Leggi il secondo capitolo. Nove paragrafi con note in calce 

Alle radici di Solofra

 

Capitolo secondo

 

 Influssi bizantini e realtà longobarda

 

 

1. Con lo scoppio della guerra greco-gotica (535-553) il territorio di Abellinum fu conquistato da Belisario (536-539) poi preso da Totila (543), che distrusse tutte le opere di difesa in esso esistenti per impedirne ai Bizantini la rioccupazione1, e infine fu definitivamente sottomesso da Narsete (553), il generale bizantino che sostò per più di un anno nella pianura tra il Sarno e Montoro2.

Tali distruzioni, tra cui quelle della stessa Abellinum3, dettero inizio ai tempi bui della dominazione bizantina (555-571) nelle contrade irpine che, sottoposte ad un esoso fiscalismo, col-pite da pestilenze e carestie e da due rovinose eruzioni del Vesuvio, non si ripresero più4.

In questo quadro si colloca l’abbandono delle villae rusticae del bacino del flubio-rivus siccus5 che però, per la conformazione morfologica della sua parte interna - una conca, si è visto, con marcati elementi difensivi - si prestò al fenomeno degli arroccamenti. È questo un vasto processo altomedievale che interessò tutti i territori romani all’indomani delle invasioni e che si ebbe in seguito all’abbandono delle pianure, divenute insicure, e delle coste, esposte alle incursioni saracene, a favore delle zone alte - colline pedemontane, balze naturalmente difese - . Nella fattispecie esso si verificò sia nella valle del Sabato che nei bacini interni del Sarno e dell’Irno6.

Come in tutte le zone ad insediamento romano gli arroccamenti attestano nel luogo la continuità abitativa ad opera degli inermi possessores che si improvvisarono defensores sfociando nella logica dell’autodifesa. La villa rustica della pianura, che aveva permesso la sussistenza nell’ultimo periodo dell’impero definendosi, come si è visto, in curtis, dette a questo nuovo tipo di insediamento oltre al modello economico anche quello costruttivo. Si giunse cioè alla trasformazione della tipologia abitativa propria della curtis in quella della cortina medievale7.

Il fenomeno degli arroccamenti è testimoniato nella parte alta del bacino del flubio-rivus siccus da due agglomerati siti in luoghi elevati che hanno conservato fino ai nostri tempi la strut-tura difensiva medievale e le tipiche abitazioni, le cortine appunto. Queste hanno dato origine ai due citati toponimi: Cortina del cerro e Le cortine. Il primo indica un casale a sud, su una balza del complesso dei Mai, difeso dalla collinetta di Chiancarola, il secondo si riferisce ad un identico abitato a nord, sui fianchi del monte S. Marco. Quest’ultimo è direttamente legato a Castelluccia entra quindi a far parte di quel blocco strategico-difensivo di rivelante valenza già preso in considerazione nell'analizzare il periodo sannita-romano. Essendo questi insediamenti privi di fortificazioni murarie sia per l’esiguità del nucleo abitativo che per la difficoltà di accesso, la stessa abitazione-cortina divenne un fortilizio8.

Il restringersi della vita negli arroccamenti portò al mancato controllo delle acque e al loro insabbiamento nella pianura che divenne impenetrabile il che accentuò la sicurezza della conca, ma anche l’isolamento9.

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1. Le popolazioni stremate dal fiscalismo bizantino della prima occupazione si erano date a Totila che era riuscito ad avere il loro appoggio ma che poi operò radicali distruzioni lasciando fortificate solo Napoli e Cuma (cfr. O. Bertolini, La guerra greco-gotica in Storia delle dominazioni barbariche in Italia, Milano, 1878, IV, pp. 100 e sgg.).

2. Di questo evento è rimasto nella zona di Montoro il toponimo campo dei greci (cfr. IGM).

3. Cfr. F. Scandone, Storia..., I, II, pp. 10-15. La città fu abbandonata e non più ricostruita. Essa perdette anche la diocesi (F. Lanzoni, op. cit., p. 250).

4. La regione fu devastata anche dall'esercito bizantino vincente per la feroce opposizione fatta dalle popolazioni (cfr. E. Pontieri, Le invasioni..., pp. 47 e sgg. e 145 e sgg.).

5. L'abbandono delle villae si lega tanto alla distruzione di Abellinum e alla conseguente fuga sulle zone alte che interessò tutta la zona quanto alla fuga dalla pianura e dalla costa.

6. Gli eventi bellici e le distruzioni di cui si sta parlando provocarono l'abbandono delle zone più esposte ciò avvenne anche per Salernum che aveva subito l'invasione di Alarico e Genserico e che durante la guerra greco-gotica fu in mano sia a Belisario che a Totila. Anche la sosta di Narsete e di Teia nel bacino del Sarno provocò la fuga degli abitanti sui luoghi alti (cfr. C. Carucci, La provincia di Salerno dai tempi più remoti al tramonto della fortuna normanna, Salerno, 1922, pp. 132 e sgg.).

7. Le cortine sono pluriabitazioni che si sviluppano intorno ad un cortile a cui si accede attraverso un solo passaggio sotto le abitazioni, facilmente isolabile e difendibile, chiamato in loco con voce longobarda, di evidente assunzione posteriore, "wafio". V. infra.

8. Il primo arroccamento si trova in territorio di Solofra il secondo in territorio di S. Agata, quest'ultimo sovrasta la romana villa rustica di Tofola sottolineando il citato rapporto di insediamento. Altri luoghi che nella conca si sarebbero potuti prestare agli arroccamenti sono quelli occupati dagli antichi casali di Caprai, Sorbo e Balsami dove sino a tempi recenti era diffuso il termine corte (ASA, B 6522 e sgg.). V. infra..

10. Degli straripamenti del flubio-rivus siccus che interessavano la strettoia di Chiusa allo sbocco nella pianura di Montoro si è detto. V. infra.

 

 

 

 

2. Per la scomparsa di Abellinum e per la peculiarità difensiva del bacino a vantaggio di chi cercava scampo dalla pianura e dalla costa, lo stesso entrò nell’orbita di Salerno1. Venne cioè a far parte di quell'area gravitante sulla città che visse per lungo tempo una simbiosi particolare con essa e che vide in questo periodo la costituzione dei distretti pievani che sono territori organizzati intorno ad una chiesa matrice2.

Negli angoli più riposti di quest'area il cristianesimo delle origini non scomparve anzi tra il fallimento del mondo romano e gli sconvolgimenti delle invasioni fu l’unico sostegno per le popolazioni isolate nelle campagne3. E fu in questi ambienti che andò formandosi, come in tutte le comunità postcristiane, quel sincretismo di cristianesimo e paganesimo che è il substrato della religiosità popolare in cui i comportamenti pagani, depurati dall’aspetto religioso, si trasformarono in atti consuetudinari permettendo al cristianesimo di assorbirli in . Ciò avvenne per il culto dei santi e degli angeli che sostituì il bisogno pagano di quella serie di dei minori che accompagnavano l’uomo dalla nascita alla morte e portò alla pratica di porre croci o piccole cappelle nei luoghi della vita quotidiana - campi o case - per porli sotto la protezione divina4.

In questo territorio ad ampia diffusione romana, in cui non potettero non esserci luoghi di culto pagano secondo un'esigenza fortemente avvertita dalla realtà rurale e in cui si era introdotto il cristianesimo delle origini, avvenne la trasformazione dei sacelli romani in luoghi di preghiera cristiani5. Di essi fu matrice e nucleo la pieve che è una chiesa di campagna che esiste là dove ci sono questi semplici luoghi di culto sparsi e che dette origine al distretto pievano. In un territorio ad insediamento romano, dunque, il distretto pievano attesta una tale evoluzione e ne conferma la continuità abitativa6.

In queste zone di diffusa cristianità, cominciarono a giungere fin dal V secolo le periodiche visite degli inviati del vescovo di Salerno - la città fu un attivo centro di evangelizzazione delle campagne7- per i bisogni religiosi delle popolazioni fino a quando fu sentita l'esigenza della presenza stabile sul luogo di un presbitero che esercitasse la cura animorum8 raccogliendo i fedeli sparsi in una chiesa dove gradatamente si stabilizzarono le funzioni liturgico-sacramentali più importanti quali il battesimo, la sepoltura e le celebrazioni del Natale e della Pasqua.

Questa chiesa - la pieve appunto - divenne il centro di un distretto abitativo-religioso che fu una caratteristica dell'organizzazione del territorio compreso tra l'Irno e il Sarno operata dall'episcopio di Salerno9. Le pievi del locum Solofre, di S. Cesareo, di Rota e di Nocera furono i quattro centri di questa nuova realtà dell'entroterra salernitano10.

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1. Bisogna considerare la grande valenza della gravitazione del bacino sulla pianura di Rota per la funzione che questa ebbe di valico tra le valli dell'Irno e del Sarno e di polmone vitale per Salerno. Essa favorì le vicende storiche di tutta l'area a cominciare da quelle del periodo di cui si parla.

2. La realtà pievana di questa parte della pianura alle spalle di Salerno è stata studiata da Bruno Ruggiero (Per una storia della pieve rurale nel Mezzogiorno medievale e "Parrochia" e "plebs" in alcune fonti del Mezzogiorno normanno in Potere, istituzioni, chiese locali. Aspetti e motivi del Mezzogiorno medievale dai Longobardi agli Angioini, Bologna, 1977, pp. 179 e sgg.) che ha sistemato in un importante studio tutta la questione.

3. È dimostrato che la soppressione delle diocesi e la riduzione della vita negli ex-territori romani non significò la fine del cristianesimo (cfr. A. Fliche-V. Martin, Storia della Chiesa, Torino, 1941; O. Bertolini, Roma di fronte a Bisanzio e ai Longobardi, Bologna, 1941).

4. R. Manselli, Storicità e astoricità della religione popolare in Rappresentazioni arcaiche della tradizione popolare, Viterbo, 1985, pp. 25-42. Anche nelle campagne dell'entroterra salernitano ci fu un lento scomparire dei segni del paganesimo cosa che si coglie a Forino dove uno sculdascio firma un atto pubblico facendo precedere il suo nome da un triangolo e non dal segno di croce come avveniva nei territori cristiani (CDC, I, 1).

5. È molto probabile che nell'arroccamento di Le cortine sia rimasto il culto a S. Agata tanto che il nome fu usato nell'indicazione toponomastica in modo generico come si è visto e come risulta dalla sua prima citazione alto-medievale quando il processo di impianto si era già consolidato (Cfr. AD,2). Vale la pena citare in proposito una indicazione locativa del luogo "supta ipsa gripta" (gripta può indicare tanto una grotta quanto un rifugio del cristianesimo delle origini. Cfr. Forcellini, op. cit., s.v.) e il toponimo croci sul passo di Castelluccia tra S. Agata e Montoro (AD,19).

6. Il problema della continuità tra insediamenti romani e distretto pievano è stato approfondito nelle settimane di studio sull'alto medioevo di Spoleto. Gli studiosi hanno dimostrato che nelle aree a diffusione romana un pagus, una strada e una pieve assegnano ad esse la continuità abitativa (cfr. Aa. Vv., Cristianizzazione e organizzazione ecclesiastica nelle campagne dell'alto medioevo, Spoleto, 1982, pp. 19-46, 277-280, 301-332).

7. Dinanzi al decadimento delle magistrature ordinarie i vescovi ampliarono le loro funzioni. In special modo il preposto all'episcopio di Salerno diventò il rappresentante della comunità, unica autorità stabile e punto di riferimento. Egli promosse l'avvicinamento e la fusione tra i dominatori e la popolazione, organizzò e diresse le ambascerie. Salerno fu l'unico centro da cui si irradiò l'evangelizzazione delle campagne, delle quali quelle vicino alla città subirono per prima l'azione di penetrazione (cfr. G. Crisci-A. Campagna, Salerno sa-cra, Salerno, 1962, p. 139 e sgg.; G. Crisci, Il cammino della Chiesa salernitana nell'opera dei suoi vescovi, I, Napoli-Roma, 1976, pp. 55-72; A. Fliche-V. Martin, op. cit., IV, pp. 6118-6122). È importante seguire la formazione del rapporto con Salerno che è alla base del concetto, che più volte si richiamerà, di entroterra salernitano

8. La cura delle anime si presentò come un compito necessario in un mondo non più romano con forti spinte di elementi stranieri. Il Crisci afferma che la necessità di porre in modo stabile a capo di queste comunità di fedeli un presbitero trovò pratica realizzazione - tra il 499 e il 535 quando il vescovo Gaudenzio si assentò per partecipare al Sinodo romano e al Concilio di Costantinopoli - per agevolare i cristiani costretti a recarsi a Salerno per le funzioni religiose più importanti (G. Crisci, op. cit., I, pp. 36 e sgg.).

9. Cfr. B. Ruggiero, Per una storia..., pp. 59-87. Tutta l'opera del Ruggiero chiarisce l'importante problema dell'organizzazione ecclesiastica del territorio sottoposto all'episcopio di Salerno.

10. Ibidem.

 

 

 

3. La pieve di S. Angelo e S. Maria del locum Solofre, di cui si ha un articolato ed interessante documento, dimostra il passaggio avvenuto nella zona dalla dimensione abitativa romana a quella curtense, nello stesso tempo ne sottolinea il carattere di marcato arretramento proprio delle espressioni abitative altomedievali. Essa, pur essendo matrice di un'area più vasta, acquistò modalità proprie perchè a servizio di un territorio a limitata densità abitativa e altamente conservativo e isolato. Tale peculiarità è data dalla collocazione della chiesa - in posizione alta lungo la riva destra del flubio non lontano dall’arroccamento di Cortina del cerro - e dal fatto che essa non ebbe un collegio di chierici, come le altre pievi, tutte poste in pianura. E si coglie nelle cellae della pieve per la raccolta delle derrate e nelle sue pertinenze, entrambe a servizio della comunità, che legarono alla chiesa le funzioni comuni non solo religiose e dettero al locum l'impronta di un territorio elementarmente organizzato intorno alla chiesa1. Questa chiesa in sostanza fu più radicata al locum. Ad ulteriore sottolineatura di questa caratteristica c’è il fatto che il toponimo sala, che nel primo periodo longobardo indicava il magazzino per la raccolta da parte della comunità delle terze parti dei prodotti2 e che è presente a Serino e a Montoro dove ha dato luogo addirittura a due casali, non esiste a Solofra proprio perchè qui la chiesa assunse una funzione anche civile.

C’è infine un ultimo elemento dal forte potere coagulante per questa comunità, elemento che accompagna la sua continuità, cioè il cimitero. Esso lega insieme i momenti insediativi precedenti con quello altomedievale nel medesimo luogo, quella collina di Starza, che aveva accolto sul suo lato nord-occidentale la necropoli sannito-romana e che nell'alto medioevo vide, nel ius cimiterii della pieve, posta sul suo lato meridionale, la cifra del radicamento di un gruppo al suo territorio3.

La pieve del locum Solofre diventa dunque un importante punto di riferimento perché ingloba in sé due componenti di base di ogni vita comunitaria, quella religiosa e quella economica. Diventa un fattore di sicurezza nella precarietà dei tempi, un vincolo della solidarietà nell’isolamento del lavoro e negli ampi spazi di allora, unitaria testimone delle vicende della comunità e suo elemento di continuità favorendo l'instaurarsi di modalità particolari e distintive rispetto al resto del bacino.

Essa dipendeva direttamente dall’episcopio di Salerno e ciò, si è visto, fa parte della presa di possesso delle campagne operata da quei vescovi. Si deve qui sottolineare l'importanza di questo dato perchè tutto il territorio del distretto pievano si legò alla città agevolando lo svilupparsi di quei legami che costantemente si ritroveranno nei vari momenti della vita dell'intero bacino.

Da Salerno nei secoli VI e VII si irradiò la civiltà bizantina in un processo importantissimo di "riappropriazione" che caratterizzò tutto il periodo che va dalla guerra gotica alla conquista longobarda4.

Testimonianze dell'impronta bizantina nel bacino del flubio-rivus siccus si colgono sui monti di Montoro nel toponimo laura che indica una serie di celle monastiche in luoghi montuosi con una chiesa comune5; nella non lontana grotta di S. Michele che richiama la forma ingrottata del culto micaelo introdotto in Italia dai Bizantini il cui esempio più forte è nella grotta del Gargano6; in un monastero citato in località Sala di Montoro7; a Solofra nella intestazione della pieve a S. Maria che si collega alle tante chiese che i bizantini dedicarono alla Vergine "de mense augusto" mentre ne diffondevano il culto, infine nello stesso culto mariano - una vera festa bizantina - documentato nella pieve con particolare solennità8.

 

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1. AD, 11. Oltre alle cellae e alle case de applicta (per ospitare i chierici in occasione delle funzioni religiose o per altri bisogni) la pieve aveva tra le sue pertinenze le attrezzature per la molitura e la panificazione e per la produzione del vino e dell'olio. Questa chiesa è stata studiata in M. De Maio, La pieve di S. Angelo e S. Maria del "locum Solofre" in "Rassegna storica irpina", 1992, pp. 87-120 a cui si attinge in questo tratto.

2. Cfr. G. P. Bognetti, Storia, archeologia e diritto nel problema dei Longobardi in Aa. Vv., Cristianizzazione..., pp. 98-99. In zone poco popolate i tributi venivano raccolti in luoghi comuni.

3. Cfr. PII e AD. Anche il ius baptisterii, di cui egualmente era titolare la pieve, ha una forte valenza fondante perché attraverso questo sacramento si entrava nella comunità dei cristiani.

4. Salerno fu bizantina fino alla caduta in mano ai Longobardi. La città, che nel periodo romano aveva avuto minore rilievo, divenne un importante centro e ciò permise la continuità abitativa nella sua pianura di riferimento (Cfr. G. Galasso, Considerazioni intorno alla storia del Mezzogiorno d'Italia in Mezzogiorno medievale e moderno, Torino, 1965, pp. 63 e sgg.; Id, Le città campane nell'alto medioevo, Napoli, 1972). Il Galasso sottolinea questa continuità in tutta la pianura campana legata alle città della costa. Per la diffusione della civiltà bizantina da Salerno v. C. Carucci, op. cit., pp. 50 e sgg.

5. Cfr. P. Ebner, Monasteri bizantini, Roma, 1970, p. 93 e nn. 28 e 29; S. Borsari, Monasteri bizantini nell'Italia meridionale longobarda, ASPN, 1950-1951, pp. 1-16. I monaci divennero sostegni formidabili nella guida degli uomini e nella custodia della religione in questo periodo di transizione.

6. Su questa grotta, che ha molti richiami con quella del Gargano e con quelle dell'area bizantino-longobarda, G. D'Alessio (Il culto di San Michele Arcangelo, santuari tra Salerno e Avellino, Solofra, 1993, pp. 26-37) ha prodotto interessanti documenti fotografici.

7. A. Di Meo, [Annali, Napoli, 1795-1819] II, p. 202. Qui si sarebbe fermato "per qualche tempo", nell'anno 699, S. Vitaliano, vescovo di Capua.

8. Fu l'imperatore bizantino Maurizio, dopo che il Concilio di Efeso (431) aveva promulgato il culto della Vergine, a prescriverne la celebrazione in tutto l'impero alla data del 15 agosto. Le comunità di monaci ciciliani, greci e siriani, fuggendo dalle invasioni persiana e araba e dalle persecuzioni ripararono in Italia dove propagarono l'iconografia mariana (Cfr. Enciclopedia cattolica, s.v.; F. Heiler, La madre di Dio nella fede e nella preghiera dei primi secoli in "Ricerche religiose", VII, 1931). In tale data si svolgevano particolari riti, come si rileva dai libri in dotazione della chiesa, ed era prescritto alla comunità di Solofra di destinare precisi tributi all'episcopio di Salerno (Cfr. AD,11).

  

 

 

 

4 . Tale realtà trovarono i Longobardi quando penetrarono nelle regioni interne del Mezzogiorno dietro Zottone (570-571) e, cacciati i Bizantini, formarono il ducato di Benevento che. a sud giungeva fino ai monti Mai e a Rota1. Da questa parte dell'Irpinia quindi i primi Longobardi si affacciarono sulla pianura alle spalle di Salerno.

Questo popolo, che aveva perduto la ferocia dei primi tempi, conservò per lungo tempo un'organizzazione prettamente militare, pertanto i gruppi familiari in cui erano divisi - le fare, entità accentuate nel ducato beneventano - si trasformarono in gruppi armati permanenti ognuno dei quali tese a divenire una signoria locale in un preciso territorio, il gastaldato. La fara ricalcò l'organizzazione comunitaria trovata nei territori occupati, furono pertanto lasciati gli insediamenti fortificati, e fu favorito, ma ciò avvenne in un secondo momento, un processo analogo a quello che aveva portato agli arroccamenti, l'incastellamento, cioè la ricerca della difesa, ma intorno ad un castello2.

I gastaldati furono quindi circoscrizioni territoriali autonome espresse anche nella toponomastica - ad esempio rotense finibus indicava il territorio del gastaldato di Rota - e centri di una iudicaria in cui il gastaldo, il vero capo, era presente agli atti legali ed aveva propri ufficiali - gli sculdasci - residenti nei centri minori3.

Nella prima fase della loro conquista i Longobardi non costruirono nuovi punti fortificati, rinforzarono solo quelli esistenti. Ciò avvenne anche nella valle del Sabato dove nel territorio di Abellinum distrutta fu utilizzato un luogo parzialmente e naturalmente difeso, la collina "Terra", che divenne il centro dell'insediamento più meridionale del ducato beneventano e che sarà sede della contea di Avellino4.

Particolarmente adatto al carattere offensivo-difensivo dei primi insediamenti dovette presentarsi il bacino del flubio-rivus siccus che rispondeva alla tendenza di questi primi gruppi a mantenersi arroccati sulle zone alte. Bisogna perciò pensare ad un utilizzo in funzione militare di Castelluccia, col suo abitato, e di Chiancarola, con la non lontana Cortina del cerro, che si affacciavano su una pianura solo in parte in loro possesso e bisogna pensare anche ad un pedaggio sulla strada5 secondo il sistema tributario longobardo.

Per attingere ai bisogni di sussistenza e a quelli militari la fara si poggiò sul sistema curtense elementarmente organizzato, come si è visto, negli arroccamenti intorno alla pieve. Fu mantenuta l'organizzazione delle funzioni collettive che agevolava la produzione agraria, fu sostenuto lo sviluppo delle terre e l'allevamento per cui in questa epoca deve porsi, per la possibilità di visione retrospettiva che i documenti in possesso permettono, una prima opera di dissodamento e recinzione dei fondi con la conseguente limitazione delle aree incolte. Poichè però i nuovi arrivati non si curarono dello stato giuridico dei ceti rustici e rimasero lontani dai bisogni degli abitanti, permase nella conca la logica dell'autodifesa che continuò a trovare nella pieve, pure in questa nuova temperie, un sostegno alle carenze dei tempi6.

Nel frattempo i Longobardi erano diventati fedeli dell'arcangelo Michele, figura rispondente al loro spirito guerriero7. Nella diffusione del culto micaelo, già esistente nelle zone d'influsso bizantino, essi lo aggiunsero alle realtà religiose preesistenti senza stravolgerle, ripetendo in questo il già individuato comportamento di rispetto delle realtà locali. Ciò portò alla pratica della doppia intitolazione delle chiese nelle contrade occupate. Essi in sostanza aggiungevano il nuovo culto, segno di un sigillo religioso proprio, a quello precedente dando però anche inizio ad un graduale processo di sostituzione del culto antico8.

Questa pratica si riscontra nella doppia intestazione della pieve di S. Angelo e S. Maria, confermata dal documento nel quale è chiara l'origine longobarda di quel "S. Angelo" che si aggiunge alla precedente titolazione "S. Maria", perchè la festa del santo Angelo, che è quella centrale celebrata nella chiesa, cade l'8 maggio, è cioè la festa longobarda, quella di S. Maria cade invece il 15 agosto, è cioè la festa bizantina9.

Nel documento in più si individua anche il processo di sostituzione che porterà al sopravvento della intestazione all'Angelo, infatti in occasione della festa dell'8 maggio cade l'obbligo per la chiesa del censo di ricognizione che è il tributo più importante perchè indicativo del possesso della chiesa e costitutivo della sua stessa realtà10.

 

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1. In questa prima fase i Longobardi si mantennero nelle zone interne arroccati sui monti dove era possibile una difesa con poche forze. Ai Bizantini lasciarono il possesso delle coste (Cfr. F. Hirsh, Il ducato di Benevento sino alla caduta del regno longobardo, Torino, 1890, pp.23 e sgg.; E. Pontieri, Benevento longobarda e il travaglio politico dell'Italia meridionale nell'alto medioevo in Divagazioni..., pp. 46-50).

2. Cfr. F. Hirsh, op. cit., ivi.

3. I gastaldi nel ducato di Benevento ebbero una fisionomia diversa dagli altri. La loro maggiore autonomia li portò a considerare la proprietà ereditaria. Furono in effetti dei feudatari senza le specifiche caratteristiche di questi mentre il duca, il capo che risiedeva nella capitale del ducato, si chiamò vir gloriosissimus dominus gentis Langobardorum summus dux. L'individualità spiccata di questi gastaldati, che è d'influsso romano, portò il ducato a legarsi al territorio e fece acquistare valore ad una caratteristica longobarda, l'assemblea, elementi che caratterizzarono fortemente la vis culturale delle popolazioni (Cfr. G. P. Bognetti, L'influsso delle istituzioni militari romane sulle istituzioni longobarde del secolo VI e la natura della "fara" in L'età longobarda, Milano, 1966, III, pp. 35 e sgg.).

4. Cfr. F. Scandone, Storia…, I, II, pp. 10-18; E. Cuozzo, Avellino medievale in Storia di Avellino, Avellino, 1992, pp. 11.14.

5. In località S. Agata-Banzano si può porre un'attività di passo e quindi di riscossione di una dogana per via della strada. Possibile è questa probabilità anche in locum Solofre, e quindi a Turci, vista la citazione di un Iohanni, qui fuit portarum (PII e AD, 9). A questa modalità longobarda è legata la calzante interpretazione del toponimo Solofra avanzata dallo storico Francesco Scandone dai termini zoll=gabella e fara il nucleo familiare longobardo (Documenti..., p. 225). Tale ipotesi deve però affrontare le considerazioni che lo Scandone non conosceva la realtà sannita e romana della conca, essendo tali scoperte a lui posteriori, ma neanche lo studio coevo del linguista G. Alessio, che, si è visto, assegna il toponimo all'area italica. V. infra.

6. Non si instaurò subito un processo di integrazione i dominatori infatti si consideravano gentiles e ritenevano libero solo l'arimannus (Cfr. G. P. Bognetti, Vita sociale e politica in op. cit., II, pp. 109 e sgg.).

7. Nella battaglia di Siponto dell'8 maggio del 625 i Longobardi, attribuendo la vittoria all'aiuto dell'arcangelo che dominava dall'alto del Gargano, ne adottarono il culto - la figura del santo che pesava le anime trovò rispondenza nelle loro credenze - e la festa (Cfr. P. Diacono, Historia Langobardorum, V, 1, IV, 46; G. P. Bognetti, I Longobardi e i loro rapporti col cristianesimo in op. cit., pp. 31 e sgg.). I Longobardi dettero un forte impulso alla costruzione e alla restaurazione di chiese (Cfr. G. Crisci, op. cit., I, p. 89).

8. Cfr. A. Crivellucci, Le chiese cattoliche e i Longobardi ariani in Italia in "Studi storici", VI, 4, 1897, pp. 93-115 e pp. 589-604.

9. Cfr. AD, 11.

10. Ibidem. Nel documento appare chiaro il ruolo secondario della festa di S. Maria del mese di agosto. Pur se la chiesa perdette l'intitolazione a S. Maria, rimase naturalmente in essa la cappella dedicata alla Vergine come si evince da un atto notarile dell'XVI secolo quando, abbattuta la chiesa dell'Angelo per far posto ad un nuovo e più ampio tempio - la futura Collegiata - si dovettero sostituire le cappelle in essa esistenti: tra queste c'era "ab antiquo" "la cappella a S. Maria de mezzo agosto" (ASA, B 6574, II, ff. 73v e 74r).

 

 

 

 

 

5. Con Arechi I iniziò da questo territorio l'occupazione dell'intero bacino del Sarno e dell'Irno in preparazione della presa di Salerno. Essa infatti fu preceduta da una consistente opera di potenziamento militare delle zone interne e fu sostenuta da una spinta alla messa a coltura delle terre.

Nel contesto delle fortificazioni operate da Arechi I c'è il rinforzo dell'antico "oppidum Rota" e può collocarsi la costruzione dei fortilizi di Forino e Montoro che portarono all'incastellamento della pianura e ne sostennero la sua messa a coltura1, e potrebbe porsi anche il rinforzo del passo di Taverna-Castellucia con uno dei due castelli del Pergola-S. Marco. Bisogna infatti considerare che questi fortilizi, posti sul lato settentrionale e meridionale del monte e uniti sia a Castelluccia che a Turci, costituivano un essenziale complesso difensivo sul bacino e per chi veniva dall'interno2.

La presa di Salerno fu agevolata e resa pacifica proprio dal fatto che Arechi poteva contare sul territorio interno fortemente in sua mano dove fin da questo periodo può porsi la costituzione del gastaldato di Rota. È da tenere presente infatti che il castello di Rota presto ebbe un'autonomia militare tanto che il suo gastaldo ebbe il potere dell'horibannum e un legame personale di fiducia col duca3.

Col risveglio delle attività in pianura, Montoro e Forino divennero punti di riferimento per la raccolta dei dazi del mercato e dei tributi curata dallo "sculdascio" e per la difesa dei territori che, pur conservando l'impronta militare, subirono una radicale trasformazione4.

In questo contesto di precarietà ma anche di sviluppo, in cui si rafforza il rapporto di Salerno con la pianura retrostante, il sistema pievano continua a svolgere l'importante funzione di auto-organizzazione del territorio sostenuta dalla Chiesa infatti le sue pievi divennero sedi curiali dove cioè si risolvevano le controversie5.

Siamo ancora in un periodo in cui i Longobardi concepivano il nucleo familiare come unità patrimoniale per cui il possesso terriero procedeva di pari passo con la occupazione del territorio che però, si è visto, conservava la sua organizzazione. Questo processo avvenne senza contrasti perchè fu graduale e perché nelle aree disabitate l'opera di limitazione dell'incolto appariva proficua per tutti. Di conseguenza da una fase di non interferenza con le tradizioni locali si passò ad una fase di feconda apertura in cui le consuetudini locali (usus loci), acquisite o tenute presenti, vennero a far parte di tutta quella serie di norme non scritte che favorirono una profonda amalgama culturale6.

Nell'opera di integrazione e fusione con la popolazione locale ebbe un ruolo determinante la Chiesa di Salerno che attivamente partecipò alla vita della città continuando quell'impegno di guida messo in atto fin dall'epoca precedente che ebbe un grande rilievo politico ed economico. Nelle campagne l'intensa attività della Chiesa trovò ampio sviluppo e fu un elemento non secondario del particolare rapporto, già citato, che venne a crearsi tra la città e il suo territorio circostante a cui apparteneva, attraverso Rota, il bacino del flubio-rivus siccus7.

 

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1. Si può far risalire il ripristino di Rota al tempo dell'attacco fatto da Zottone a Napoli (581) quando il duca ebbe bisogno di un punto avanzato sulla pianura (F. Hirsh, op. cit., ivi). Del castello di Forino invece si sa che fu assalito da truppe bizantine a pochi anni dalla presa di Salerno (A. Di Meo, II, p. 105).

2. È attendibile porre in questo frangente la costruzione del castello di Serino, rilevando la necessità di difesa del sistema di comunicazione tra i due bacini. Vale la pena tenere presente il già citato toponimo campo castello, indicante un luogo sotto Castelluccia, il cui impianto può porsi solo in relazione al complesso difensivo e al periodo longobardo non essendoci altra occasione in cui si sia potuto istallare. È bene fin da ora tener presente la morfologia del complesso Pergola-San Marco. Esso è delimitato, dalla parte di S. Agata, dal vallone Cantarelle che divideva tutto l'ampio spazio, indicato in questo periodo col toponimo sancta Agathe, dal territorio che invece faceva parte del locum Solofre (i confini erano segnati in quei tempi da elementi naturali e il vallone Cantarelle è l'alveo che circonda e difende la collina del castello) e dalla parte di Serino dal "vallone scuro" in località canale (da considerare che lungo il vallone Cantarelle c'è un sito chiamato anch'esso canale il che sottolinea il collegamento su cui si vuol portare l'attenzione). Ciò contribuisce a spiegare perché questa parte alta del territorio di S. Agata col castello apparterrà a Serino mentre l'altra parte sarà di Montoro (V. infra specie il cap. III e PII) .

3. Cfr. F. Hirsh, op. cit., p. 23; M. Schipa, Storia del Principato longobardo di Salerno, ASPN, XII, 1887, pp. 81 e sgg. La presa della città avvenne pacificamente grazie all'intervento del vescovo Gaudioso. Sulla data gli studiosi non sono d'accordo comunque è certo che quando il vescovo Luminoso partecipò al Sinodo romano del 649 Salerno già era stata presa da Arechi (F. Kehr, Italia Pontificia, Berlin, 1935, VIII, p. 340).

4. È testimoniata nella zona l'attività notarile, la gestione fiscale, l'esistenza di proprietari terrieri che curano e vendono i loro possedimenti (Cfr. CDC, I).

5. Ciò non avvenne per Solofra per le caratteristiche della sua pieve. V. infra.

6. Ampiamente è testimoniato il rispetto delle consuetudini locali codificato nella formula "secundum usus loci", il non esoso rapporto con i contadini (V. infra). L'integrazione è dimostrata dal fatto che il concetto di "longobardo" perdette presto il carattere etnico per assumere un significato giuridico.

7. La Chiesa di Salerno è ricca di episodi che testimoniano l'impegno civile dei suoi vescovi. Oltre a Gaudioso c'è Giovanni sotto cui si ha l'incremento del sistema pievano. Inoltre i vescovi in varie riprese si ribellarono alle prepotenze dei Longobardi ricorrendo anche a Carlo Magno (Cfr. G. Crisci, op. cit., II, pp. 83-183).

 

 

 

 

 

6. In questo estremo ducato longobardo si crearono le condizioni per un profondo radicamento dei costumi che ebbero in Arechi II (758-787) uno strenuo difensore. Il grande duca nello scontro con Carlo Magno si pose come depositario della gens Langobardorum assumendo il titolo di princeps ed accogliendo, alla caduta di Pavia (774), numerosi profughi - una vera e propria migrazione - cui assegnò le terre del ducato1.

La forte presenza di elementi germanici unita al citato processo di integrazione con gli elementi greci e romani, il fatto che queste terre rimasero immuni dalla civilizzazione carolingia determinarono una configurazione culturale che andò sotto il nome di Longobardia minore2.

Per opera di Arechi II, che fu l'ultimo grande principe longobardo di Benevento, questa entità culturale si consolidò nell'ultimo principato longobardo, un fiorente stato dove brillava Salerno divenuta una fortezza sul mare che permetteva all'antica capitale, Benevento, di aprirsi al fiorente commercio mediterraneo e che diverrà presto sua rivale anche perché Arechi vi trasferì la corte pur lasciando alla città interna il nome del Principato3.

Durante il governo di Arechi II tutta la pianura tra Salerno e Nocera fino a Rota e Montoro fu interessata ad un consistente popolamento con la messa a coltura di nuove terre. Essa, che si giovò dell'intenso traffico con Benevento, diventò ancora più incisivamente il sostegno della città rivelandosi come sua parte integrante.

Intenso fu il movimento tra Salerno e la sua campagna dove si stavano formando grandi proprietà laiche ed ecclesiastiche ma dove c'erano anche proprietà minori autosufficienti che scoprivano le prospettive dell'inurbamento, dove dunque l'economia urbana trovava la spinta per il suo sviluppo4.

È necessario sottolineare la valenza di questa simbiosi tra la città e la campagna perchè essa favorirà e sosterrà la trasformazione dell'attività agricola in senso produttivo e perchè a questo processo parteciperà il locum Solofre il cui mondo agro-silvo-pastorale darà nuova linfa alla vitalità della pianura5.

Nel mercato di Salerno cominciavano ad affluire i prodotti della terra e dell'allevamento delle zone interne. Ed è proprio il mercato, dove si trasferiranno le attività fino ad allora chiuse nell'economia curtense, a sottolineare l'utilizzo del retroterra e ad agevolare la costituzione di quello che sarà un paradigma dell'economia di Salerno longobarda prima e normanna poi. Questo entroterra, destinato a divenire un fattore di ricchezza e di potere, vincolerà a le due classi sociali cittadine che si andavano formando, quella legata alle attività produttive e commerciali e l'aristocrazia della terra.

Furono queste due classi, desiderose l'una di partecipare alla vita politica l'altra di trarne giovamento, a sostenere il principe Siccardo contro Benevento quando tra le due città - Arechi era morto da poco - scoppiò la guerra che portò alla divisione del principato. Essa infatti non fu altro che la presa d'atto di un nuovo assetto che il territorio era venuto acquistando proprio con lo sviluppo economico di Salerno6.

Questo processo però non fu indolore perché prima e dopo la divisione la Longobardia minore fu dilaniata da lotte intestine e discordie che spinsero agguerrite bande saracene a percorrere la pianura alle spalle di Salerno e le vie di comunicazione con Benevento. I contatti tra le due città ora avvenivano sulla grande via che, partendo da Avellino longobarda attraverso il passo di Forino, raggiungeva la piana di Rota il cui potenziamento deve collocarsi durante il principato di Arechi II. Neanche il bacino del flubio rivus-siccus fu però immune da tali devastazioni.

Importante fu, anche in questa situazione, l'azione dei vescovi che ebbero - come autorità religiose di una città principesca - prestigio e potere esercitato sia nella città che nelle campagne.

 

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1. Arechi II, che era genero di Desiderio ed era stato cognato di Carlo, si oppose, come ultimo rappresentante dei Longobardi, al re franco che aveva assunto il titolo di Rex Langobardorum. Carlo, dopo vari tentativi di occupare il ducato ribelle, desistette da un'effettiva conquista. Contribuì a ciò la posizione del Principato troppo vicino alle terre occupate dai Bizantini. Il principe longobardo quindi venne a trovarsi in una posizione diversa dagli altri duchi sottomessi da Carlo Magno e suoi vassalli. Egli faceva precedere il suo nome dall'espressione "vir eccellentissimus" che presso i Longobardi apparteneva a chi era investito di dignità reale (Cfr. N. Cilento, Italia meridionale longobarda, Milano-Napoli, 1966; O. Bertolini, Studi per la cronologia dei Principi longobardi di Benevento, 787-739, Napoli, 1926).

2. L'Italia meridionale acquisterà un aspetto diverso da quello dell'Italia centro-settentrionale che aveva subito la civilizzazione carolingia e dove dalla disgregazione dell'Impero nasceranno le autonomie locali. Una delle più prestigiose espressioni di questa Longobardia, che ne sottolinea anche il localismo, fu la scrittura "beneventana" (detta longobarda) usata nei documenti ed espressione dell'unità culturale di tutta l'area.

3. Cfr. M. Schipa, Storia..., pp. 85 e sgg.

4. Cfr. G. Galasso, Le città campane..., pp. 71-72. Lo storico sottolinea che l'autonomia di Salerno è l'autonomia di tutto il territorio circostante e che l'a-scesa della città dipende proprio dal suo entroterra e dall'opera di un'aristocrazia ordinata intorno ai capi più ricchi.

5. Un fattore che sosterrà la fusione tra la città e il circondario fu la coltivazione della vite. Il vino infatti fu un elemento strutturale del mondo economico medioevale non solo per il suo alto valore commerciale ma perché era un genere che qualificava chi lo produceva, uno status simbol che differenziava chi viveva nella città dal rustico del contado (Cfr. A. I. Pini, La viticoltura italiana nel Medioevo in Studi sull'alto Medioevo, Spoleto, 1974, pp. 801-803; I. Imbarciadori, Vita e vigna nell'Alto Medioevo in Agricoltura e mondo rurale in Occidente nell'Alto Medioevo, Spoleto, 1966, pp. 307-342). I documenti del CDC pongono in evidenza sia la diffusione di questa coltura che il processo di inurbamento che si concluderà alla fine dell'XI secolo.

6. Col Galasso si sottolinea il ruolo dei centri arroccati dove la vita era rimasta autonoma quando la città perdette forza e dai quali essa prese la linfa per il suo sviluppo. Il popolarsi della pianura non potette non determinare un incremento abitativo anche nell'alto bacino del flubio-rivus siccus una traccia del quale può cogliersi in alcuni termini locali come "wafio" dato all'androne di accesso alla cortina e il fatto che le stesse in loco sono chiamate "longobarde" ponendo in questo periodo uno sviluppo della tipologia abitativa esistente.

7. Cfr. N. Cilento, Le origini della Signoria capuana nella Longobardia minore, Roma, 1966. Alla morte di Arechi II, avvenuta il 26 agosto del 787, dopo un periodo torbido scoppiò la guerra civile finita con l'intervento dell'imperatore Ludovico il Pio che divise in due il Principato: quello di Salerno e quello di Benevento.

 

 

 

 

 

7. La divisione del Principato longobardo di Benevento (849) portò ad una modificazione del gastaldato di Rota che venne a trovarsi sulla linea di confine1. Essa infatti passava sui monti di Forino-Montoro toccando la località "alle Fenestrelle"2 e il territorio di Aiello-Tavernola3 e giungeva al Sabato in località "ad Peregrinos" dove c'era l'immissione sulla via di comunicazione con la Puglia4.

Il gastaldato, per questo e perchè costituiva quell'hinterland salernitano di cui si è detto, diventò un delicato territorio di con-fine per cui furono rinforzati i castelli già esistenti che formarono un'importante linea difensiva5.

Questo territorio infatti fu interessato alle successive lotte tra i due principati e fu esposto al costante e concreto pericolo saraceno6. Emerse dunque la necessità di porre in esso una presenza forte che controllasse e nello stesso tempo proteggesse la fertile campagna alle spalle di Salerno.

Per realizzare ciò i principi si poggiarono sulla Chiesa, per la sua funzione di elemento ordinatore delle energie del mondo contadino, e collaborarono con essa alla creazione di un vasto patrimonio ecclesiastico che permettesse una penetrazione in esso ancora più capillare. Fu sostenuto insomma, da parte dell'autorità politica, quel controllo che l'episcopio già aveva in questa pianura e ciò fu fatto attraverso la presenza di una realtà economico-religiosa di tipo aristocratico7.

Fu questa la chiesa palatina di S. Massimo fondata all'indomani della costituzione del principato e dotata di terre arborate e seminative non solo nel territorio del gastaldato di Rota ma in tutto il bacino dal Sarno fino a Nocera tanto che divenne uno dei più cospicui patrimoni fondiari del tempo8. Essa fu un formidabile strumento di potere e di controllo nelle mani della famiglia regnante, centro di vita religioso, economico e politico. Intorno alla chiesa gravitarono, accanto agli interessi dell'aristocrazia fondiaria, quelli di un gran numero di rustici e di liberi che con varie forme di contratto coltivavano le terre, le dissodavano, le mettevano a coltura all'ombra della protezione della potente istituzione9. In questo modo il principe fondatore di S. Massimo, Guaiferio, legò a le genti delle campagne e i membri dell'aristocrazia fondiaria cittadina.

La collaborazione tra le due massime autorità di Salerno, quella religiosa e quella politica, si coglie nel razionale sfruttamento sia dei beni di S. Massimo sia di quelli dell'episcopio salernitano che in larga parte erano contigui nella pianura tra Salerno e il Sarno10. La stessa famiglia dei principi ebbe vasti possedimenti fin sotto il Pergola-S. Marco accanto ai beni di S. Massimo ma non confusi con essi11.

La collaborazione diventava strettissima nel locum Solofre dove la pieve di S. Maria e S. Angelo, pur facente parte dell'episcopio, era tenuta in beneficio dall'abate di S. Massimo, quindi da un'autorità religiosa dipendente dal principe. Proprio la comune gestione della chiesa e delle sue terre fa comprendere l'attenzione di entrambe le autorità al controllo di questa parte dell'entroterra di Salerno che giungeva fino ai contrafforti dell'Irpinia ed era attraversata da una via di comunicazione col Principato di Benevento ma soprattutto offriva interessanti prospettive12.

 

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1. Radelgisi et Siginulfi principum divisio ducatus Beneventani, ed. Fr. Bluhme in MGH, LL, IV, Hannoverae, 1868, pp. 221-225, c.1. I territori posti in questo gastaldato, definiti col sintagma rotense finibus, si individuano facilmente nei documenti di questo periodo. V. pure A. Di Meo, V, p. 285.

2. CDC, I, 869. Il luogo fenestrelle si trova sulle pendici del monte Faliero dal versante di Avellino.

3. CDC, I, 229. Il tenimento di Avellino si ridusse dalla parte meridionale poiché perdette i territori sulle colline di Montoro. Alcuni possessori di queste terre infatti si dicono abitanti "civitatem Abellini" (AD, 2).

4. CDC, I, 974. In tale località si pone una stazione per i pellegrini che si recavano al santuario del Gargano infatti una precisa clausola dell'atto di divisione assicurava l'incolumità dei sudditi del Principato di Salerno in pellegrinaggio verso quel luogo di fede. Accordo questo di grande valore se si considera che i pellegrinaggi erano motivo e stimolo di attività mercantili. Il principato di Salerno ebbe anche tutta l'alta valle del Calore col Terminio e Montella (Cfr. F. Scandone, L'alta valle del Calore, Avellino, 1956, I, p. 193, doc. II).

5. Cfr. B. Ruggiero, Per una storia..., pp. 77 e sgg. Anche in questo periodo si può porre la costruzione dei castelli del Pergola-S. Marco. Ciò può essere avvenuto per lo meno per uno di essi, quello del versante sud, il che entrerebbe nella logica del "rinforzo" e risponderebbe alle caratteristiche di questo fortilizio. V. infra.

6. Cfr. M. Schipa, Storia.., pp. 84-106. Di questi episodi (A. Di Meo, III, 842; IV, 44-66 e 252-353) basta citare l'attacco del duca Sergio di Napoli che con l'aiuto dei Saraceni seminò distruzioni proprio tra Rota e Montoro coinvolgendo il comes di Montoro Guaiferio. La situazione cambiò quando, donati da Carlo il Calvo al Papato i ducati in lotta, iniziò una più diretta penetrazione della Chiesa di Roma nelle lotte che travagliarono la vita del Meridione.

7. I rapporti tra potere laico e potere ecclesiastico, che si determinarono nel Principato di Salerno, furono possibili data la ristrettezza del suo territorio e l'importanza della pianura di Salerno (Cfr. G. Galasso, Le città campane..., p. 31; G. Crisci -A. Campagna, op. cit., p. 121).

8. Questa istituzione è stata studiata da B. Ruggiero in Principi, Nobiltà e Chiesa nel Mezzogiorno longobardo. L'esempio di S. Massimo di Salerno, Napoli, 1973.

9. Nel CDC si possono individuare nel bacino del flubio-rivus siccus i possedimenti di S. Massimo, che arrivavano fino ad Aiello (CDC, I, 229).

10. Questa contiguità di interessi si coglie in un documento dove viene data a coltivazione una terra definita "domini Sichenolfi et Ermenandi episcopi" (CDC, I, 86), legami che dimostrano che il ceto vescovile è espressione piena del gruppo dominante laico. L'autorità dell'episcopio di Salerno però non fu mai messa in discussione dai principi a cominciare da Guaiferio che, per non turbare la preesistente struttura plebana della pianura, definì col preposto clausole ben chiare per impedire ingerenze e conflitti di competenza fino a Gisulfo che concesse alla cattedrale di Salerno tutti i beni degli ecclesiastici che morivano senza eredi (RNAM, XLV, I, 160-165).

11. Cfr. AD, 13 e infra. All'indomani della costituzione del Principato di Salerno la famiglia del principe aveva comprato vaste terre nel gastaldato di Rota che venne controllato direttamente dal potere politico. Gisulfo lo affiderà, con le terre di Montoro usque Serrina de Ripilea, ad una persona di sua fiducia, il conte di Giffoni (A. Di Meo, V, p. 285). Vale la pena sottolineare questo legame che sarà una definizione anche economica.

12. Cfr. AD, 11. Il documento della pieve, che è l'atto conclusivo di una precedente collaborazione, è importante ai fini del discorso che si sta conducendo perché evidenzia una modalità di gestione che non si riscontra nelle altre pievi della pianura. Sono infatti presenti all'atto l'Arcivescovo Amato e l'abate Adelferio di S. Massimo il quale nel sottolineare le funzioni plebane della chiesa ne riconosce la proprietà all'episcopio salernitano.

 

  

 

 

 

8. Nel periodo più fecondo del Principato di Salerno il rapporto tra la grande città e la sua campagna - per il bacino del flubio-rivus siccus anche altri dati documentali lo confermano - è diventato così intenso tanto che i due spazi vivono "in una continuità senza soluzione di interessi e di occupazioni", si può dire col Galasso, "e in cui la città prosegue le occupazioni della campagna ne affianca ad essa di altre"1.

A Salerno ora non ci sono solo i possessores, si trovano, affluiti dalle campagne, anche quelli che esercitano le arti che le danno una spiccata impronta artigianale con la molitura del grano e la produzione del sale, con botteghe di tessitura e tintura delle stoffe, con conciatori di cuoio e con la produzione di otri da trasporto, le auricelle, e ci sono ancora fabbri, calderari, armieri.

Sono questi a determinare lo sviluppo di tipo artigianale delle attività curtensi, domestiche e servili, divenute libere e private2. Trasformazione agevolata dal fatto che essi erano alle dipendenze tanto dei principi quanto dei vescovi - è il caso della pieve - , dal fatto che a Salerno si trovavano i più intraprendenti mercanti amalfitani e una consistente colonia di Ebrei dedita alle attività artigianali e dal fatto che queste attività erano protette da particolari privilegi3. Si era creata insomma nella città una ricca ed attiva classe mercantile che insieme alla oligarchia amalfitana e a quella delle altre città mercantili della Campania aveva rapporti con l'oriente bizantino e arabo ma anche con l'economia silvo-pastorale e agraria delle zone interne del Principato4.

In questo quadro di contatti artigiano-mercantili tra la città e il suo entroterra - assicurati per il locum Solofre dagli obbligati rapporti tributari e religiosi con la chiesa di Salerno, individuabili anche in altri settori della società solofrana e messi in evidenza dal rapporto coloni-possessori gli uni a Solofra gli altri a Salerno o dal trasferimento di possessori locali nella città5- , si può coinvolgere in un'attività di scambio la produzione locale.

E poichè ogni società elementarmente organizzata risolve il fabbisogno quotidiano con l'utilizzo di ciò che offre l'ambiente, l'economia del locum Solofre deve considerarsi legata alla produzione silvo-agro-pastorale6.

È corretto dunque far iniziare in questo periodo, soprattutto sostenuto dal dimostrato legame con Salerno, lo stabilizzarsi in loco di quelle forme antiche di concia delle pelli degli animali allevati, che una volta servivano ai bisogni interni, come in ogni comunità pastorale e curtense, e che ora erano in grado di soddisfare richieste più ampie.

Questo impianto è legato sia all'abbondanza dell'acqua necessaria alla concia e alla disponibilità della materia prima sia alla presenza sul posto di un prodotto conciante e cioè la galla di cerro di cui i boschi abbondavano e che era un elemento essenziale per fermare la decomposizione della pelle animale, base del processo di concia7. si deve tralasciare la lavorazione della lana, anch'esso prodotto pastorale e anch'esso legato alla concia. Ed è possibile collegare fin da ora questa attività con quella che si andava installando con le stesse modalità sulle rive dell'Irno, cioè la lavorazione della lana, per i legami tra le comunità di Solofra e quelle dei casali di Giffoni e di Rota favoriti e mantenuti anche dal fatto che per lungo tempo questi centri furono in mano ad un unico gastaldo8.

In conclusione si può affermare che la presenza degli Ebrei a Salerno9, il fatto che alcune loro specifiche attività li legavano alla pastorizia, che intorno ad essi ruotava lo sviluppo dell'attività della concia insieme agli stretti rapporti con Amalfi indicano gli stimoli che dovettero avere le attività solofrane legate all'allevamento - salatura delle carni suine, concia delle pelli, produzione della lana - che uscite dalla economia curtense si proiettarono sul mercato di Salerno10.

 

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1. G. Galasso, Le città campane..., pp. 84 e sgg.

2. Ibidem. Gli artigiani compaiono a Salerno nel X secolo (Cfr. CDC, II, 226-228, 231, 357, 376).

3. Cfr. G. Paesano, Memoria per servire alla storia della Chiesa di Salerno, Salerno, 1846-1857, II, p. 72. Oltre ad essere i soli a cui era permessa la macellazione degli animali, gli Ebrei erano gli unici che potevano lavorare e vendere "auricellam". Essi però erano esclusi dalle attività mercantili cittadine per cui si dedicavano a quelle extraurbane.

4. Ibidem, pp. 106 e sgg.; A. Lizier, L'economia rurale dell'età prenormanna nell'Italia meridionale. Studi su documenti editi dai secoli IX-XI, Palermo,1907, pp. 149-150. Alla fine dell'XI secolo i mercanti amalfitani e salernitani, che avevano rapporti con i mercati africani, furono favoriti dalla crisi bizantina che trasformò il Mediterraneo in una grande area di smercio. Gli amalfitani stabilirono una rete di traffici in tutto il Meridione che sosteneva la produzione agricola dove investivano i proventi dei loro affari (Cfr. A. Leone-G. Del Treppo, Amalfi medievale, Napoli, 1977; G. Imperato, Amalfi e il suo commercio, Salerno, 1980).

5. Cfr. PII e AD

6. Ibidem.

7. Galla è il nome antico della ghianda del cerro, frutto molto più grosso delle normali querce ed eccellente e molto usato prodotto conciante (Cfr. A. Bravo, Storia della concia..., p. 163). Il cerro, un tipo di quercia caratteristico dei terreni sassosi e diffuso a Solofra, ha dato il toponimo all'arroccamento di Cortina del cerro ai piedi del quale, in località de li burrelli, sono documentate ai primi del XVI secolo le potechelle di pie' S. Angelo (ASA, B 6522 e 6523 infra. I protocolli documentano non meno di cinquanta apoteche de consarie non solo ai casali Fiume-Balsami ma anche nelle località Fontane sottane e Fontane soprane) che sono antiche botteghe con le sole vasche per la concia. Vale la pena ricordare che le contrarie, oggetto di un articolo degli Statuta antiqua dell'Universitas (v. cap. III), avevano questo tipo di vasche e che gli stessi articoli regolavano anche il pascolo nelle selve di cerri permettendolo solo dopo la raccolta del frutto (Cfr. C. Castellani, Statuta Universitatis terre Solofre, Galatina, 1989, pp. 44,45).

8. Cfr. A. Di Meo, V, p. 285. V. pure la n. 61. Tali legami sono ampiamente ed in modo netto documentati nei protocolli notarili dell'XVI secolo che danno anche la possibilità di individuare un antico impianto a Solofra di famiglie provenienti dall'area di Giffoni-Rota verso la quale è diretta in modo esclusivo tutta la produzione solofrana della lana. V. infra specie cap. III e PII.

9. Ai fini del discorso che qui si sta facendo vale la pena sottolineare che lo sviluppo di Salerno come centro artigianale e mercantile è legato alla colonia ebrea, che subì un incremento nel periodo bizantino e che si estendeva fino a Rota (Cfr. C. Carucci, Ebrei a Salerno nei secc. IX e XII in ASPS, 21-22, pp. 74-75; T. Tamassia, Stranieri ed Ebrei nell'Italia meridionale dall'età romana alla sveva, Venezia, 1904).

10. La vicinanza con Amalfi influenzò molto l'economia di Salerno che si uniformò alla monetazione di quel centro commerciale e dove gli Ebrei amalfitani potevano vivere liberamente secondo il diritto romano (Cfr. A. Marongiu, Gli Ebrei di Salerno nei documenti dei secc. X-XIII in ASPN, 1937, 23, pp. 240 e sgg. V. infra e cap. III).

 

 

 

 

 

9. La vivacità economica di Salerno fu la causa principale della trasformazione socio-politica che visse la città negli anni del suo maggiore splendore le cui conseguenze si avranno nell'assetto della sua immediata campagna e che si rifletteranno anche nella gestione della pieve del locum Solofre.

Il ceto aristocratico di Salerno, infatti, preso nella morsa di lotte e intrighi, alla fine del X secolo si era spaccato portando a capo del Principato il ramo dei principi Guaimarii. Questi fondarono una nuova chiesa palatina, S. Maria de Domno, in opposizione a S. Massimo. Si venne così a creare una lotta aperta tra le due istituzioni che si estese anche nelle campagne a danno di S. Massimo1. L'antica istituzione infatti vide i suoi beni accaparrati dagli stessi domini - i possessori della chiesa - , altri ceduti all'episcopio salernitano, altri all'Abbazia di Cava, fino a finire essa stessa nel patrimonio dell'emergente cenobio metelliano2.

Questa spaccatura, che metteva in evidenza la debolezza della classe politica, fece crescere di potenza la Chiesa di Salerno sostenuta dal ceto produttivo emergente che dai traffici acquistava ricchezza e potere. Essa infatti appariva l'unica autorità capace di controllare la nuova realtà che si era creata nel principato e di arginare nel contempo l'espansione greco-ortodossa delle terre bizantine meridionali3.

L'emergere dell'episcopio salernitano come punto di riferimento per la classe borghese-mercantile e la rottura dell'equilibrio tra il potere ecclesiastico e quello politico, che aveva caratterizzato la stagione di S. Massimo, si coglie nel citato documento della pieve di S. Angelo e S. Maria. In esso l'abate e il vescovo consegnano la chiesa a Truppoaldo, presbitero solofrano, atto che è la restituzione della chiesa al suo territorio e la rinunzia di S. Massimo alla sua gestione politica4. Pochi anni dopo infatti la chiesa palatina sarà assorbita da Cava.

L'episcopio di Salerno riprende dunque il controllo del territorio alla vigilia dell'occupazione di Salerno da parte dei Normanni.

Alla metà dell'XI secolo Salerno viveva gli ultimi bagliori del suo splendore sotto la guida dell'illuminato Guaimario V, l'ultimo grande rappresentante dell'aristocrazia salernitana prima del tracollo ad opera di guerrieri normanni che lo avevano aiutato a fare del Principato il più grande stato dell'Italia meridionale.

Se però tramontò la classe politica restò la realtà della città nodo di traffici, fonte di ricchezza e di centro culturale con la scuola salernitana5, soprattutto restò la Chiesa che fu al centro di un profondo processo di rigenerazione che si sviluppò lungo tutta la seconda metà del secolo.

Fu il potere religioso in questo frangente a gestire l'elemento che aveva determinato il rigoglio di Salerno e cioè il popolamento delle sue campagne che riversando sulla città i prodotti dei campi e dell'artigianato, si è visto, la rendevano ricca.

L'incremento demografico aveva reso inadeguato il distretto pievano, che esiste là dove ci sono popolazioni sparse. L'episcopio salernitano nell'assenza di una direzione politica vi sostituì, come si vedrà meglio in seguito, una divisione territoriale più piccola, la parrocchia, che pose la chiesa più vicina alle popolazioni e che restrinse ad uno specifico territorio le sue caratteristiche di chiesa che gestisce un patrimonio6.

I prodomi di questa trasformazione si colgono nel documento della pieve: l'assegnazione della chiesa al presbitero solofrano crea i presupposti per questo legame. La meticolosa precisione nel citare gli obblighi di Truppoaldo, sia nella gestione delle terre che nella cura delle anime, manifesta la volontà di preservare per il futuro la chiesa stessa e il suo patrimonio, entrambi "con-segnati" agli abitanti del locum tramite il loro presbitero.

Truppoaldo e i suoi eredi possono legare con regolari contratti agrari alla terra i coloni e i loro eredi. Questo citare gli eredi, elemento richiesto dai contratti dell'epoca che permetteva lo stabilizzarsi di un gruppo a lungo sul fondo per curarne la fruttificazione, trattandosi di una chiesa matrice di un territorio, acquista una diversa valenza. Gli edifici di pertinenza, che accolgono le attività degli uomini, i campi, che insieme alla chiesa costituiscono il beneficium di Truppoaldo, le assegnano la cifra di centro economico intorno a cui gravitano gli interessi del presbitero e dei suoi eredi insieme a quelli degli uomini che vi lavorano ma anche della intera cominutà7.

La chiesa insomma assolve, in questa realtà non ancora organizzata amministrativamente, a funzioni comuni, come si è detto e come meglio si vedrà, non solo per i bisogni religiosi. L'atto di consegna deve vedersi allora come il segno di una presa di possesso del territorio da parte della popolazione e, tramite la chiesa matrice, della organizzazione di esso.

Prima di avere autonomia amministrativa la comunità del locum Solofre è già organizzata comunitariamente. Alle origini di Solofra c'è dunque un percorso che è un archetipo della costituzione di una comunità e che contribuisce a determinare l'identità culturale di essa.

 

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1. Cfr. B. Ruggiero, Principi..., pp. 45 e sgg. I documenti del CDC mettono in evidenza questo passaggio. In CDC, I, 297-298 ad es. il principe Giovanni donò alla chiesa di S. Maria de Domno varie terre in "loco Muntorum".

2. L'Abbazia di Cava fu la punta avanzata di un grosso movimento messo in atto da Montecassino per sottrarre i territori della Chiesa alla tutela dei principi longobardi e nello stesso tempo per la rilatinizzazione del Sud. In un primo momento in aspro conflitto col vescovo di Salerno, il cenobio assurse a grande prestigio religioso e a grande potenza fino a diventare una vera e propria signoria feudale che influenzerà non poco la vita economica delle terre ad essa soggette.

3. Per la funzione che andava acquistando l'episcopio di Salerno in un periodo delicatissimo della sua storia fu incardinato direttamente alla Sede apostolica ed ebbe la giurisdizione metropolita su tutte le sedi vescovili. Anche l'imperatore le dette privilegi e donazioni.

4. Cfr. AD, 11. Da pochi anni (1019) Guaimario aveva concesso all'Arcivescovo la licenza di usare le terre "et omnes curtis" e i fiumi nel miglior modo possibile per il loro sfruttamento (Cfr. M. Schipa, Storia..., p. 259).

5. Le prime tracce dell'esistenza a Salerno di una scuola di medicina, che toccherà il culmine nei secoli XI-XIII, compaiono nel X secolo (Cfr. P. O. Kristeller, La scuola di Salerno. Il suo sviluppo e il suo contributo alla storia della scienza, Salerno, 1955, pp. 11 e sgg. ; S. De Renzi, Storia documentata della scuola medica di Salerno, Napoli, 1857).

6. Cfr. B. Ruggiero, Per una storia…, pp. 80 e sgg.

7. Cfr. PII e AD,11.

 

 

 

 

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Capitolo primo

Presenze sannitiche e romane nel bacino del flubio-rivus siccus

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Capitolo terzo

Il periodo normanno-svevo

Parte seconda

La conca del flubio-rivus siccus nelle carte di Cava e di Montevergine 

Documenti sanniti

Documenti romani

Appendice documentaria: documenti longobardi

Bibliografia

  

 

ABBREVIAZIONI

ABC

Archivio della Badia di Cava.

AD

Appendice documentaria.

ASA

Archivio di Stato di Avellino (Protocolli notarili).

ASPN

Archivio Storico delle Province Napoletane.

ASPS

Archivio Storico Province Salernitane.

CB

Catalogus Baronum, Commentario a c. di E. Cuozzo, 1984.

CDC

Codex Diplomaticus Cavensis, I-VIII, 1873-1893; IX,1984; X, 1990.

CDS

Codice Diplomatico Salernitano, Salerno, 1931

CDV

Codice Diplomatico Verginiano, 1977-1993.

HB

Huillard-Bréholles, J-L.-Alphonse, Historia diplomatica Friderici secundi, I-VI, 1852-1861.

IGM

Istituto Geografico Militare, Carta Topografica programma-tica regionale, Campania, tvv. 25 e 33 quadrante 185 I e II.

PII

Parte seconda: La conca del flubio-rivus siccus nelle carte di Cava e di Montevergine.

RNAM

Regii Neapolitani Archivii Monumenta, I-VI, 1845-1861.

 

 

 

 

 

 

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