato a monsignore Nuntio di Napoli di mandare tutti li censori a sprigionare il Primicerio anco con demolire le carceri; ma perché si hebbe notizia l’agente di monsignore spicciò al medesimo postiglione per la celere escarcerazione prima d’opra che dal Nuntio. Chiamò monsignore quattro canonici in un subito, et aprendo le carceri riferirono al Primicerio esser grazia di monsignore a loro favore la sua uscita; ma perché il medesimo Primicerio stava inteso dell’ordine di Roma, rispose: «Non mi scarcerava monsignore, ma sua Santità di proprio mezzo», invitandolo a pranzo con esso, insieme col monsignore, del che li ringratiò dicendo non essere tanto meritevole; si pubblicò tal fatto per tutta la diocesi e Napoli con poco onore di monsignore, e gloria del suddetto rev. Primicerio.

Non si sgomentò in più persecuzioni, fiere calunnie et esorbitanti per favore, et in difesa nell’oppressione della Patria, tanto che con fortezza magnanima soggiacè a due altre carcerazioni penose e dispendiose nella R. Nuntiatura Apostolica di Napoli, (la seconda però con gran timore di morte come dirò) con andare fuggitivo e ramingo per vari luoghi e paesi e dimorare lungo tempo in Roma per cause supposizione, si bene più volte anco per genio che haveva del commercio d’huomini virtuosi e di cenzi veridici e cordiali come sono li cittadini di Roma ed abitanti in essa.

La prima carcerazione fu in Napoli sotto pretesto di chiamarlo amichevolmente e trovandoli alcune scritture addosso particolarmente uno memoriale che andava diretto al sig. Viceré, conte di S. Stefano, per la difesa dell’Università, che poi uscito, e minacciato a nuova carcerazione il suddetto sig. Vicerè per liberarlo lo tenne segreto due mesi nel Regio Palazzo, facendolo chiamare don Giovanni. Si n’hebbe qualche sentore dall’Avversari, ed a soverchi impegni andarono a carceralo dentro Palazzo; ma per che lui stava sotto nome di don Giovanni non lo trovarono. Il sig. Viceré per togliersi da’ impegni li diede luogo e lo fe trasportare in Roma, dove stiede tre anni sino all’espedita della causa.

La seconda carcerazione non meno orribile che scandalosa e pericolosa fu nella Collegiata e matrice chiesa di S. Michele Arcangelo propriamente dentro la Cappella et avanti l’altare ove si adora il SS. Sacramento col fine di precipitare la Patria come diffusamente nel capitolo nel luogo ove si parla delle liti avute coll’Ecc.mo sig. Domenico Orsino. Si vidde  dar di mano il Primicerio da tre sacerdoti delli cinque ch’erano in collega con l’avversari secolari nella detta lite da me in detto luogo taciuti per modestia, furono il canonico don Oliviero di Maio, canonico don Tommaso di Vuldo e don Francesco Grimaldi a soverchie forze da quali, benché il Primicerio fusse stato fortissimo a darsi di mano alle cancelle di detta Cappella del SS. e poi alla porta laterale della Chiesa ch’era mezza aperta, violentato dal timore di morte non sapendo ch’era carcerazione fu dalla medesima chiesa exito; et per che nell’incamminarlo presso il palazzo con tante genti armate essendosi il Capitano di giustizia con 40 soldati da Napoli di notte giunti occorse il rev. don Gaetano Giuliani fratello del Primicerio avvisato la sera avanti di tal cattura e li disse che era cattura; quietò e trangerdò l’animo di tanti cittadini occorsi, et gridava per liberarlo era stata ordinata tal cattura dalla corte Romana a causa di [...] potente precedente citazione d’approntarsi dalla Patria non al rev. Primicerio ma al suddetto rev. canonico don Tommaso dentro al confessionario fatto con inganno al censore che non lo conosceva, e per dar forza lacerò le dinota, calpestò il medesimo canonico don Tommaso dicendo che Roma, e con tale atto ferono descrivere la relazione al censore,  la causa si inventata ma chi ne fu perché sapeano la dottrina del Primicerio che non essendovi causa non potea seguire tal cattura. Fu tale il timore di morte del Primicerio che li si travenne [...] e ritirò più anni [...]. Fu trasportato alla R. Nuntiatura dn Tommaso [...]

Fra li ministri di singolar dottrina, esempio e autorità e fama segnalata si annovera il Sig. don Pietro Fusco, Regio Consigliero del Consiglio di S. Chiara di Napoli ; all’ufficio per meriti promosso, da me conosciuto ed in varie occasioni parlato nel mentre resiedevo in Napoli. Questo messo dalla città di Sua Santità Innocenzo XII, Angelo Pignatelli in occasione della causa di S. Officio, per la stretta amicizia contratta fra di loro in tempo [quando] il medesimo Pignatelli era arcivescovo di Napoli et il sig. Pietro avvocato, a sua richiesta fe’ promovere a’ vescovati quelli soggetti che a lui s’erano raccomandati, diceva il papa. “Questi non li so ma ho fede a lui vi la propone Pietro”, rispose il Fusco: “bene, bene, visto il Papa”; “Voglio”, soggiunse il medesimo sig. Fusco farli vedere un soggetto che haverete gusto” e l’introdusse il suddetto Primicerio, con grande ammirazione del Papa, a causa dell’aspetto del personaggio, petto e dottrina. Era di gran genio al Fusco far promuovere a vescovato il medesimo Primicerio ma lui non volse dicendo “la Patria chi l’aiuta”.

Veniva chiamato in Roma il suddetto Primicerio l’Arcidiacono et eletto dal suddetto Papa Pignatelli, rettore nel famoso Conservatorio dal medesimo Papa Pignatelli instituito nell’antichissimo Palazzo di S. Giovanni Laterano, et aveva messo per Governatori del medesimo Conservatorio il Cardinale Francesco Albani (poi Papa), il P. Marchese della Chiesa nuova, il P. Baldeggiani gesuita et il sig. Leonardo Libri tesoriero di Sua Santità. In tale officio il suddetto Primicerio, con quattro suoi compagni preti nutriva quel luogo e con sermoni e con amministrante de sacramenti ammirabilmente, al spesso visitato da Sua Sanità (che poi renunciò per occorrenze della Patria).

Fra pochi mesi il Primicerio si trasportò nell’accademia del Giesù nuovo, ove fe’ comparire la sua dottrina, stimata dal P. Straniero, gesuita primo accademico di detto Collegio, come pure in predicare nella Chiesa del Spirito Santo della nazione napolitana, e di S. Gennaro e di S. Francesco di Paola, ove sta dipinto il di loro martirio, con udienza nobile di cardinali prelati e cavalieri, dal che veniva da ognuno stimato e riverito.

Tali motivi furono occasione allo agente del cardinale Grimani, abate Pennacchio di farlo promuovere ad un vescovato regio, imperochè il suo naturale non comportava li tratti baronali, ben noto al medesimo agente, e lui sempre repugnente per l’affetto alla Patria.

Monsignor Nora chierico di Camera che assistiva notte e giorno a Sua Santità mosso da zelo, forzò il suddetto primicerio nel promuoverlo al vescovato e s’impegnò di farli tutto il necessario di carrozze, vesti, servitù, argenterie a spese di esso medesimo sig. Noia. Ma perché era nato per il comune bene della Patria non volse mai acconsentire.

Essendo sortita la morte del suddetto Papa Pignatelli, chiamato Innocenzo XII, fu eletto suo successore il suddetto cardinale Francesco Albani, chiamato Clemente XI, col quale discorrendo il Primicerio su le ragioni di una causa, fra esse li rapportò la dottrina di uno scritto disposto al torchio dall’istesso Albani, [stampato dallo stesso Albani], con tale espressione, che il medesimo Papa disse, “io l’ho stampato e non me lo ricordo havvi tanta forza quanta lei me la rappresenta”, con grande gusto dell’istesso Papa Albani.

Il medesimo Papa Albani a cui era ben nota la dottrina e valore del sodetto Primicerio, voleva anzi forzò il medesimo ad accettare la carica di Vicario d’Urbino, patria del medesimo Papa Albani, e ne anco volle accettarla, sempre per l’affetto alla Patria, e che una sposa doveva avere, e che era quella della cura della Collegiata di S. Michele.

Il Papa vi mandò il cardinale San Vitale e male aggiaccato si ne ritornò. Ci mandò poi altro soggetto col titolo di Arcivescovo con la pensione di 3700 scudi.

Il sodetto Papa Albani haveva sempre a memoria il sodetto Primicerio, et il suo Auditore all’hora monsignore Corradini poi cardinale, voleva sempre consulte dal sodetto Primicerio, e lo chiamava arcidiacono, et essendosi poi ritirato in Solofra il sodetto Primicerio, e promosso al cardinalato il detto Corradini, nel mentre il rv parroco dn Aurelio Giliberti, li portò le grazie del Primicerio dall’esaltatione disse: “Avvisate il sig. Arcidiacono che stia lesto”.

Non volle mai in vita sua il sodetto Primicerio far dipingere il suo ritratto in tela rimproverando taluni proponenti, ch’era vanità del mondo, imitando i gesti nobili d’umiltà dell’imperatore Ottaviano, alla onorata memoria del quale scrive il Fieravanti nel cap. 2° del 2° libro del suo specchio di scienze universali, che li fu presentata una tavola, in cui da eccellente pittore vedeasi dipinti tutti li principi virtuosi e per capo il medesimo Ottaviano, a pie’ de’ quali li tiranni, fra quali Falano siciliano. Il savio imperatore lodò molto la bellezza della pittura ma non approvò l’invenzione dicendo : «A me non pare cosa giusta, né onesta che essendo, come sono vivo, sia posto per capo de’ Principi virtuosi che son già morti; imperochè durante il tempo di questa mia vita siamo sempre soggetti ai vizi della fragile carne.

Si conserva però il suo ritratto da’ suoi congiunti pinto doppo morto.

Del valore del suddetto rev. Primicerio gode anco Solofra la pristina libertà come ogni altra patria convicina, nella compra de grani per proprio uso, di taluni forasteri di vari paesi, che per lo più in tempo di raccolta per propri bisogni lo trasportano vendendo in tutte giornate in vari luoghi, fra quali Solofra con scaricare nella Piazza, e quando non trovano a venderlo, lo ricaricano e trasportano a venderlo in Montoro e S. Severino; imperochè la sig.ra Principessa d’Avellino verso il 1730 l’impediva in Serino facendoli condurre nella dohana d’Avellino con gran danno de’ poveri venditori, sia per il peso della scumarella, che ivi si esigge da’ doganieri, come per il perdimento di tempo, e prezzo minore per la poca conduttura, come più prossima detta dogana a’ luoghi di raccolta. Si ritrovava sindaco il m.co Michele Giliberti, questo conferitosi in Napoli, col parere del sig. don Francesco Onofri allora avvocato dell’Università assistiva detta sig. Principessa per evitare li litigi dalla quale si trasportava l’udienza. Riferito il fatto al Primicerio che in Napoli medesimo si ritrovava andò lui dalla sig. Principessa et introdotto subito all’udienza e riferitoli l’impedimento sodetto e della pristina libertà, lo denegò asserendo non poterli per privilegio. Il Primicerio li rispose che la sua Ecc.ma casa teneva li suoi avvocati e l’Università anco il suo, e per ciò si fusse fatto osservare il privilegio, e starsi alla decisione de medesimi, dal che la sig. Principessa si ne indegnò dicendo che li suoi privilegi non li faceva vedere a nessuno e lo licenziò. “Sig. Prencipessa” soggiunse il Primicerio “si ne compiaccia l’Eccellenza sua, per che se si dà passo avanti l’averità a discorno”, “fate quel che volete” fu l’ultima risposta. Il Primicerio l’istessa sera si conferì a Palazzo con memoriale del sig. Viceré, li parlò con tanta espressione che la mattina seguente uscì il sig. Parrico diretto alla R. Udienza di Montefuscoli per la libertà, dalla quale data l’osservanza e notificato il doganiero in Avellino si tolse via l’impedimento, e si è goduta e gode la antica libertà suddetta.

 

 

Testimonianza di Costantino Vigilante, vescovo di Caiazzo su Giovan Sabato Iuliani riportata da Vito Antonio Grassi

 

«Benché giusta il sentimento del morale filosofo non habbia bisogno d’altra testimonianza di lodi, che puramente di se stessa non men che il lume, che per esser veduto non ha necessità d’altra luce, con tutto ciò per secondare l’impulso della nostra sincera amicizia, che habbiamo professata fin dalla gioventù e professiamo tuttavia al molto ill.mo e rev. sig. don Gio Sabato Giuliani, primicerio, prima e unica dignità dell’insigne Collegiata di S., Michele Arcangelo di Solofra nostra dilettissima patria e per animare non meno i nostri più distinti cittadini all’imitazione et all’esempio di si degno soggetto, ci vediamo nella necessità di rendere con questo nostro pubblico attestato un veridico testimonio della verità. Egli dunque resosi illustre e per la probità dei costumi e per la dottrina doppo di essere asceso al grado sacerdotale fu oblugato per soddisfare a i comuni voti della patria ad abbracciare il peso della riferita dignità curata, che per lo spazio di moltissimi anni sino alla presente matura età l’ha esercitata con zelo indefesso e con una sollecitudine di vero pastore ecclesiastico. Ma in oltre a costo di molti suoi pericoli dispendi e pressure sofferte nelle capitali di Roma e di Napoli, et in altri luoghi dove è convenuto non ha omessi i mezzi più propri per la difesa del pubblico bene, onde essendone derivata la comune tranquillità e la pace universale alla quale non ha pur lasciato di contribuire lo spirito di una sua sorella bizzoca in aiutarlo et assisterlo ce ne sia consolati non poco, come anco sentendo presentemente che in tal grado tranquillo stia il medesimo sig. Primicerio con zelo per il ben comune della patria e de vantaggi e prerogative delle quali viene illustrata da gli huomini letterati e cospicui. Et in fede della verità habbiamo ordinato che la presente sottoscritta di nostra mano e munita del nostro picciolo sigillo si faccia dall’infrascritto nostro segretario. Dato in Solofra dalla nostra solita abitazione oggi 14 dicembre 1728. Costantino vescovo di Caiazzo”. Locus sigilli. Liberius dal matinus sec.

 

Passò dalla vita presente alla migliore il sodetto rv primicerio dn Gio Sabato Giuliani, sotto il dì marzo 1736 d’età sua anni 86 con universale afflizione [...] e come coronato d’ogni virtù in terra e per li tanti benefici e prerogative che godé il pubblico per suo mezzo, cossì spero goda in cielo l’eterna gloria; assicurato da un sogno in cui mi disse che otto anni doveva stare in purgatorio.

 

Viene confermato questo sentimento dall’espresso dal P. Bartolomeo Sibilla metropolitano nel suo libro intitolato Speculum peregrinationum [...].

 

Fra l’elogi scritti con lettere festose in loda del suddetto rev. primicerio don Gio Sabato Iuliani affissi nella castellana vi fu il seguente che esprime al vivo parte delle vere virtù che lo decoraro

 

D. O. M.

Que nec virtuti Nobilitati nec Evo parcij

Precibus semper surda

semper immani

Cum ille UJD Primicerius Giuliani

Patria honos pauperumque spes

Pietati cultor

Veritatis propugnator

Ecclesia defensor

 

Qui octuagesimo serto expleto iam anno

In falcis vulneri tandem cessit

memoriam non cessit

 

At si tanti viri invida

Vota nostra tenuis

Prope Piram lacrimas

Pro eius iactura

saldem prohibere non potes

 

Tot sunt animi Pathemata

Dum corda nostra

Luctus occupat.

 

 

Sonetto del sacerdote dottor fisico don Giremia Minada

 

Alla dovuta e pia memoria del quondam degnissimo Primicerio Giuliani vigilantissimo difensor di questa Patria

 

Pugnò senz’armi e sol di zelo armato

mostrò petto e coraggio ad ogni impresa

e per il dritto e il giusto alla difesa

richiamo da macabi e spirto e fiato.

 

Pari non vidde mai il tempo andato

In mantener la Amata Patria illesa

duce in campo Mosè Aron in chiesa

visse e ridusse l’alme a miglior stato.

 

Di palme annoso poi, di gloria e fatti

aperse l’ali all’eternal riposo

chiudendo gli occhi al secolo de matti.

 

Solo fra gente men fedel non oso

oltre garrir del Giulian ch’esalti

egual fe’ i giorni ad un Elia zeloso.

 

 

N.B. Nella trascrizione di questo documento sono stati apportati opportuni interventi per rendere più chiara la lettura dello stesso.

 

 

1703, aprile 4.

 

Attestato a favore di Giovan Sabato Iuliani, primicerio della Collegiata di S. Michele Arcangelo.

 

[...] Nella nostra presenza costituti il clerico Pietro Antonio Petrone, et Domenico Antonio Morena della terra di Solofra, li quali interveneno, spontaneamente con giuramento in presenza nostra, e fanno fede, “come quando si pagorno docati mille all’heredi del quondam Don Gabriele Petrone per ordine della sig.ra madre dell’Ecc.mo signor Duca di Gravina, venne l’Illustrissimo Monsignor de Cavalieri vescovo di Gravina in Napoli confidente della detta signora Madre a portarli, et aggiustare i patti delle remissioni, e paci unitamente col Consigliero sig. Pietro di Fusco, et Don Luigi Chiaiese agente di detto Ecc.mo sig. Duca; Parimenti furno pagati dal detto Monsignor de Cavalieri per mano del medesimo Don Luigi Chiaiese ducati trecento restituiti al Rev.do Primicerio Don Gio. Sabato Iuliano di Solofra per altri tanti che l’erano stati incammarati dalla rev. Nuntiatura di Napoli per esser andato in Solofra a procurare le dette remissioni, che poi si ottennero per mezzo di detto primicerio, et testifica detto Clerico Pietro Antonio, che detto pagamento fu fatto in Napoli in sua presenza, et detto sig. Domenico Antonio, haverlo allora inteso dire dal detto Ill.mo Monsignor de Cavalieri, stando il medesimo sig. Domenico Antonio in Napoli per detto effetto per esser cognato del sig. Gio Benedetto Petrone figlio del detto q.m Don Gabriele, et sic cum iuramento attestaverunt, et actestant [...]. (ASA, Notai, anno 1703).

 

 

 

 

 

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[1] Di lui hanno parlato A. Graziani, Memoria del primicerio D. Giovan Sabato Iuliani e di alcuni buoni cittadini di Solofra, Avellino, 1889. L’opera ha il pregio di riportare le memorie del notaio Vito Antonio Grassi contemporaneo dello Iuliani raccolte in un manoscritto. Le notizie narrate dal Grassi sono attendibili poiché il Graziani dichiara di averle controllate dall’archivio Orsini a cui aveva potuto accedere. V. pure F. Scandone, Documenti per la storia dei comuni dell’Irpinia, Avellino. La raccolta riporta alcuni documenti riguardanti la vicenda dello Iuliani. O. Caputo, Sacerdoti salernitani, Salerno, 1981,  pp. 149-131. G. Didonato, Solofra nella tradizione e nella storia, III, Messina, 1923, p. 157.

[2] Clemente X, della potente famiglia romana dei Colonna, era imparentato con gli Orsini infatti fu questo papa a nominare prima Arcivescovo e poi Cardinale Pier Francesco Orsini, il futuro papa Benedetto XIII. Bisogna considerare che il napoletano era feudo della Chiesa di Roma per cui il papa poteva intervenire nelle nomine ecclesiali.

[3] Il Concilio di Trento nel rimettere ordine nei rapporti tra il clero e l’episcopato diocesano e tra questo e i feudatari al capitolo n. 3 sess. XXIV affermava che era diritto e dovere del clero di dare vitto e alloggio al vescovo in visita.

[4] ADS, VV. PP. cart. 22 (Salerno e diocesi) 1566-1684, fasc. visita personale a. 1681.

[5] G. Crisci, La Chiesa di Salerno attraverso i suoi vescovi, vol. II, Roma-Napoli, 1977, pp. 145-148.

[6] I feudatari avevano nei loro feudi il mero e misto imperio cioè la possibilità di controllare le cause civili e penali per cui potevano porre sotto accusa e rinchiudere in carcere i cittadini. In questo modo in mano al feudatario c’era l’arma per allontanare ogni opposizione e continuare a perpetrare gli abusi che in un ambiente economico si sentivano maggiormente. Al tribunale erano infatti legate le carceri in cui erano tenuti in modo disumano i condannati che nella maggior parte erano i creditori.

[7] F. Scandone, op. cit., p.

[8] I proventi del feudo di Muro e Gravina andavano alla madre, quelli di Vallata al fratello cardinale.

[9] I canonici erano G. Vigilante, A. O. Landolfi, F. Grimaldi, A. Guarini.

[10] Il Graziani narra che il giorno dopo trovarono il cadavere che fu seppellito, ma non si sa dove.

[11] Il Graziani riferisce che gli fu trovato in tasca un promemoria per il Vicerè spagnolo in cui denunziava le angherie e i soprusi del principe.

[12] Sembra che la proposta alla nomina a vescovo gli fosse stata offerta prima anche da Innocenzo a cui il primicerio avrebbe risposto :«La patria chi l’aiuta?» e dallo stesso Orsini divenuto papa a cui rispose: «La mia Sposa è la Collegiata di San Michele».

[13] Nel racconto di Vito Antonio Grassi c’è anche il fatto che l’Orsini aveva deciso di costruire un “casino” all’angolo del suo palazzo di fronte alla porta della Collegiata per assistere alle funzioni senza entrare nella chiesa e che in questa opera fu ostacolato dal primicerio e da altri solofrani fino a che dovette desistere. Questo fatto ha dato il via al racconto di un ponte costruito dall’Orsini dal suo palazzo alla chiesa e tagliato da San Michele. 

[14] A.S.N, Partium Collaterale, vol. 113, f. 134. Si può ipotizzare che il Murena volesse coinvolgere anche il  successore di Domenico Orsini e magari essere di nuovo nominato agente del feudatario.

[15] A.S.N, cit.. Il governo civico, che aveva inviato il ricorso contro il Murena, era costituito dal sindaco Alessio Landolfi e dagli eletti Felice Petrone, Carmine Grasso, Giuseppe de Maio e Giuseppe Giannattasio. Avevano firmato anche i parlamentari Antonio Landolfi, Altobello Garzilli, Alfonso e Giuseppe Guarino, Matteo Garzilli, Andrea Pandolfelli. Ne aveva autenticato le firme il notaio Antonio Grassi di Solofra.