Autori solofrani

Gabriele Fasano e Lo Tasso Napoletano

Succede che si conosca più un’opera che il suo autore, perché è questa che si consegna alla posterità. Se è vero però che l’incontro con un autore viene di riflesso rispetto all’opera, è anche vero che l’opera, senza la conoscenza di chi l’ha prodotta e dell’ambiente in cui è nata, è monca. Questo è accaduto a Lo Tasso Napoletano di Gabriele Fasano - la prima più nota del secondo - , per cui la quasi completa ignoranza di questo autore1 ha condizionato anche la possibilità di cogliere l’humus di fondo della sua opera. In questo studio si tenta pertanto di delineare la figura e l’ambiente di vita del Fasano, e di ricostruire la genesi e certe modalità di fondo della sua traduzione.

 

1. Gabriele Fasano appartiene ad un ceppo, insediatosi a Solofra alla fine del XIII secolo, che ebbe da Carlo I d’Angiò l’incartamento su un fondo in territorio solofrano con privilegi economici goduti, fin da questo periodo, anche dall’intera comunità2. Maggiore fama ebbe questa famiglia, lungo tutto il XIV secolo, da tre medici - Riccardo, suo figlio Andrea e suo nipote Niccolò - che fecero parte della corte angioina ricoprendo importanti ruoli e sostenendo quei re nello sviluppo dello Studio Napoletano, specie quando si trattò - è il caso di Riccardo - di trasferire da Salerno a Napoli gli studi di medicina3. A questo periodo risale l’impianto nella città partenopea del casato solofrano4.

Fin dall’inizio del XVI secolo questa famiglia, una tra le più rappresentative dell’economia locale e distinta da una precisa tradizione medica5, si trova introdotta, con una serie di matrimoni, nell’aristocrazia di Cava e della costiera amalfitana6; e, quando gli Orsini, signori di Solofra, le concessero il governo dell’abbazia di S. Maria di Vietri7, fu definitivo il suo impianto nella valle metelliana8, che d’altra parte aveva antichi legami con Solofra per motivi soprattutto economici9.

La famiglia Fasano, era dunque ben insediata a Napoli10, ed aveva Solofra e Cava-Vietri - centri del vivo hinterland napoletano - come punti di riferimento e fonti della propria sussistenza. A questo triangolo è legato Gabriele che nacque a Solofra il 7 luglio del 1645 da Alessandro e da Livia Murena11, ma risiedette essenzialmente a Napoli, e si definì "napolitano"12. Dopo i primi studi seguiti nella scuola locale che proprio la sua famiglia gestiva, abbracciò lo stato clericale13, condizione che gli fece avere l’incombenza della cura dell’Abbazia di S. Maria di Vietri e lo fece risiedere anche nella cittadina metelliana, continuando ad avere con la famiglia di origine normali rapporti. Di questi luoghi, si hanno chiare tracce nella sua opera, come si vedrà.

La costiera amalfitano-sorrentina fu però il luogo più importante per la formazione di questo autore, perché qui si determinò l’incontro col Tasso, un incontro nella memoria di quelli che lo avevano conosciuto, e nelle cose ancora impregnate della vicenda tassiana, come si coglie nelle pagine introduttive dell’opera fasaniana, dove emerge un sapere e una partecipazione che va oltre l’interesse dello studioso14. Gli eventi della vita del poeta - nato a Sorrento da Bernardo e da Porzia, appartenente ad una famiglia sorrentina, i de’ Rossi - , i suoi anni vissuti accanto alla madre e alla sorella, l’esilio del padre, il distacco dagli affetti familiari, il girovagare per l’Italia, i suoi ritorni a Napoli - tra cui quello avventuroso a Sorrento nel 1592 - , l’essere accolto dall’aristocrazia sorrentino-napoletana, che aveva abbracciato "nel suo seno la famiglia Tasso" e che si sentiva orgogliosa e partecipe delle vicissitudini del poeta15, e, non ultimo, il grande amore dimostrato dallo stesso per Napoli, tutti questi elementi avevano creato un’accesa atmosfera in cui la vicenda letteraria riceveva un riflesso tutto particolare con strascichi che erano senza dubbio vivi ai tempi del giovane Gabriele, cosa che bisogna tenere presente per dare la giusta pregnanza alla sua operazione, anche da questo punto di vista16.

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1. Dice Pietro Martorana nel 1874 (Notizie biografiche e bibliografiche degli scrittori del dialetto napoletano, Napoli, pp. 189-190): "Di questo poeta, di Napoli, ignoriamo completamente la vita". 

2. Cfr. O. Beltrano, Breve descrittione del Regno di Napoli, Napoli, 1640, p. 202 ; B. Candida Gonzaga, Memoria delle Famiglie nobili delle Provincie meridionali, Napoli, 1875, v. V-VI, p. 85.

3. Riccardo Fasano fu reggente dello Studio napoletano fino al 1313, poi come Protomedico del Regno completò la riforma napoletana della professione medica (Reg. ang., n. 223, 3, 10 marzo 1319 e n. 217, c 109, 8 giugno 1319), morì nel 1333, (cfr. M. Camera, Annali delle Due Sicilie, Napoli, 1841-1860, II, p. 70; R. Caggese, Roberto d’Angiò, Napoli, II, p. 414, n. 3; R. Trifone, L’Università degli studi di Napoli dalla fondazione ai giorni nostri, Napoli, 1936, p. 19).

4. A Napoli la famiglia faceva parte del Seggio di Porto (Cfr. B. Candida Gonzaga, op. cit., p. 393) e in tale sedile, al vico Severini o dei Garofali (poi vico Summonte), ci fu la casa napoletana di Gabriele Fasano (C. Celano, Notizie del Bello dell’Antico e del curioso della città di Napoli, Napoli, 1692; G. A. Galante, Guida sacra della città di Napoli, Napoli, 1873). Altra abitazione fu al vico S. Onofrio.

5. Dalla primitiva attività legata all’allevamento e al commercio della lana, in questo periodo l’impegno economico del ceppo si arricchisce col possesso di una conceria, di una "calcara" per la produzione della calce, di una macina per la mortella e per il sommacco (tutti prodotti conciari), di una "spezeria" (legata alla tradizione medica e alla concia), e con un peso commerciale che comprendeva tutta la gamma della produzione locale (A[rchivio di] S[tato di] A[vellino], N[otai], B6522 e sgg.).

6. Cfr., ASA, N, B6522 f. 164r, B6532, f. 60 e B6545 (1573).

7. Cfr. ASA, B6540, ff. 216 e 221e B7093, ff. 13, 18 e 32. I Fasano, nella seconda metà del XVI secolo ebbero dagli Orsini, esteso agli eredi, l’usufrutto e la cura dei beni della chiesa col "conto privilegi" e con l’obbligo di provvedere ai bisogni religiosi, dei quali si interessò, in quel periodo, proprio un Gabriele Fasano. V. pure L’Abbazia di S. Maria de Vetro in "Rassegna Storica Salernitana", V, 1-2, p. 88.

8. Salvatore Milano (Cavese l’autore de Lo Tasso napoletano, "Rivista storica salernitana", 1993) ha dimostrato il legame tra i Fasano cavesi e quelli napoletani senza approfondire il vincolo di entrambi col ceppo solofrano cadendo nell’errore di confondere il Gabriele Fasano solofrano con un suo omonimo cavese, nato per altro sette anni prima e forse suo parente.

9. È ampiamente dimostrato il legame economico-mercantile Solofra-Cava (ASA, B 6532 e sgg.), e quello artistico: cavesi furono i costruttori di alcune chiese locali e del Palazzo Orsini.

10. Un legame importante, creato dalla famiglia Fasano, ed utile per il discorso che qui si fa, fu intessuto con la famiglia dei Laurenzano il cui ramo di Napoli fu protettore proprio di Gabriele.

11. Archivio della Collegiata di S. Michele Arcangelo, Libro dei battezzati. Anno 1645. Dall’atto, che fu stipulato dallo zio Hortensio Fasano, canonico della Collegiata, si apprende che al piccolo furono imposti i nomi di "Gabriel Michael Angelus", e che fu "levato" da Giovanna Positale. Il primo a parlare dei natali di Gabriele Fasano fu il medico napoletano Salvatore De Renzi nel suo Elogio storico di Lionardo Santoro (Napoli, 1853, p. 5 n. 1), un eminente medico solofrano-napoletano.

12. Nella sua opera si trova la definizione di "napolitano", cosa che suscitò l’attenzione degli storici locali. Antonio Giliberti dice: "Si vuole per errore, Napolitano, e non Solofrano, secondo l’epigrafe posta a fronte dell’opera suddetta. Si: era Napoletano di domicilio, non di nascita per essersi trasferito colà a stanziare" (Pantheon Solophranum, Avellino, 1886, p. 50 n. 1), la medesima osservazione fa A. M. Jannacchini (Topografia storica dell’Irpinia, Avellino, 1891, pp. 77-78).

13. Lo stato clericale del Fasano è menzionato dal Giliberti e da Ottaviano Caputo (Sacerdoti salernitani, Edizioni della Curia Arcivescovile, Salerno, 1981).

14. Cfr. G. Fasano, Lo Tasso napoletano, Napoli, 1689. L’opera ha un’introduzione Sio lettore mio de lo core, una dissertazione sul Tasso e una dedica A tutta la nnobeltà nnapoletana

15. Porzia de’ Rossi era figlia di Giacomo, originario di Pistoia, sua madre Lucrezia apparteneva ai marchesi di Celenza e Gambacorta, la sorella Ippolita aveva sposato Onofrio Curiale dei conti di Terranova (cfr. G. B. Manso, Vita di Torquato Tasso, Venezia, 1621). Vale la pena ricordare che Bernardo Castiello, il curatore della edizione de Lo Tasso napoletano del 1720, nella dedica a Ignazio Barretta, duca di Casalicchio e marito di Ippolita D’Ammone, parla esplicitamente dell’amore di Tasso per Sorrento facendo emergere l’orgoglio della casa D’Ammone di considerarsi "familiare" di Tasso, visto che la di lui sorella aveva sposato l’aristocratico sorrentino Antonio Sersale, imparentato con la casa D’Ammone.

16. Nei citati testi introduttivi alla sua opera il Fasano mostra di essere preso dai fatti legati alla nascita del poeta, la cui madre, egli dice, si trovava a Sorrento, ospite della sorella, dove rimase col marito per "spassarese" quattro giorni, e dove fu trattenuta fino all’11 marzo 1544, quando, "a mezzogiorno", nacque Torquato; in più punti emerge, ancora, una profonda partecipazione alla vicenda umano-poetica del Tasso, cui "anco doppo morto" è doveroso dargli "ricompensa di honore e rendimento di grazie".

 

 

 

2. Gabriele Fasano, che fu un uomo colto ed erudito, attento al problema della scabrosità dell’opera del Tasso17, è tutto legato a questo rapporto speciale col poeta sorrentino, intorno al quale si cementò anche l’amicizia con Francesco D’Andrea, che era nativo della costiera. Col giureconsulto napoletano, eminente figura di uomo di cultura, amico di letterati e di filosofi, animatore e membro dell’Accademia sorrentina e di quelle partenopee, il Fasano partecipò alla vita culturale napoletana18. E proprio in seno a queste accademie nacque l’opera fasaniana, innanzitutto dettata - dice l’autore agli stessi "accademici" - dal "bisogno" di mantenere "viva e chiara la memoria" del poeta, di dare "il dovuto" "al merito", e di ricambiare le "dimostrazioni" di "apprezzamento" che il poeta dette "verso molti di voi e verso questa città, mentre in essa dimorò", un dovere che è "più commendabile" "quanto non essendo egli del numero vostro, non de la vostra patria" e "sol per legame di virtù congiunto"; e conclude: "Questa considerazione, Accademici, destò in voi desiderio, che fusse celebrato Torquato Tasso"19. E poi dice, rivolgendosi al poeta, nella stanza di chiusa dell’intera traduzione:

Tasso, lo granne e sbresciolato ammore

che te portaie da ch’era gioveniello,

ma ppegliato pe ppietto a ffa st’arrore

de t’havè fatto st’autro vestetiello.

Si lo ppanno paesano è dde valore,

lo ssaie. Ma ddove vao co lo cerviello?

Ca no mmorcato d’oro fatto a pposta,

puro è ppe tte, ssaietta de la Costa [panno della costiera amalfitana]20,

 

sottolineando significativamente il debito di riconoscenza dovutogli dai luoghi che lo videro giovane, e che lui amò.

Tramite il D’Andrea il Fasano conobbe - a Napoli o a Firenze - Lorenzo Magalotti e Francesco Redi21 e con questi amici affrontò il problema del rapporto tra la lingua fiorentina e la parlata napoletana, dibattuto negli ambienti delle accademie napoletane. Forte era la polemica condotta a Napoli contro l’Accademia della Crusca la cui operazione - il Vocabolario che aveva tolto dignità di lingua ai dialetti - era contestata perché poggiava sulla considerazione che lingua italiana era solo quella prodotta dagli autori toscani escludendo tutti gli altri autori e tutte le altre parlate. La controversia, che alimentò i rapporti letterari e culturali tra Napoli e Firenze di cui furono corifei sia il Magalotti e il Redi che il D’Andrea, contribuì ad aprire gli orizzonti di quel Vocabolario, la cui edizione del 1791 - tra i redattori vi sarà anche il D’Andrea - attinse pure ad autori di altre parti d’Italia, compreso il Tasso22.

In questa disputa trova la motivazione più definita la traduzione della Gerusalemme liberata in dialetto napoletano, fatta da Gabriele Fasano, che - lo si è visto nell’ottava citata sopra - sottolineò il "valore" del dialetto, e, nella stanza di dedica alla nobiltà napoletana (I, 4), finanziatrice della stampa23, definì il napoletano lingua "de tresoro", capace di qualità espressive che non si trovano nella lingua della Crusca, e chiamò la nobiltà, che portava avanti questa contesa, "altera" nella coscienza della propria valenza24.

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17. Nella nota al Tasso, in piena Controriforma, il Fasano dice: "I furiosi sdegni di Rinaldo e i folli amori di Tancredi e degli altri guerrieri non ci saranno esempio di errore, poiché come viziosi ci sono raccontati, né saranno incitamento al male se non a colui, che disposto per se stesso al male operare, i contraveleni in veleni rivolge"; e ancora afferma che "le frodi di Armida" sono narrate non per "imitazione", ma per "avvertimento" mentre il poema è pieno di "belle immagini di virtù".

18. Cfr. N. Cortese, I ricordi di un avvocato napoletano del Seicento. Francesco D’Andrea., Napoli, 1923

19. G. Fasano, op. cit., dissertazione sul Tasso nelle pagine introduttive. Gli accademici sono quelli di Sorrento e gli Investiganti.

20 Ibidem, p. 410. Poiché questa ottava è opera del Fasano non è numerata. Le altre indicazioni, relative alle ottave fasaniane, saranno poste accanto al testo e corredate del numero romano per il canto e di quello arabo per la strofa. Nella trascrizione dei versi fasaniani sono stati accentati i monosillabi, distribuite le maiuscole e ritoccata la punteggiatura secondo l’uso moderno, e sciolti i raddoppiamenti

21. Benedetto Croce (Noterelle ed appunti di storia civile e letteraria napoletana del Seicento, in ASPN, 1925 e Nuovi saggi sulla Letteratura italiana del Seicento, Bari, 1931, pp. 89 e sgg.) dice che il Fasano conobbe il Redi "in un viaggio che fece a Firenze", che potrebbe essere quello compiuto col D’Andrea tra il dicembre 1671 e il gennaio 1672, il Nicolini (F. Galiani, Il dialetto napoletano, Napoli, 1923) che a presentare il Fasano e il D’Andrea al Redi fu il Magalotti, il Marotta (Dizionario biografico degli italiani, Roma, 1994, s. v.) che l’incontro avvenne nella casa napoletana del fratello del Magalotti, Alessandro.

22. Cfr. M. Vitale, La III edizione delVocabolario della crusca’. Tradizione e innovazione nella cultura linguistica fiorentina secentesca, in "Acme", XIX (1966), pp. 105-153; B. Croce, Nuovi saggi..., cit.

23. Tra i nobili che sostennero l’opera fasaniana ci fu il Duca di Laurenzana (IX, 27), imparentato, come si è detto, con i Fasano di Solofra.

24. Dice l’ottava, che sostituisce quella del Tasso dedicata ad Alfonso II d’Este: "Autera Nobeltà napoletana, / a te sti vierze mieie porto mpresiento; / mente sto Ttasseiare a la paesana / t’ha gratia: perché ssaie c’ha fonnamiento. / Tenimmoce lo nuosto, e stia ’n Toscana / la Crusca, e ccà romanga pe spremiento: / Sta lengua nosta è lengua de tresoro, / e fuorze ha ccose, che nò ll’hanno lloro" (I, 4), In quei tempi il Bouchard aveva sottolineato, in un passo significativo ("Je fais ici du napolitain une seconde partie, ou pour mieux dire una seconde espèce de la langue italienne") riportato dal Croce, proprio ciò che Fasano dice (cfr. B. Croce, Nuovi saggi..., cit., pp. 241-245).

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Legata ai rapporti con i due principali intellettuali della corte medicea, sotto la regia del D’Andrea e in sintonia con la intellettualità napoletana, il Fasano fece, dunque, una vera e propria operazione linguistica dimostrativa. Naturalmente del vernacolo non ignorava le peculiarità che sono anche i suoi tratti caratteristici ma che non gli permettevano di tenere dietro a tutto il Tasso, cosa che dice ai suoi stessi committenti con argomentazioni che mostrano lo spirito con cui la traduzione veniva affrontata e condotta ("Io haggio fatto lo Tasso, comme s’haverria potuto fare a llengua nosta; e ssi quarche bota songo juto fora via, è stato pe ppeglià no poco de decrìo, ed è stato, perché cquarche cchelleta nò me la poteva votà co ggrazia a llengua mia")25.

Si individuano qui i motivi per cui il Redi e il Magalotti, che comprendevano a pieno il progetto fasaniano che condivisero, seguirono e apprezzarono, e che erano esperti e interessati a problemi linguistici, avranno intensi rapporti col Fasano. Di questi è testimonianza un importante carteggio - espressione "dei vivaci scambi culturali e letterari fra Firenze e Napoli nel secondo seicento" ricostruiti dal Dardi26 - attraverso il quale si ha la possibilità di precisare il sostegno che i letterati fiorentini, dettero al poeta solofrano-napoletano ed insieme di definire un momento ricco della sua attività culturale.

L’amicizia tra i quattro andò al di là del lavoro che il Fasano portava avanti, e si incrociò con rapporti più amicali; fu, per esempio, il Magalotti, a chiedere al Redi che il loro amico napoletano venisse incluso nel Bacco in Toscana, e il poeta aretino abbozzò dei versi, inizialmente rimasti incompleti27, limitandosi, in un primo momento, ad una breve citazione accanto a quella del D’Andrea. Infatti il Redi, là dove, biasimando il vino d’Aversa, "acido asprino / che non so s’è agresto, o vino", aveva detto che invece "Ciccio d’Andrea / con amabile fierezza / con terribile dolcezza [...] innalzare un dì volea", aggiunse che "Egli a Napoli sel bea / del superbo Fasano in compagnia"; e nelle annotazioni riferì un episodio che esprime la familiarità di questa amicizia. Racconta infatti il Redi che il Fasano, "leggendo un giorno il Ditirambo, e fingendo d’essere in collera, perché in esso non si lodavano i generosi vini di Napoli, rivoltosi con gentilezza ad un Cavaliere comune amico, ebbe a dire: Voglio fa venì Bacco a Posileco, e le voglio fa vedè, che differenza ’nc’ è tra li vini nuosti, e li Pisciazzelle de Toscana"28.

Il Redi, dunque, quando pubblicò il Ditirambo (1685), sapeva che il Fasano aveva intenzione di intessere con lui un confronto letterario scrivendo un Bacco a Posileco. In verità il Fasano, che aveva saputo della citazione rediana da Tommaso Strozzi - un gesuita napoletano e predicatore in Toscana, e molto probabilmente il "comune amico" di cui parla il Redi - , aveva detto allo stesso di essere "onorato" e di gradire "i favori d’ambedue [del Redi e del Magalotti]"; e gli aveva confidato l’intenzione di scrivere un "giusto poema in lingua napoletana, che, ad imitazione del Ditirambo", voleva intitolare "Bacco a Posileco", dove meditava di "parlar de’ vini, ed antichi, e moderni del Regno, e ficcarvi dentro quant’ha di buono la boccolica in questi paesi", di fare in esso "menzione degna del Sig. Redi", da cui dire "d’aver preso il titolo", e persino di invitarlo "a Mergoglino"29.

Qualche mese dopo, anche il D’Andrea comunicò all’amico la notizia di essere stato citato dal Redi, e forse gli diede anche una copia del Bacco, infatti gli propose di tradurlo "in lingua napoletana, trasportandolo a’ vini di Napoli, come fe’ l’Ongaro dell’Aminta". Il Fasano però non se la sentì, infatti il D’Andrea dirà al Redi, comunicandogli il diniego, che non aveva "egli [il Fasano] genio se non nelle ottave, dove riesce mirabile". In questa occasione il Fasano confidò al D’Andrea di aver cominciato "un poema in ottava rima", ma ne fu dissuaso ("non mi curai ch’il proseguisse, perché non era quello che io desiderava")30; e fu probabilmente questo il motivo per cui il progetto fasaniano del Bacco a Posileco non fu completato.

Nel gennaio del 1686 il Fasano mandò la traduzione del XVI canto della Gerusalemme al Magalotti e, suo tramite al Redi, a cui inviò anche una lettera "in lingua napoletana"31 - per la prima volta pubblicata dal Dardi - , indirizzata a "Sio carfetta felosofe e Poete mio Padrone"32. Essa contiene un divertito riferimento alla diatriba Redi-Fasano sui vini ("l’aggio ditto e lo ttorno a dicere ca ssi vine vuoste songo pesciazzelle e pesciazzelle e meze"), una "energica e scherzosa difesa dei vini meridionali", con la sottolineatura che è il sole del sud a rendere le viti "amabele co na docezza iusta" e che lo stesso terreno è inzuppato di vino, "un vivace ricordo del ‘segaligno e freddoloso Redi’", i "ringraziamenti e la preghiera di giudicare severamente il canto"33.

Alla fine di gennaio di quell’anno, in una lettera al Magalotti, il Redi dice di aver letto il canto del Fasano, sottolinea di aver compreso "tante cose del dialetto napoletano", che nell’opera vi è "vivezza, naturalezza di lingua, e proprietà"34; poi, nel rispedirlo, dopo pochi giorni, al Magalotti si propone di scrivere al Fasano una lettera35, della quale però non si sa nulla, né si sa se l’aretino gli mandò una "critica" a quel canto come l’amico napoletano gli aveva chiesto.

In questo stesso periodo il Fasano scrisse una seconda lettera al Redi dove, tra italiano e napoletano, lo ringraziò di persona di averlo menzionato nel Ditirambo, e gli mandò in omaggio un suo sonetto di argomento enologico36; poi ricambiò la cortesia citando il Redi nel canto XIV della sua opera37. Anche se nel carteggio rediano non ci sono, oltre questa data, altri accenni al Fasano, l’amicizia tra i due rimase se il Redi nella edizione definitiva della sua opera aggiunse altri versi che parlano del Fasano, presentandolo come suo sfidante "che con lingua profana osò di dire, / Che del buon Vino al par di me s’intende" e suo contendente nel lodare i vini di Posillipo e del napoletano, dove c’è il chiaro riferimento alla lettera del Fasano appena citata, al suo progetto del Bacco a Posilleco, e in genere alla diatriba sui vini che univa i due amici napoletani all’aretino38.

Anche al Magalotti il Fasano chiese consigli sulla sua traduzione quando inviò il canto XVI della Gerusalemme al Redi, infatti si ha di lui una lettera (Al Signor Gabriello Fasano sopra il canto XVI del Tasso tradotto da lui in Lingua Napoletana), pubblicata dal Dardi, che è "un vero e proprio commento" ai versi fasaniani, oltre a dare la possibilità, confrontando i versi riferiti dal Magalotti col testo fasaniano definitivamente consegnato alla stampa, di "gettare un’occhiata sul lavoro di elaborazione del Fasano e sulla cura scrupolosa con cui seguì le osservazioni del mentore toscano"39. Ci sono, nella critica magalottiana, osservazioni "puramente informative" circa il "grado di intelligibilità per uno straniero del testo dialettale", accompagnate da consigli40; un’analisi "più sottilmente interpretativa delle sfumature del testo tassesco perdute o fraintese dal traduttore"41; considerazioni circa l’"unità strutturale del testo dialettale"42. Soprattutto il Magalotti dette al Fasano la libertà dalla "traduzione servile"; egli, che era un grande ammiratore del Tasso, non ebbe alcuna "schifiltosità classicistica" verso questa traduzione, anzi c’è nella sua "critica" una "cordiale adesione alla energia e alla ‘naturalezza’ del dettato dialettale", che chiama "naturalezza da far impazzire" e che "ben s’iscrive nel suo atteggiamento di sempre vigile attenzione per tutti gli aspetti del linguaggio"43.

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25. Introduzione: "A ttutta la nobeltà nnapoletana", cit., p. 2.

26. Cfr. A. Dardi, Fra Napoli e Firenze: Magalotti e Redi consulenti di Gabriele Fasano. L’autore di questo notevole contributo usa documenti inediti conservati nelle biblioteche e negli archivi fiorentini.

27. Ibidem, p. 67-68 e n. 20. In una lettera (15 febbraio 1685) dice il Redi al Magalotti: "Non s’impegni ancora a far dire al Fasano, che io l’ho messo nel Ditirambo, perché non ne trovo la via [...]. Ma perché ella veda, che non ricuso mai d’obbedire a’ suoi comandamenti, qui sotto le scrivo alcuni versi, che ho impiastriccicati. Se li finirò, e riusciranno comportabili, gli aggiungerò al Ditirambo; se non riusciranno, bisognerà che V. S. Illustrissima, e lo Sig. Fasano abbiano una santa pacienza".

28. F. Redi, Bacco in Toscana in Opere, Napoli, 1778, III, pp. 4-5. e 45. Dice il Redi del Fasano: "Poeta celebre, ha tradotto con galanteria spiritosissima la Gerusalemme Liberata del Tasso in lingua napolitana".

29. Cfr. A. Dardi, op. cit., p. 68 e nn. 21 e 22 (corsivo aggiunto). Il virgolettato fa parte di un biglietto dello Strozzi al Magalotti che ne dette informazione al Redi (giugno 1685).

30. Cfr. G. Tellini, Tre corrispondenti di Francesco Redi. Lettere inedite di G. Montanari, F, D’Andrea, P. Boccone, in "Filologia e critica, I, 1976, p. 429. Lo studioso pubblica una lettera del D’Andrea al Redi del 17 luglio 1685 che fornisce questi preziosi particolari. V. anche A. Dardi, op. cit., p. 68 n. 22.

31. Cfr. F. Redi, Opere, cit., V, p. 143. Francesco Redi così dice al Magalotti: "Mentre sto per terminare questa, mi comparisce l’altra lettera di V. S. Illustrissima che mi porta la lettera del Signor Gabbriello Fasano da Napoli in lingua napoletana. Questo poeta mi fa troppo di onore, e gli resto obbligatissimo. Quando V. S. Illustrissima mi manderà il decimosesto canto del Tasso da esso ridotto nella materna lingua di Napoli, lo leggerò volentieri. Circa poi la critica, che esso Fasano da me desidera non saprei che mi rispondere. Videbimus et cogitabimus...".

32. "Filosofo, poeta e mio padrone" sono le attribuzioni riferite dal Fasano al Redi nella citazione che di lui fa ne Lo Tasso napoletano, e "carfetta", cioè "tormentatore", si riferisce scherzosamente alla critica che il Redi aveva fatto al Fasano circa il suo giudizio sui vini.

33. Cfr. A. Dardi, op. cit., pp. 68-69. La lettera, "non sempre di agevole lettura", si trova nel manoscritto Laurenziano Rediano (218, c 99r-v) ed è datata 1 gennaio 1686: "... Ca si li vine vuoste havessero calore no’ n sarisse lo commessario de lo friddo, lo mperatore de li cova focolare, e la mamma de le ggatte cennerentole, ca si te venisse na meza de ricco de Somma o de chello de la Pagliara de S. Francesco de Paola, aggio paura ca te piglierrisse lo ventaglio ben de pressa, e te venerria autro caudo che de sole, e ghiettarrisse e parruche e rrobbune e balantrane e sopratode e ovatte ca mme crio ca nne tenerrite sempe na iodeca ncuollo. Gnorsì gnorsì mprenateve sa ssè peniune voste ca state frische e lassate a nnuie sti vinaccie [...] Ma che serveno ste ccose, a bbasta ca tutte le bite voste songo figlie de le nnoste, ma perché beneno a paise cchiu fridde le poverelle perdeno la vertù loro, e lo stommeco defredda, oie defredda craie, quanto ca tutto chello che nne zucano da ssà terra freddegliosa le deventa, pe la crodetà acito ncuorpo, e sia beneditto lo Tasso, ‘simili a sé l’habitator produce’. Ma nuie stammo dinto lo ggrasso comm’a regnone, e le stasciune ccà sempe iocano a la setella nfra lloro, e si le bite noste venettero da la Grezia, e da Cannia ccà po’ lassaro chella fommecetate e se songo fatte amabele co na docezza iusta che le dace lo sole, e lo terreno nuosto saporito, terreno che si lo spriemme nn’esce vino perché è assaie cchiù la zoza che fface, che n’è l’acqua che menano gli sciumme [...] Orsù sio Rede mio caro, chi dengrazia esce d’obbreco e lo nore è de chi lo fa, ma io no mpozzo no dire, ‘Grazie ch’a pochi il Ciel largo destina’, voscia haverrà no servetorello aterno ma gnorante e lo decemo sesto Canto mio veditelo, e leggitelo da Cenzure, no nda ammice, e ve prego eziam che ve piacesse a no ndarene copie..." (ibidem).

34. La lettera del 25 gennaio del 1686 (datata per errore da Croce nei Nuovi saggi..., cit., p. 252 e n. 2, 1 settembre 1684), dice: "Ho letto il XVI canto del Tasso fatto Napolitano dal Sig. Fasano. Ho avuto fortuna d’intenderlo, e mi piace molto e molto. Forse, anzi senza forse, non sarò arrivato alla profonda cognizione di molte finezze, e proprietà; nulladimeno torno a dire che mi pare una bella cosa: e se dovessi accompagnarlo con qualche paragone, mi varrei dell’Eneide travestita; ma nel Tasso vi è più vivezza, naturalezza di lingua, e proprietà. Mi sa mill’anni di vederlo tutto stampato. Debbo io rimandare a V. S. Illustrissima l’Originale? Me ne dia qualche avviso" (F. Redi, Opere, cit., VII, pp. 181-182).

35. Cfr. F. Redi, Opere, cit., VII, pp. 182-183. La lettera dice: "Rimando a V. S. Illustrissima il Canto 16 del Tasso del Sig. Fasano. Io questa istessa sera scrivo ad esso Sig. Fasano...".

36. Anche di questa lettera, che si trova nel citato manoscritto Laurenziano Rediano (218, cc. 100r-101v), il Dardi (op. cit., p. 68 e n. 25) fornisce degli stralci che qui si riportano: "Non [...] poterono le mie preghiere al suddetto Padre [lo Strozzi] che in vostro nome me ne fè consapevole esser bastanti a far sì che la sua cortesia havesse desistito a non nominarci [...]. Io resto obbligatissimo alla sua gentilezza, che si è degnata valersi del mio nome oscuro nella luminosissima sua e divina composizione ditirambica [...] diaschence sto pparlà toscano mme schiatta ncuorpo [...] te manno no zonetto che m’è scito caudo caudo senza cagnare na parola...".

37. Alla strofa 31 dice "Chisto è no Rede nquanto a lo sapere / e ne parlaiemo assaie de sto viaggio / na vota nziemme" chiarendo in nota: "si allude all’eruditissimo e gran filosofo signor Francesco Redi, mio parzialissimo padrone, patrizio aretino e compatriota di Francesco Petrarca, di cui basta solamente accennare il nome già che la chiara fama da lui tutta la terra ingombra".

38. Cfr. F. Redi, Opere, cit., vv. 114-139, pp. 4-5. I versi così continuano: "Ed empio ormai bestemmiator pretende / Delle tigri Nisee sul carro aurato / gire in trionfo al bel Sebeto intorno; / Ed a quei Lauri, ond’ave il crine adorno, / Anco intralciar la pampinosa vigna, / che lieta alligna in Posillipo, e in Ischia; E più avanti s’inoltra, e in fin s’arrischia / Brandire il Tirso, e minacciarmi altero: / Ma con esso azzuffarmi ora non chero; / Perocchè lui dal mio furor preserva / Febo, e Minerva. / Forse avverrà, che sul Sebeto io voglia / Alzar un giorno di delizie un trono: / Allor vedrollo umiliato, e in dono / Offrirmi devoto / Di Pisillippo, e d’Ischia il nobil Greco; / E forse allor rappattumarmi seco / non fia ch’io sdegni, e beveremo in tresca / All’usanza Tedesca; / E tra l’anfore vaste, e l’inguistare / Sarà di nostre gare / Giudice illustre, e spettator ben lieto / Il Marchese gentil dell’Oliveto".

39. A. Dardi, op. cit., p. 70. Lo scritto magalottiano è "di poco posteriore" alla data di invio del manoscritto del Fasano.

40. Ibidem, pp. 70 e 71-76. In alcuni punti il Magalotti consiglia al Fasano di non spiegare in nota determinate parole, perché "chiaro da per sé" o viceversa di aggiungere qualche chiosa; altre volte si limita a dire: "non so che siano", oppure: "non ho potuto indovinare il senso"; ancora chiede di accentare il termine "abbia" (abbìa) "perché altrimenti ogni toscano lo piglierà dal verbo avere habeat"; o anche gli consiglia di sostituire la parola "arma", usata da lui "bizzarramente" e "con brio poetico" per "saetta", perché "in napoletano arma vuol dire anche ‘alma’". Non sempre il Fasano ascolterà tali consigli, soprattutto quando l’intervento avrebbe costituito una forzatura per il dialetto napoletano.

41. Ibidem. Questo avviene in due casi al v. 1 dell’ottava VI e al v. 7 dell’ottava IX.

42. Ibidem. È il caso in cui sottolinea un verso uguale in dialetto e in lingua, cioè "anfibio", che produce una frattura per i toscani "disgustevolissima" e che il Fasano eliminerà.

43. Ibidem. Altre espressioni di approvazione usate dal Magalotti: "tutte cose che fanno arricciare i capelli di gusto e di meraviglia", "naturalezza inarrivabile", "oh che cara e graziosa idea di naturalezza", "oh che bella cosa!", "strano, anzi divino entusiasmo di fantasia da capo a piede, e se ’l Tasso risuscitasse rifarebbe la sua su questo modello, e si terrebbe a onore", "questa è la proprietà di maggior forza che io abbia inteso in alcuna di quelle poche lingue delle quali ho cognizione e V. S. se n’è servito per divinità", "si trova a bastanza di che impazzare in legger quest’ottava dal gusto e dall’ammirazione", "tutto inarrivabile"; e poi aggiunge: "Ma se io volessi reparare tutte le cose belle bisognerebbe copiar tutto: mi protesto però che mi do per vinto, e di qui avanti osserverò solamente per dir male", ma poi: "Questa [ottava] m’obbliga a romper subito il proposito, e dire: viva il Signor Gabriello", e: "tutte cose che fanno rompere il proposito di non fermarsi a far maraviglie", infine: "mio Signor Gabriello, io vo in visibilio da servitore".

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Ci furono altre persone, che, al di là di una generale attesa, seguirono l’opera del Fasano, direttamente44, e prima della stampa, quando brani de Lo Tasso napoletano erano letti nelle case dell’aristocrazia letteraria napoletana, come avvenne - si è nel 1682, e l’opera era appena finita dopo due anni di lavoro - nella casa del principe di Ottaviano, dove ne sentirono degli "stralci" sia il Magalotti che il Valletta, che ne parlarono, entusiasticamente e separatamente, in due lettere45.

Tutti questi consulenti affrontarono col Fasano un altro problema, quello della scrittura di questa lingua. Problema spinoso e controverso che accompagnò l’intera stesura dell’opera e che fu affrontato con scrupolo puntiglioso, fu dibattuto tra gli amici, anche forestieri e fiorentini, come emerge dalla sua introduzione. Qui infatti il Fasano afferma che se la lingua napoletana è "dolce e graziosa a sentirla parlare", è "ammara e sgraziata a ssaperla scrivere e lleggere", e parla di una diatriba incorsa con chi voleva che il suo dialetto fosse scritto come "l’antico", mentre egli ha preferito scriverlo "come si parla", esclamando: "Bella cosa che io havesse da scrivere non voglio quanno dico non mmoglio". Ancora dice che "i forestieri trovano scritte le cose [napoletane] mezze toscane e restano" poi "meravigliati quando sentono parlare un napoletano" e di aver fatto la prova costatando che il forestiero legge il napoletano "come lo trova scritto"; che ha capito i problemi di scrittura di questo vernacolo sentendo leggere un "vertoluso forestiero"; che mentre traduceva ha osservato che, dopo la e verbo o congiunzione, "sempre bisogna raddoppiare", così pure per la a, per cui ha dovuto aggiustare il tiro e ha fatto dei cambi; che tutto ciò lo ha portato alla decisione di scrivere "come si parla", tanto che le note sono legate proprio a "questo problema": affinché il dialetto si legga "comme lo pparlammo". Emerge qui chiaramente un lungo lavoro di lima, di prove e di riprove, che è un vero e proprio studio della ortografia della lingua napoletana, ed appare chiaro che sono precisi problemi di pronuncia, caratteristici di questo vernacolo, a determinare l’ortografia fasaniana46

Questa lunga gestazione e soprattutto il citato carteggio con gli intellettuali fiorentini, ancora il fatto che lo stesso Fasano fu consulente di operazioni letterarie dialettali47, lo mostrano come un accademico impegnato in polemiche e problemi linguistici e letterari, in grado di disporre di molto tempo da dedicare alla sua opera, alle sue amicizie e alla vita del letterato gaudente, cosa che concorda benissimo anche col suo stato clericale48.

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44. Il Fasano dice nell’introduzione: "Vecco a lo rretro stampato lo Tasso napoletano. Vecco scomputa chella museca:e cquanno l’havimmo, a cche stammo, a cquale Canto simmo; bella fremma ched haie; e ccomme sì lluongo; tu nce vuoie fa morì co la semmenta ncuorpo, comm’a le ccocozze; co mill’autre ntrellocatorie spertecate".

45. Cfr. A. Dardi, op. cit. pp. 66-67 e n. 12. Il Magalotti così disse al Valletta, l’undici agosto dello stesso anno: "Viva V. S. Illustrissima mille anni per la buona nuova che mi porta di aver presto a godere del bellissimo poema del Tasso trasportato, del quale il mio Sig. principe d’Ottaiano, ebbe la bontà di farmi sentire alcuni squarci, la mattina, che mi favorì in sua Casa", mentre il Valletta ne aveva parlato al Magliabechi il 28 luglio: "Qui è comparso un Poema napoletano trasportando quello del Tasso, ed è mirabilmente riuscito, e fu composto dall’Autore in due anni, e già s’incomincierà la stampa fra breve e credo inviarnele più d’un esemplare".

46. Cfr. Introduzione: A ttutta la nnobeltà..., cit. Alla dizione è ancora è legato il raddoppio iniziale e la s impura (di "spertosare"), che deve essere pronunciata con un fruscio come se ci fosse dopo una c (cosa che non potendo essere indicata graficamente, viene dall’autore sottolineata nelle note introduttive. Circa le critiche che il Fasano subì per questa sua ortografia v. ultra.

47. Antonio Parrino nella prefazione della traduzione dell’Eneide in dialetto napoletano dello Stigliola dice che l’autore ne aveva fatte vedere alcune ottave a "Gabriele Fasano di eterna ed immortale memoria" (cfr. M. G. Marotta, op. cit., p. 213).

48. Meno aderente gli è la figura del mercante di seta, notizia riportata dal Marotta (op. cit.), che giustifica così i suoi viaggi, e dal Milano (op. cit.) che, come si è detto, lo confonde con un suo omonimo mercante cavese. Va detto però che, poiché il Fasano realmente stette a Vietri-Cava, potrebbe essere stato impegnato in questa attività, visto che la produzione della seta era molto diffusa in questo centro, e vista la probabile parentela col suo omonimo.

 

 

 

3. L’opera, curata dallo stesso Fasano con tre note introduttive e stampata nel 1689 per i tipi del Raillard49, si qualifica come un’edizione di lusso, illustrata da venti figure, una per ogni canto, incise in rame, che si riferiscono al tema in ciascuno trattato, più una di introduzione, l’antiporta, illustrate da Giacomo del Po50. Quest’ultima rappresenta, in primo piano e seduto su di una spiaggia, il Sebeto, con alle spalle il cavallo, emblema di Napoli, al centro, una Sirena e dei delfini emergenti dal mare con sullo sfondo un pittoresco scorcio della collina di Posillipo, in alto, la fama che suona una tromba e regge un lungo nastro dove è scritto il titolo del libro e il nome dell’autore. La prima pagina di ogni canto è ornata di ghirigori che incorniciano anche l’ottava dell’argomento del canto, pure essa traslata in napoletano. La traduzione ha il testo tassiano a fronte ed è illustrata da preziose note esplicative51.

L’opera ebbe l’imprimatur col duplice giudizio del revisore ecclesiastico, il canonico Antonio Celano, che sottolinea: "stili candorem, et vim nostrae vulgaris Neapolitanae Locutionis", e di quello regio, Giuseppe Valletta, che dice: "ne ho ammirato ancora l’ingegno; e gran lode, e obligo se li deve in haver fatto anche felicemente parlar in tal lingua il Tasso"52.

Gabriele Fasano, che fu anche autore di sonetti in napoletano come quello inviato al Redi53, forse di altre traduzioni54, e che potrebbe aver avuto anche un imitatore55, morì a Vietri nella frazion e Dragonea, a cui apparteneva la chiesa di S. Maria di Vietri, nel 1689, a pochi mesi dalla pubblicazione della sua opera56.

Nel 1706 Lo Tasso napoletano ebbe una seconda edizione, a cura di Michele Luigi Muzio, dedicata alla duchessa di Laurenzano, Aurora Sanseverino, senza il testo italiano e con semplificazione della ortografia e di due ottave e senza la spiegazione delle voci57. Nel 1720 ci fu un’altra edizione, simile alla prima, stampata da Francesco Ricciardi, di cui si è detto58. Una nuova edizione si ebbe nel 1786 ad opera del Porcelli nei volumi XIII e XIV della sua raccolta di autori napoletani59, e nel 1835 la Società Filomatica la stampò in due volumi60. L’ultima edizione è del 1983, curata da Aniello Fratta con introduzione di M. Montanelli e con versione italiana in calce61.

Queste edizioni dicono la fortuna del Fasano, che è legata in parte alla citazione del Redi, ed essenzialmente all’importante contributo linguistico. Del Fasano parlò per prima il Celano - aveva espresso il giudizio per l’imprimatur - nel 1692, quando disse: "erudito [...] delizia ed amore degli amici, che con rara giocosissima industria volse nel festevole nostro dialetto la Gerusalemme liberata"62. Nel secolo XVIII, ne parlò l’Oliva63, il Quadrio64, il Fabroni65 e Ferdinando Galiani. Quest’ultimo, che, nel fervore di rinascita della coscienza nazionale napoletana, aspirò ad un napoletano come dialetto illustre - ripulito da ogni tratto plebeo - , da poter convivere accanto ad un italiano illustre e considerò basso napoletano - da riso, da oscenità, da facchini - quello usato dai poeti napoletani del Seicento, del Fasano criticò il modo con cui aveva scritto il dialetto66. Il giudizio galianiano sui poeti dialettali del Seicento fu contrastato, in una celebre querelle, dal Serio che, considerando i ceti medi depositari di un dialetto deformato, affermò che il solo dialetto di Napoli era il sermo plebeius e difese, col Basile e con gli altri scrittori dialettali del 600, "un’epoca d’oro della letteratura dialettale"67; del Fasano sostenne le scelte ortografiche - tra cui il criticato raddoppiamento consonantico - che trovano origine e ragione nelle peculiarità di pronuncia di questo vernacolo, non compreso dal Galiani68.

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49. Il titolo completo dell’opera è Lo Tasso napoletano: zoè la Gierosalemme libberata de lo sio’ Torquato Tasso votata a llengua nosta da Gabriele Fasano de sta cetate, e dda lo stisso appresentata a la llostrissema nobeltà nnapoletana, fu stampata in folio il 15 aprile 1689 da Giacomo Raillard, un tipografo-editore-libraio francese molto attento alla decorazione e alla correzione dei libri che in quegli anni aveva pubblicato un’edizione abusiva del Bacco del Redi.

50. Di questa editio princeps dice il Galiani "fu il primo libro del nostro dialetto che comparisse non villanamente stampato" (F. Galiani, op. cit., Roma, 1970, p. 146). V. pure F. Fusco, La "legislazione" sulla stampa nella Napoli del Seicento in Civiltà del Seicento a Napoli, Napoli, 1984, pp. 472-473.

51. Le note contengono il significato e l’origine di molti termini, anche di recente coniazione, e di vocaboli spagnoli entrati nella lingua napoletana o napoletanizzati, la spiegazione dei detti e dei proverbi usati nella traduzione, l’illustrazione dei luoghi o dei personaggi napoletani citati. V. ultra.

52. Op. cit. Il Celano, che conobbe il Fasano, lo chiamò: "eruditissimo", il Valletta invece reputò il lavoro "degnissimo di esser dato alle stampe" (ivi). Dice il Celano: “Magna cum animi iucunditate, et attenzione perlegi librum, censura mihi commissum, cuius titulus Tasso Napoletano: autore eruditissimo Gabriele Fasano in hoc compositionis genere hac tempestate nemini secondo, et in eo, non solum nihil quod Fidei puritati, vel bonis moribus resistat, inveni, sed styli candorem, et vim nostrae vulgaris Neapolitanae locutionis”. Il Valletta invece dice: “Non solo non ho trovato cosa ripugnante alla Regal Giurisdizione, ma ne ho ammirato ancora l’ingegno, e gran lode ed obbligo se li deve in haver fatto anche felicemente parlar in tal lingua il Tasso in quel sublime e gran Poema tradotto in tante e diverse lingue, e però lo reputo degnissimo di essere dato alle stampe”.

53. V. supra. Il Martorana (op. cit., p. 434) ne cita uno dedicato in lode di Giovanni Battista Palo pubblicato dallo stesso nella Descrizione della terra di Palo (Napoli, 1681).

54. Antonio Giliberti, solerte ricercatore delle opere dei suoi conterranei, parla di "altre sue poetiche traduzioni" (op. cit., p. 50 n. 1). Anche Mario Sansone parla di un’altra sua traduzione, l’Aminta (Relazione fra la letteratura italiana e le letterature dialettali in Letterature comparate, Milano, 1948, p. 297, n. 40).

55. Tale può considerarsi la tragicommedia sacra (il Fasano era intenditore di teatro) in dialetto napoletano, La Gerusalemme Liberata di Pietro Pascale, che fu a Solofra governatore e giudice sostenendo la costruzione di un "teatro per uso d’Istrioni e cantanti". Anche se l’operazione solofrana del Pascale, fortemente contrastato da una fazione locale, non andò a buon fine, tanto da spingerlo a scrivere un’autodifesa (Per me medesimo nella causa del mio sindacato dato in Solofra anno 1775), la sua opera, in tre atti di 35, 37 e 30 scene, fu pubblicata a Napoli nel 1779. Del Pascale parla G. Passaro, Saggio di Biografiia montellese, Lioni, 1976, p. 3.

56. Archivio Parrocchiale di S. Pietro a Dragonea, Libro dei morti, s. a. In questo archivio ci sono due atti di morte a nome Gabriele Fasano, che corrispondono ai due Gabriele contemporanei, in uno infatti è annotato: "iste est qui composuit Tassi lingua neapolitana" (corsivo aggiunto per sottolineare come lo scrivente abbia voluto fare una distinzione). Questo atto fu sicuramente letto dal Giliberti, che per primo dette il luogo di morte del Fasano.

57. L’edizione ha incisioni in legno e sul frontespizio interno due amorini che sostengono lo stemma della famiglia Sanseverino e avanti Ercole che uccide l’Idra.

58. L’edizione ha un’aggiunta "co lle figure de lo azzellente segnò Bernardo Castiello. Corrietto e restampato pe seconnà lo gusto de lli vertoluse". Di questa edizione dice il Martorana: "non conosciuta né dal Galiani, né dall’Altobelli, né dal Porcelli" (op. cit.).

59. L’editore afferma di aver fatto "comparire alla luce" un’opera "della quale già si era perduta la memoria", non trovandone copia "della bellissima edizione", e della ortografia dice: "forse così si usava a quei tempi".

60. Cfr. P. Martorana, op. cit.

61. L’opera è stata pubblicata in due volumi a Roma nelle Edizioni di G. e M. Benincasa.

62. L’opera del Celano (cit.) ebbe una stampa nel 1859 con note del Chiarini.

63. Cfr. F. Oliva, Grammatica della lingua napoletana (manoscritto presso la Biblioteca nazionale di Napoli) che prende dal Fasano "alcuni notamenti di vocaboli" e ne sottolinea il tentativo di scrivere questo volgare con "migliore ortografia".

64. F. S. Quadrio, Della storia e della ragione d’ogni poesia, Bologna, 1739, p. 213.

65. A. Fabroni, Vitae Italorum doctrina excellentium qui saeculi XVII et XVIII floruerunt, Pisa, 1779, I, pp. 45 e 248. L’autore accenna anche al rapporto Magalotti-Fasano parlando degli interventi del fiorentino nelle poesie degli amici ("[...] quod officium praestitit, ceteros inter, Francisco Redio, Vincentio Filicajae, Laurentio Bellinio & Gabrieli Fasanio in iis rebus, quas versibus mandarunt" (p. 248).

66. Il Galiani dice del Fasano: "Nella sua magnifica edizione del Tasso entrò in un impegno strano di esprimere coll’ortografia tutte, anche le più insensibili forze date alle consonanti, tutte le elisioni delle vocali, tutti i raddolcimenti o suoni incerti di sillabe che l’uomo più grossolano del volgo nostro avrebbe fatti, se fosse stato obbligato a pronunciare quei suoi versi. Ne risultò un così spaventevole accozzamento di consonanti raddoppiate, di apostrofe, di accenti circonflessi e di lettere sovrabbondanti che quasi non restò parola che paresse italiana" (cfr. Del dialetto napoletano, a c. di E. Malato, cit., pp. 42 e sgg.; altre edizioni: Napoli, 1779, 1923 a c. di F. Nicolini). Il Nicolini parla favorevolmente del Fasano (pp. 159 e sgg. e 211 e sgg.), anche il Malato giudica positivamente la traduzione fasaniana e circa l’ortografia dice che i "rafforzamenti sono propri della pronuncia popolare" napoletana (p. 281 n. 29).

67. Cfr. D. Scafoglio, Nazione e popolo nella questione del dialetto a Napoli nel secondo settecento in L. Serio, Risposta al Dialetto Nnapoletano dell’Abate Galiani, Napoli, 1982, pp. 26-28.

68. L. Serio, op. cit., pp. 62-63.

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Nel secolo scorso Pietro Martorana fornì una prima disanima delle edizioni dell’opera fasaniana senza dare dati biografici69, che invece furono forniti per la prima volta da uno studioso solofrano, il latinista canonico Antonio Giliberti70, mentre ne parlarono il Capasso71, l’Imbert72 e il Fermi, che citò per la prima volta il giudizio del Magalotti sulla traduzione del canto XVI73 .

Nella prima metà di questo secolo Benedetto Croce, nei suoi studi sulla letteratura del Seicento, sottolineò l’operazione dialettale del Fasano e nelle note alla edizione da lui curata del Cunto de li cunti del Basile più volte citò le scelte lessicali fasaniane, e si mostrò interessato per le notizie "di persone e cose di quel tempo" di cui sono ricche le note fasaniane74. Inoltre questo autore fu introdotto in storie letterarie di questo periodo, per esempio quelle del Torraca e del Belloni, che lo menzionarono tra i traduttori75, mentre l’Enciclopedia Treccani ne parlò, ad opera del Nicolini, alla voce Napoli circa quella letteratura dialettale76.

Più recentemente il Fasano è stato incluso in vari studi sul Seicento e sulla poesia dialettale napoletana ad opera del Sansone che, ponendolo tra i traduttori - tra le "più note traduzioni" - , sottolinea il tentativo di questi autori di "trasportare i più alti fastigi della letteratura nazionale" nella lingua e nella cultura locale e lo "sforzo di innalzamento e di ripulimento linguistico"77; del Malato, che inquadra la versione del Fasano nella "migliore produzione letteraria colta", sottolineando il "tono dignitoso talvolta persino elevato"78; del Nigro che collega l’opera del Fasano a quella dello Stigliola e individua "un capovolgimento della operazione letteraria del Cortese", e cioè, non "riconquistare alla tradizione letteraria il mondo popolare", bensì "calare la tradizione letteraria in un provincialistico riadattamento dialettale a metà tra volgarizzamento e parodia"79. Inoltre il Fasano è citato negli studi sul Redi, sul D’Andrea e sul Magalotti, fino all’importante recupero del Dardi.

Tra gli studi locali, ci sono ancora quelli del solofrano Giuseppe Di Donato80, del salernitano Giovanni De Crescenzo81 e c’è la recente Storia Illustrata di Avellino e dell’Irpinia82.

Infine bisogna dire che il Fasano è menzionato in diversi dizionari napoletani - dei quali è afferente - come scrittore aulico insieme al Cortese, al Basile, al Capasso83, nella guida di Gino D’Oria84 e nel Dizionario biografico degli italiani ad opera del citato Marotta.

 

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69. V. op. cit. Si parla del Fasano alle pagine 189-191, 412 e 434.

70. Nella citata opera il Giliberti, che in versi latini con traduzione a fronte parla delle glorie locali, dice del Fasano: "Est Gabriel coram facie ridente Fasanus. / Non semel aonio deduxit carmina ritu, / Consule digna. Redus justis hunc laudibus effert / Ipse satis. Bacchi devolvens ludrica Thusci, / Invenies vatem quanti fecisset amicus. / Carmina Torquati famosa, Neapolis iste / Vertens in dialectum, exornnat sponte lepore / Cantus festivo, sic ut mirantur ubique". E poi trasporta in lingua il testo "Veggo il Fasano Gabriel di contro / In un contegno di leggiadro riso. / Carmi sovente armonizzava anch’Egli / Degni de’ fasci consolari. A cielo / Redi medesmo ben lo leva. Il ludrico / Bacco in Toscana di Costui, se leggi / Quanto apprezzasse il suo Fasan vedrai. / Ei gl’immortali di Torquato canti / In veste, che lor diè, partenopea, / Mostra conditi di lepor festivo, / Spontaneo, e franco, sì che ogni uom stupisce" (pp. 50-51).

71. Sulla poesia popolare in Napoli, in ASPN, VIII, 1883, pp. 316-331.

72. Bacco in Toscana di F. Redi e la poesia ditirambica, Città di Castello, 1890, pp. 33 sgg., 87, 113.

73. S. Fermi, Lorenzo Magalotti scienziato e letterato, Piacenza, 1903, p. 175.

74. Cfr. B. Croce, Saggi sulla letteratura italiana del Seicento, Bari, 1911, p. 89 e Nuovi saggi..., cit., pp. 251-253. Delle note del Fasano il Croce ricorda quelle che citano banditi o briganti del tempo (Santillo d’Abruzzo, Marzocca, i tre Marcanciani del Cilento), militari napoletani (Emanuele Carafa, Ottavio Caaracciolo, Geronimo della Croce), personaggi curiosi (l’abate Ascanio da Salerno, Muzio Fionda); mostra inoltre di apprezzare quelle che spiegano l’origine di alcune parole ("streverio") o espressioni ("novella di Barletta", "spara Santillo") del dialetto napoletano. Lo studioso napoletano inoltre sottolinea che J. E. Taylor nel tradurre il Pentamerone del Basile si servì delle note fasaniane (Saggi..., cit., p. 85).

75. Cfr. Torraca, Manuale della letteratura italiana, III, Firenze, 1926, p. 156; A. Belloni, Storia letteraria d’Italia. Il Seicento, Milano, 1929, p. 246.

76. Op. cit., XXIV, p. 253.

77. M. Sansone, op. cit., pp. 296-328 e n. 40.

78.E. Malato, La poesia dialettale napoletana, Napoli, 1960. “Con Gabriele Fasano la musa dialettale napoletana riesce finalmente ad esprimersi in tono dignitoso talvolta persino elevato, anche in opere non originali quali la versione in vernacolo della migliore produzione della letteratura culta”.

79. S. Nigro, Dalla lingua al dialetto. La letteratura popolaresca in, La Letteratura italiana. Storia e testi. Il seicento, V, II, Bari-Roma, 1974, p. 472.

80. Cfr. G. Didonato, Solofra nella storia, Messina, 1923, pp. 127-128.

81. G. De Crescenzo, Dizionario salernitano di storia e cultura, Salerno, 1937, p. 77.

82. M. Montanile, Le accademie e la cultura del Seicento in op. cit., Avellino, 1998, pp. 225-238.

83. Cfr. F. Cherubini, Vocabolario patronimico italiano, Milano, 1860; R. D’Ambra, Vocabolario napolitano-toscano, Napoli, 1873 e A. Altamura, Dizionario dialettale napoletano, Napoli, 1956.

84. Cfr. Le Strade di Napoli, Napoli, 1965, pp. 14, 236, 407 (è citato un verso del Fasano), 442 e 510.

 

 

 

4. Lo Tasso napoletano fa parte di quella letteratura dialettale che il Croce chiama "riflessa o d’arte", perché prodotta da eruditi e letterati85; e che ebbe particolare rilievo proprio nel Seicento, perché in questo secolo si sentì una forte "disposizione aristocratica nei confronti del dialetto", che portò ad un "crescente interesse per un’analisi delle condizioni linguistiche popolari", e che, per il napoletano, si colorò di una contrapposizione verso la lingua toscana86. Si è infatti anche visto che l’operazione fasaniana, entrando pienamente in tale clima, fu una dimostrazione delle possibilità del vernacolo napoletano proprio contro quella la lingua. In effetti si avvertiva un contrasto tra i due idiomi, determinato dalla pronuncia, dalle inflessioni, dall’ortografia, dai termini, dalla napoletanità, elementi che fecero affermare, in quel tempo al Bouchard "que le française ou l’espanol ont plus ou moins autant de conformité avec elle [il napoletano]" che la lingua toscana87.

Questa letteratura fu però caratterizzata, dice ancora Croce, dalla "lieta accoglienza" nelle altre regioni d’Italia e fu priva, contrariamente a quanto potrebbe sembrare, di qualsiasi disposizione rancorosa88. Questo fu lo spirito - aperto al mondo non napoletano e in leale competizione proprio con dei toscani - con cui il Fasano affrontò la traduzione, nella quale fu attento alla comprensibilità del suo vernacolo, per esempio quando si pose il problema delle "schiarefecaziune" [chiarificazioni], di cui arricchì l’opera, "pe cchiù ntellegenzia de li frostiere"89.

Soprattutto l’autore non ebbe alcuno spirito di opposizione verso la letteratura nazionale. Come ha ben detto il Sansone, le letterature volgari vissero in stretti rapporti con la grande letteratura nazionale, la sottintesero, nacquero da essa, furono "il frutto non dell’autonomo sviluppo di una cultura locale", bensì del "trapiantarsi di quella nella vita spirituale della regione", "ricevendo assai più che dando", arricchendosi in un competere che è senz’altro fecondo per il vernacolo il quale dalle esperienze delle traduzioni uscì rinvigorito90. E questo è avvenuto nell’opera fasaniana, dove l’atteggiamento colto dell’autore valorizza la ricchezza e l’adattabilità del vernacolo napoletano, e dove non c’è né distacco nè accademismo, ma trasporto e adesione completa al testo tassiano.

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85. B. Croce, Nuovi saggi..., cit., pp. 241-245

86. Cfr. A. Quondam, Dal manierismo al barocco in Storia di Napoli, Napoli, 1970, V, pp. 351 e sgg.. V. pure M. Sansone, op. cit., pp. 261 e sgg.

87. Cfr. B. Croce, Nuovi saggi..., cit., pp. 241-245.

88. Cfr. B. Croce, op. cit.

89. G. Fasano, Sio lettore mio de lo core, introduzione alla sua opera.

90. Cfr. M. Sansone, op. cit., pp. 279-287.

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Lo Tasso napoletano è esattamente quello che dice il titolo: un’interpretazione napoletana della Gerusalemme, un "vestire" Tasso di napoletanità ("de t’havè fatto st’autro vestetiello"), che è riscatto e rivalutazione della cultura popolare. Il risultato è tutto a favore del dialetto, perché lo scrupolo stilistico, favorito dal contendere col grande poeta, gli dona un suggello di dignità, come se il tuffo del Tasso nella popolanità napoletana divenga scoperta e rispetto del patrimonio linguistico di questa cultura. Scoperta di un vernacolo che si mostra capace di esprimere non solo la realtà quotidiana, ma, con la pregnanza delle sue forme narrative e delle sue figure retoriche, tutta l’originalità dello spirito napoletano. Inoltre la sua caratteristica fortemente sentenziosa ma di aperta aderenza alla vita, la sua genuina semplicità pur nelle espressioni profonde, la sua forza, capace di far scaturire brio e spensieratezza dalla rappresentazione della realtà, creano una schietta atmosfera partenopea che dimostra che non è avvenuto alcun appiattimento della materia popolana su quella aulica.

All’uso partecipato e ricco del dialetto - (i "toscani inchiostri" di Tasso diventano affettivamente "sti vierze mieie de carne e ffoglia" del Fasano) - si aggiunge il fatto che la vicenda è introdotta tutta nel napoletano - molti luoghi e diversi personaggi sono quelli dell’ambiente di vita dell’autore91 - che costituisce un denso habitat. E il Fasano, mettendo il testo tassiano a fronte, aiuta a seguire questa trasformazione, facendo nello stesso tempo scoprire un altro motivo che guida la traduzione, "giocosa" dice, cioè determinata da un bisogno di celia, quel "decrìo", di cui il Fasano quasi si scusa. E che invece è espansività cordiale, soleggiata e festosa, intinta spesso di maliziosa ironia, e una gara piena di gusto napoletano; è la "galanteria spiritosissima" di cui parla il Redi ed è il "lepor festivo" indicato dal Giliberti; è tutto questo insieme e dà ragione delle affermazioni di "godimento" espresse dal Magalotti.

Se si tiene presente a questo punto che il citato Bouchard, che studiò questo dialetto proprio all’epoca del Fasano, ebbe a dire che gli scrittori in questa lingua non saprebbero scrivere tre righi senza usare qualche parola da taverna e da bordello, e che essa si riduce a trattare una materia bassa e oscena92, si ha la possibilità di aggiungere un altro dato all’opera fasaniana.

Si osservi la trasposizione della prima ottava, che non si distacca dal testo, e dove l’innesto prettamente dialettale non ha alcuna volgarità:

Canto l’arme pietose e ’l capitano,

che ’l gran sepolcro liberò di Cristo:

molto egli oprò co ’l senno e con la mano,

molto soffrì nel glorioso acquisto:

e in van l’Inferno vi s’oppose,

s’armò d’Asia e di Libia il popol misto;

il Ciel gli diè favore, e sotto a i santi

segni ridusse i suoi compagni erranti.

Canto la santa mpresa, e la piatate,

c’happe chillo gran homo de valore,

che ttanto fece pe la libbertate

de lo sebburco de nosto Segnore.

e in vano Nò nce potte lo Nfierno, e tant’armate

canaglie nò le dettero terrore;

ca l’ajotaie lo Cielo e de carrera

l’ammice spierte accouze a la bannera. (I, 1).

 

In questa altra stanza il sintagma del linguaggio aulico ("spera stellata") o il riferimento letterario, reso in dialetto ("Pruto"), donano una nota di garbata simpatia al termine plebeo ("pesciazzosa"), sottolineata dall’atteggiamento di Dio, pieno di gustosa plasticità:

E ’l fine omai di quel piovoso inverno,

che fea l’armi cessar, lunge non era;

quando da l’alto soglio il Padre eterno,

ch’è nella parte più del Ciel sincera,

e quanto è da le stelle al basso inferno,

tanto è più in su de la stellata spera;

gli occhi in giù volse e in un sol punto,

vista mirò ciò ch’in sé il mondo aduna.

La pesciazzosa e pessema mmernata

scompea, che ll’armezare havea mpeduto,

quanno fece Dio Patre na mmirata

da ncoppa ncoppa addove sta seduto,

tanto cchiù ad auto a la Spera stellata,

quanto stace da chesta abbascio Pruto.

Nne nattemo vedette e nnuna vista

ogne ncosa a sto munno e bona e trista. (I, 7).

 

Si veda ancora la descrizione di Armida in compagnia di Rinaldo ("Tutta vruoccole e cciance, e la faccella / parea nfra lo sodore cchiù abbampata. / Havea no riso a ll’uocchie, la scrofella, che la lossuria nce tenea adacquata"), dove il termine "scrofella", ingentilito dal vezzeggiativo, non stona nella "sensualità elegante" dei versi tassiani93. Altrettanto avviene nel biasimo di Goffredo verso gli infedeli ("Zappature schefienze e cca bottate a cauce nculo e cco na funa ncanna") (XX, 16), dove le parole sconce acquistano nettezza nel rilievo dei rozzi contadinotti mandati alla guerra a calci e legati, quali asini, con la fune al collo.

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91. Tra i numerosissimi esempi, che si possono cogliere anche nelle pagine seguenti, qui si cita il fatto che i "latini" tassiani sono sempre detti dal Fasano "napoletani" (lo stesso Tancredi afferma io "non son di quelli, sò nnapoletano" XIII, 34), che le streghe sono quelle di Benevento (XIII, 4), che il Po diventa il Sarno (XIII, 59) e, una per tutti, al posto della tassiana "alta foresta densa di alberi" c’è la napoletana selva "de santo Martino" (XX, 29).

92. B. Croce, Nuovi saggi..., cit., pp. 241-245.

94. T. Tasso, La Gerusalemme liberata, a c. di A. Momigliano, Firenze, 1953. Da questa edizione si prendono i versi tassiani.

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Il risultato più evidente di questa nobilitazione è che persino le espressioni forti e crasse, di cui è pieno l’idioma napoletano e che il Fasano usa, non sono mai volgari, perché non è tale lo spirito. Il vernacolo fasaniano, infatti, è privo di sguaiatezza gratuita, di indugio lascivo, è invece una lingua genuina e "di valore", che si motiva anche quando usa l’allusione e la canzonatura, pure ingiuriosa.

Basti considerare le invettive, che sono una modalità ineliminabile della lingua parlata per l’immediatezza e il forte impatto espressivo, e che favoriscono una densa salacità: la parola dispregiativa fasaniana, nell’atmosfera rarefatta e leggermente canzonatoria che fa da filtro, perde qualsiasi carica negativa. Ciò avviene persino con le espressioni più basse, quelle per esempio pronunciate da Rinaldo che incita i suoi a far vendetta di Dudone ucciso da Argante ("Facimmo che nce tenga proprio nc... sso spaccone, ssa bestia mmaledetta") (III, 50), oppure quelle che, nella contesa tra onore ed amore, il primo dice ad Erminia:

Donca tu nò nce fai cchiù ddefferenzia

da na femmena bona a na pottana

e buoie de notte a cchillo ghi mpresenzia

azzò te dia battaglio a ssa campana?

E ppe cchesto te dica: ‘sciù schefienzia,

farria cchiù ppeo de te na cortesciana?’

Scria da ccà, guitta senza cellerviello,

tu nò nsi cchella cchiù, va’ a lo vordiello". (VI, 72).

 

che si pongono, le prime, nell’atmosfera di "straziante durezza" e "di ferocia", determinata dalla indifferenza guerriera di Agante e, le seconde, nello spirito di decisa sollecitazione che lo stesso Tasso crea.

Si vedano invece due invettive di Armida contro Rinaldo che sono solo una protesta, aspra

Zeffonna nfammo, e ppuozze stà contento

comme mme lasse, scria facce de mpiso

Nò nne sperà d’havere maie cchiù abbiento,

e tte nn’hai da pentì de n’havè ntiso" (XIV, 58).

 

o più gustosa

Cano partiste e ccano e mmiezo tuorne.

Ma che buoie cchiù nnegrone de negrone?

[...] nfammo forfantone?

Be ssaccio quanto pise") (XX, 131),

 

e si consideri quest’altra decisamente sarcastica

ah, zzellose mmardette,

che mmettite co no chiantillo

ll’huommene a la corda.

 

Le invettive facilmente diventano epiteti, allora il termine ricorrente è "cane" o qualche suo sinonimo come "perro", allora gli infedeli sono detti "ladri ubriaconi", "caca cauzuni", "gradassi", "cornuti", "diavoloni", "zannuottoli", e tanti altri sono chiamati "coppoloni". Se a questo punto si considera che gli appellativi "smargiasso", "guappo" e "squarcione" sono propri del gentiluomo vanitoso napoletano e in genere esprimono quella caratteristica benevolmente istrionica che usa il gesto esagerato e sussiegoso, e se si tiene presente che questi attributi vengono dati agli eroi e ai guerrieri; se ancora si confronta l’epiteto attribuito ai fiorentini, "chaha faggioli" che, insieme a quello rivolto ai napoletani, "caca foglie" o "mangiafoglie", unisce senza alcuna acredine, in una comune definizione, due popolazioni a quell’epoca fieramente nemiche; se si considera tutto ciò si coglie lo spirito con cui il Fasano fece la sua operazione, la naturalezza di cui parla il Magalotti, che è spontaneità affettiva ed è sfuriata piena di benevola simpatia.

In questa atmosfera si collocano le imprecazioni, efficacemente pungenti: "chillo canna de chiaveca d’Argante (XI, 60), "mannaggia ll’arma de li muorte tuoje" (XX, 110), "jate a la forca malantrine" (XX, 108), "chille puorce nchiuse" (VI,1), "Dio mme nne scanza da sto vetoperio" (VI, 10), e si pone l’improperio, non meno intenso, di "brutto traditore", detto a Ormundo che, travestito da cristiano, sta per uccidere Goffredo (XX, 44), o quest’altro allegramente significativo: "crepa mo si staie sotta e nò mparlare" (I, 51).

L’epiteto fasaniano è spesso canzonatorio, nella definizione di una caratteristica o nella sottolineatura di un difetto, stilema saliente della napoletanità. Così gli infedeli sono definiti "guapparia de lo Levante" (XX, 109) e i Crociati dispregiativamente "sta mmarcata" (I, 29); così "la gente rivale" è detta "arraggiosa" (XX, 62), i principi, che non s’affrettano a prendere Gerusalemme, "nzallanuti", il tiranno, che freme, "na cana fegliata" (II, 25); così ai preti burlescamente è attribuito il termine di "scolacarafelle", sottolineando, quasi come vizio, il bersi il vino che resta nelle ampollette della messa; così alla "gente candida e bionda che tra i Francesi e i Germani e il mare giace" tocca una sfilza di proverbiali improperi: "razza [...] de pescature, / cape de stoppa e facce de vammace" (I, 43). Nelle arguzie fasaniane non c’è differenza tra fedeli e infedeli, infatti se Argante è "lo guappone, lo gradasso" (III, 44), "guappone" è anche Rinaldo che, "nfra mille guittarie, ncoccagna / de la fede crestiana" (XV, 44), se ne sta prigioniero di Armida, detta graziosamente "chiappina".

Per terminare l’arco dell’apostrofazione fasaniana bisogna dire che, come membri di un’allegra brigata, i compagni di guerra sono detti "compagnoni", che seriosamente il messo divino è detto "gioia celeste", e Dio "lo gran patrone", mentre gli attributi al femminile "vaiassa" o "pottana" non si allontanano molto dal senso delle più giocose "cocozza pazza mia", "bella mariola", "smargiassa bella", o della più gentile "gioia bella".

Un’altra caratteristica del dialetto napoletano, che aiuta molto la giocosità, è la deminutio, che permette di degradare il carro di guerra a "carretta", il corno a "cornetta", di trasformare il petto trafitto in "lo pietto fellato [...] che no mosaico antico te pareva" (I, 53), la "menzogna" in una "papocchia", la "disfatta" in "sconquasso"; di mutare allegramente la guerra in un "ballo", l’arsura in una "boglia de sciosciare" (VI, 109); di ridurre uno stuolo di soldati a "na morra", persino di raffigurare realisticamente un ferito che cade, in uno che va "arretecando"; mentre il "fer circasso", che "a guisa di leon quando si posa" sta con il re dei Turchi e i cavalieri, diventa un gallo in un gallinaio ("stea de viso amaro / pocc’isso gallejava ogne ggallina / e mmo sò dduie dinto no gallenaro") (X, 56) e Clorinda, una "pollanca apparze mmiezo a mille galle" (III, 21).

In questa dimensione piena di cordiale derisione la schiera di Stefano di Amboise "fa na gran parapiglia a primma botta, / ma priesto torna co la capo rotta" (I, 62); l’immagine "bella e guerriera" di Clorinda, che Tancredi "serbò nel cor", in modo molto meno elevato ma senz’altro divertito, "pe ll’uocchie a lo core se nfeccaie" (I, 48); il "licor", che Ismeno sparge sulle ferite di Solimano, si trasforma in: "n’uoglio pe l’addolcì chillo nce mena / zoffritto a la locerna, creo, co aruta" (X, 14); e Tancredi, "magnanimo eroe" che "appresta alla fiera tenzon l’arme e l’ardire", diventa un tarantolato ("Venne a Tancrede po la tarantella / e l’arraggia da ll’ogna de li piede, / e sghizza comm’a ccecere da sella") (VII, 37).

Se i "modi dolcissimi" con cui Rinaldo risponde alle parole amare di Armida sono rese con "nzuccherate chiacchiarelle" (XX, 134), che contrasta col dramma che si vive; se "il vago desio" di amore diventa culinariamente: "mmocca pe cchella fa la spotazzella"; se Argante, desideroso di gettarsi nella mischia, "ll’ermo ncapo se schiaffa" (XX, 74); se Tancredi, che arriva al castello di Armida, si sente dire "comme te fece mammata te spoglia" (che traduce il tassiano "or l’arme spoglia") (VII, 32); se la battaglia è un "fare fracasso" (I, 70) o un "fare na sferrazata"; se al Tasso che dice: "pugnar dee col cavalier d’Egitto", Fasano risponde: "s’have Argante da levà da tuorno" (VII, 26), e al tassiano: "è questa destra a far di te vendetta", corrisponde il fasaniano: "e dda mo, fatte cunte ca sì ghiuto" (VII, 34); se si usano espressioni come: "lo pover’hommo vede la frettata" (XX,70), "a la primma nfornata", "s’addona ch’era miezojuorno" (XIV, 20), si comprende come l’operazione di traduzione in dialetto fu anche un divertimento - per l’autore e per i suoi committenti - , che dà piena valenza a quel "decrìo" di cui parla, come si è detto, lo stesso Fasano, senza nulla togliere alla serietà della operazione. Il mondo eroico è divenuto vita quotidiana, plebea, però di immediata simpatia, e di spontanea e franca giovialità.

Un benevolo scherno c’è in questi interrogativi sul cadavere di Rinaldo creduto morto sottolineato dallo scherzo ortografico che unisce "imbroglione" con "Buglione" e "babbuino" con "Baldovino":

Oh Dio, povero cavaliero,

e mmanco l’atterraieno, o canetate!

Vorrissevo saperenne lo vero

chi fu? Nò lo sapite? E addove state?

Chi nò nsa a sso Mmroglione, e Babbovino

quanto le caccia ll’uocchie no Latino?". (VIII, 67).

 

In questa stessa dimensione c’è chi arriva "a rrumpe cuollo", chi "senza scarpe e cauzette se cammina" (III, 7), chi cade "comm’a no sacco de craune" (VI, 32), chi "la capo se raspava" (VII, 14), chi "ncapo arravogliaise doie mappine" (VII, 17), chi "pe n’essere schiavo o vero mpiso / fellà se fece comm’a ssaucecciuone, chi "va cercanno arraggiato p’ogne lluoco chi lo fece ghi nterra tunno tunno (XX, 87), chi vuole "schiaffà ncanna a te ste ppaparotte (II, 29), chi comanda di "scornare ssi frabutte" (XIV, 23).

Gustoso è lo sfilare degli eroi cristiani sotto lo sguardo di Dio dove tutti, da Goffredo, che spende i suoi averi per cacciare da Gerusalemme i pagani, a Baldovino, tutto preso dal suo status, a Tancredi, occupato nelle svenevolezze amorose, a Boemondo con i suoi crucci religiosi, a Rinaldo, che sembra preso da un irrefrenabile moto convulso, tutti questi eroi hanno comportamenti e atteggiamenti molto più vicini agli uomini della quotidianità del Seicento napoletano che ai personaggi del Tasso:

Vede Goffredo, che caccià vorria

da la santa Cetà chille gran cane,

co na fede e n’affetto tanto granne,

che quant’have, pe cchesto spenne e spanne.

Ma vede a Bardovino nteressato,

che dde lo grado suio stace scontento.

Tancrede pe na Mora spantecato,

che, ccomm’a Giorgio, va malecontento.

 

E bede Boemunno affaccennato

pe Anteochia soja, e stare attiento,

che li fegliule meza la semmana

dican la Dottrina Cristiana.

E nchiochia se nne va co sto pensiero,

che dd’autro niente cchiù le puoie parlare:

Vede Rinardo, ch’è gran cavaliero,

c’ha li vierme a le mmano e nò mpò stare.

Nò mmò domminie, vo spata e brocchiero,

e a tutte quante cerca d’appassare. (I, 9-10).

 

 

Tra questi Tancredi è la figura che solletica di più l’estro del Fasano. Eccolo tra i condottieri che Goffredo passa in rassegna:

Viene Tancrede e allegrance lo core,

lo cchiù, fora Rinardo, vencelante,

bravo de mano e buono dinto e fore,

bello, aggarbato, ammoruso e galante.

Fece la mmira a ste gran chelle Ammore,

e lo vorze vassallo e fece amante.

Ceca, voccole, cano, e quanto vide !

de lagreme te campe, e ngrasse e ride. (I, 45).

 

Ed ecco il racconto del suo incontro con Clorinda:

Diceno ca fu ppropio nchillo juorno,

che la Perzia abboscaie dinto la faccia

e le fu rutto l’uno e l’altro cuorno.

Tancrede, stracquo a darele la caccia,

jea trovann’acqua pe cchillo contuorno

ca la prezzava assaie cchiù de guarnaccia.

E male p’isso asciaie n’acqua a no luoco

acqua che sempe le facette fuoco.

 

Percchè llà nc’arrevaie na giovenella

scoperta d’ermo ma de l’autro armata

ed era torca, ma parea na stella,

e se volea fa puro na sciacquata.

Quann’isso la vedette tanto bella,

se sentette a lo core na lanzata.

O grannissemo figlio de pottana,

ntanto sguiglie, e saie cardà la lana! (1, 46-47).

 

Tra i nemici c’è al sapida figura di Solimano, re sconfitto e pieno del solo sentimento della vendetta, che guida i suoi - una "arraggiata mmorra" - "comm’a ttanta caparruni", e che, nella sua ultima giornata dinanzi ai due eserciti schierati, perde l’alone di nobiltà che il Tasso gli aveva dato con una bella metafora fasaniana: "e le venne golio nchillo pejatto / mettere de lo ppepe suio no poco" (XX, 74).

Si consideri la scena grandiosa dei Crociati che all’alba si muovono verso Gerusalemme, consapevoli dell’alto dovere che stanno per compiere, e profondamente commossi in vista della città, e che invece sembrano una massa incomposta che strilla incitando a marciare, mentre alle trombette è affidato il maggior rumore:

Ma va tiene, si puoi, cchiù sti sordate.

Strillano:Su a l’allegra, a la bon’hora,

a l’allegra ammarciammo’. E le ttrommette

fecero appriesso po cose mmardette". (III, 1).

 

In questa ottica di familiarità divertita si pongono i paragoni che servono al Fasano anche per superare talune difficoltà di traduzione. Lo sdegno che cresce è "comm’a na ntorcia a biento scotolata" (V, 23); la spada di Aladino "cchiù ppeo de n’orca face, arrasso sia, / che se magna le ggente a mille a mmille" (XX, 79); Armida inquieta "comme cotta d’ardiche la vediste. / Ma che cotta? Parea la quarta Furia"; Tancredi e Clorinda si "vatteano comm’a dui matarazzare" (XII, 55); la spada di Solimano, che ha perduto l’uso suo proprio, "taglia comm’ a li diente de vavone" ( XX, 97); e gli infedeli in Gerusalemme stanno "ngaiola, dinto a ste mmura comm’a papppagalle" (VI, 3).

Ecco due esempi con l’esito risolutivo dell’uso del paragone:

Con questi detti le smarrite menti

consola, e con sereno e lieto aspetto;

ma preme mille cure egre e dolenti

altamente riposte in mezzo al petto.

 

Percosso, il cavalier non ripercote.

La facce sazia e la parlata bella

tornaie lo sciato ncuorpo a cchill’affritte;

ma la capo le va comm’argatella,

ca nò mmedea le ccose ghi deritte. (V, 92).

 

Comm’a purpo lo vatte ed isso zitto. (III, 24).

 

 

La gesticolarità, caratteristica del napoletano, dà al Fasano la possibilità di creare talune immagini, come quella del "giovinetto" il cui "cor s’appaga e gode" per la lode ricevuta, che è reso nell’atteggiamento di chi si inorgoglisce del proprio valore, rappresentato dal cappello messo di traverso ("le grelleaie lo sango e se ntosciaie, / e lo cappiello ncapo se smerzaie) (V, 13); come il girarsi indietro di Armida che abbandona la patria, che è fermato nella figurazione della donna che "ogne ntanto facea na votata. / [...]e cchiù de ciento vote ntroppecaie" (IV, 54); o come l’immagine del destriero, che nella battaglia finale "morde e pesta" chi si salva dalla spada nemica ("l’afferra / a mmuorze e ppo nne fa na pizza nterra") (XX, 38); mentre "le anime pie", che morendo si stringono tra loro, sono così descritte: "Ll’uno nziemme co ll’autro se nzeccava, / spirano nziemme e ll’arme nzecoloro / vanno abbracciate a Dio, veate lloro" (XX, 100), dove l’esclamazione del traduttore ne riduce tutta la tragicità.

Ma il napoletano è anche grazia, tutta usata nella delicata e quasi civettuola figura dell’angelo che scende a portare il volere di Dio ai cristiani:

Certe ascelle se fece janche e belle,

d’oro a le pponte, e leggie leggie, e leste;

e spacca viente e nuvole auto nchelle

pparte, e de terra e mare mo co ccheste.

Cossì galante a portà ste nnovelle

venne ccà bbascio la gioia celeste.

E a lo Libbano nnaiero se fremmaje,

e le smoppete penne s’acconciaje". (I, 14).

 

Non manca tutta la gamma del parlare diretto, che il Fasano introduce autonomamente dando la prova di una immediata partecipazione, che è anche dovuta e attenta distanza. Si va da domande come: "che malanno hai ?", dal napoletanissimo: "sient tu" di Armida a Rinaldo, o dal vivace: "E mbè che d’è, mo nò ncanusce Ogone?", alle esclamazioni: "buon tiempo, frate mio, mo ca ve tocca", alle esortazioni: "che cchiù non faccia simmele frettate", fino agli epifonemi finali, che spesso concludono le stanze, come: "Che ddeaschence cchiù nc’haggio da fare, si co le bone perdo, e cco le ttrite?".

Anche quando si trasporta il parlare diretto del Tasso gli accenti dialettali risultano intrisi di confidente affabilità, come quelli rivolti alla Musa: "Musa, nuie che ffacimmo? Na sferrata / mo serve, azzò nò sia no nzemprecone. / Orsù viene arraggiata e accomenzammo./ E si lloro frosciaieno e nuie frosciammo" (VI, 39); come le parole dell’eremita a Rinaldo: "Figlio haie sferrate uh quanta male punte. / Fa no poco co mmico mo li cunte", e poi: "Figlio, perzò confessate co mmico, / e cchiagne e pprega ch’isso sia co ttico" (XVIII, 7 e 8); o come il comando deciso di Armida a Tancredi prigioniero: "O sio chiafeo, / stà zitto lloco, si nò mmuo havè peo" (VII, 47); persino l’esortazione di Dio a Goffredo, tramite l’arcangelo Gabriele, è un benevolo ma gustoso richiamo: "ched è mo sta gran tardanza? / Fuorze lo peleare è cosa nova? / Gierosalemme ha moppeta st’addanza. / Che cchiamme tutte a fa la retro prova, / mente: stà tutta a chesta la mportanza" (I, 12) .

Qui Fasano traduce un’esortazione tassiana con un comando in cui il risultato è completamente diverso:

Qui fa prova de l’arte, e le saette

tingi nel sangue del ladron francese.

Bene mio, gioia mia, hommo valente,

Spertosame sso sgubbia de franzese. (VII, 101).

 

Anche le parole dell’Arcangelo Michele ai demoni sono un’aspra rampogna, ma molto più incisiva e gradevole del discorso lungo e pieno di amplificazioni del Tasso:

O canaglia, o mmarditte nzempeterno,

sapite Dio da llà si comme trona?

Schefenzie, che la pena v’è ccompagna,

e sempre la soperbia cchiù ve magna.

Vuie potite crepà comme volite

ca la croce ha da stare a ssa moraglia. (IX, 63-64).

Pur voi dovreste omai saper con quale

folgore orrendo il Re del mondo tuona

o, nel disprezzo e ne’ tormenti acerbi

de l’estrema miseria, anco superbi.

Fisso è nel Ciel, ch’ al venerabil segno

chini le mura, aspra Sion le porte.

 

 

Qui c’è un gustoso dialogo che trasforma in rappresentazione istrionesca il racconto tassiano con l’uso di un detto napoletano di recente conio:

Ogne llanza, ogne spata esce smargiassa:

essa co ll’arco addesa lo spertosa.

Lo sdigno le dicea "Spara Santillo".

Ammore: " Eilà, che ffaie ? Conservatillo".

.

Scette ncampagna contra sdigno ammore.

Ammore viecchio nò nse scorda maje.

Tre bote iette pe sparà e lo core

tre bote le decìe: "Che mmalan’haie?"

Ma che! Rrestaie lo sdigno vencetore,

e la frezza pe ll’aiero nne volaje.

Volaie ma nche lo vuolo fu llontano,

diss’essa: "Oh che mme cioncano ste mmano".

(XX, 62-63).

Chi il ferro stringe in lui, chi l’asta abbassa;

ella stessa in su l’arco ha già lo strale;

spingea le mani, e incrudelìa lo sdegno:

ma le placava e n’era amor ritegno.

 

Sorse amor contra l’ira, e fe’ palese

che vive il foco suo ch’ascoso tenne.

La man tre volte a saettar distese,

tre volte essa inchinolla, e si ritenne.

Pur vinse al fin lo sdegno; e l’arco tese,

e fe’ volar del suo quadrel le penne.

Lo stral volò; ma con lo strale un voto

subito uscì, che vada il colpo a voto.

 

Ecco l’invito colorito e arricchito dal detto proverbiale della Sirena ai giovani a vivere accettando ciò che viene e come viene, che è una vivace traduzione dello fatalismo partenopeo:

Giovenielle, mente tale site,

ch’ancora nò v’è sciuto mostacciello,

perché appriesso a la guerra nce perdite,

e a stodeare, e ccuorpo e ccerllevriello?

Dateve mo buon tiempo, che ppotite.

E cch’aspettate, ch’esca lo scartiello?

Schialate, e nò mpenzate a nniente maje,

ca la natura chesto ve mmezzaje.

Tornano, o pazze, ll’anne fuorze arreto

ch’accossì a lo spreposeto jettate?

Si gguappo, si ddottore, si ppoeto,

tira ca vince co ste banetate.

[…]

Coccateve co bona paglia sotta,

pegliateve lo tiempo ccomme vene:

coscia ccà e ccoscia llà, che s’enchia e abbotta

la trippa, e mmaie pe nniente haggiate pene.

Si trona, e buie dicite: ’Oh, bella botta!’

S’apre lo Cielo? Secotate:Oh, bene’.

Chisto è balore ed è ssapere amabele:

si nò ntinnite, jate a li Ncorabbele".

(XIV, 62-64).

O giovinetti, mentre aprile e maggio

v’ammantan di fiorite e verdi spoglie,

di gloria o di virtù fallace raggio

la tenerella mente ah non v’invoglie!

Solo chi segue ciò che piace è saggio,

e in sua stagion degli anni il frutto coglie.

Questo grida natura. Or dunque voi

indurarete l’alma a i detti suoi?

Folli, perché gettate il caro dono,

che breve è sì, di vostra età novella?

Nome, e senza soggetto idoli sono

ciò che pregio e valore il mondo appella.

 

Goda il corpo securo, e in lieti oggetti

l’alma tranquilla appaghi i sensi frali:

oblii le noie andate e non affretti

le sue miserie in aspettando i mali.

Nulla curi se il ciel tuoni o saetti:

minacci egli a sua voglia, e infiammi strali;

questo è saver, questa è felice vita:

l’insegna natura e sì l’addita".

 

E si osservi questa stanza, definita dal Magalotti "meravigliosa"94, dove l’interrogativo risolutivo del Fasano è un suo modo di usare il parlare diretto per risolvere le difficoltà della traduzione, oltre a mostrare l’atteggiamento dell’autore:

Vezzosi augelli infra le verdi fronde

temprano a prova lascivette note;

Mormora l’aura, e fra le foglie e l’onde

garrir, che variamente ella percote.

Quando taccion gli augelli alto risponde:

quando cantan gli augei, più lieve scote;

sia caso od arte, or accompagna, ed ora

alterna i versi lor la music’ora.

Che nzo nzo nc’è ccà dde resegnuole,

che cconzierte de lecore e cardille.

Spira Franconio e accompagnare vole,

co ffreccecà ll’acqua e le ffrunne a cchille.

Scioscia isso si nò ncantano li stuole

d’aucielle e cquanno si vascia li trille.

Nzomma che buie sapè? Porzì li viente

De la museca bella so strommiente. (XVI, 12).

 

Nel passo appena prodotto, accanto alla riuscita musicale della traduzione, si può osservare l’uso dell’onomatopea, che ci dà un’altra caratteristica della lingua popolare, ricca di un corredo sonoro essenziale accompagnato dal gesto, elemento che non manca al dialetto fasaniano. Si va da "no zu zu zu pe la Cetà se sente" (che traduce il tassiano "divulgossi il gran caso"), da "fece [...] uh uh", e da "s’addonecchiava e ffacea pisse pisse", a "quacquarea", a "ciociolearo" (che traduce "breve bisbiglio"), a "grasteano" cui il Fasano aggiunge il caratteristico "fischio" popolano, la cui esecuzione è spiegata in nota: "accostando ai denti l’unghia del dito grosso della mano" (I, 24).

 

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94. Cfr. A. Dardi, op. cit., p. 73.

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Spesso il traduttore si abbandona alla verbosità spiritosa del napoletano che rende facile la battuta gustosa, a volte pungente, e che esprime il piacere che serpeggia in tutta l’opera. Lo si coglie nelle parole dell’angelo: "Nò nte corà s’hai ditto doie scarole"; nelle espressioni rivolte ai crociati che litigano: "Vuie site state comme cane e gatte"; o in quelle riferite a Dio: "che ppe ddà a la vrachetta troppo gusto, / fuorze lo Munno le scappaie da mano" (XX,118). Divertimento che diventa malinconica osservazione ("e si de botta ncielo t’ha pportato / chi sa che pprecepizio t’ha stipato") (II, 70), arguta deduzione ("si vonno ca nce pigliano a pretate"); che trasforma la fama, apportatrice "dei veraci rumori e dei bugiardi", in "mamma de pallumi / e de la verità tant’autro ammica" che "te mpapocchia chille coppolune" (I, 81); che infine può portare a questa conclusione: "Nzomma ghìe pe ncappare e fu ncappato e ssenza ncante nnce restaie incantata" (XIV, 66).

L’ironia fasaniana entra nella operazione di riduzione, di cui si è detto, come nel caso di Tancredi e di Argante, che, dopo il duello:

nullo cchiù de sti due valea trecalle

e ffuorze ca la morte era la fine

ma la morte spartette sti duie galle

che ppizzeche se dero nzina fina" (VI, 50).

 

mancano descrizioni divertite, come quella del campo cristiano:

Vecco lo campo lesto oh che bellezza

mmedè tanta bannere ghi e benire

a lo viento che scioscia e a la cchiù granne

nc’è no crocione luongo quatto canne".

 

Molto spesso il Fasano ricorre al proverbio, che non è solo una modalità del parlare popolare ma una fonte della significazione, espressione della ricchezza sapienzale plebea. I proverbi e i detti sono così tanti che la traduzione fasaniana può senz’altro qualificarsi anche come una raccolta di proverbi, di modi di dire e di fare, di situazioni, di locuzioni napoletane, di antico pensare, che il Fasano in nota non solo indica ma spesso spiega, dando un contributo non indifferente alla conoscenza di modalità comportamentali e di pensiero dell’epoca.

Si consideri questa nota sentenziale tassiana, resa con un detto che si richiama ad un uso quotidiano:

Ben gioco è di fortuna audace e stolto,

por contra il poco e incerto il certo e ’l molto

chillo votaie la lampa, saie lo mbruoglio,

e pe no poco perze tutto ll’uoglio.

(II, 67).

 

Ed ancora si notino queste soluzioni:

Così varian le cose in un momento.

ogne ncosa ccà abbascio poco dura. (XX, 88).

 

Che spesso avvien che ne’ maggior perigli

sono i più audaci gli ottimi consigli

Ca la Fortuna ajuta chi ha sbraura

e ppiglia a ccauce nculo chi ha paura. (VI,6).

 

[...] e non istava in tanto a bada

e nnò nse steva co le brache mmano. (IX, 41)

 

Né v’è chi cerchi in sì gran rischio onore

che vinta la vergogna è dal timore.

E ognuno cerca havè sana la pelle

Ca lo campare è na gran cosa bella. (VII,59)

 

Altre fiamme, altri nodi Amor promise

Havea fatto lo cunto senza l’oste. (II, 34).

 

Si è avuto fin qui modo di avere vari saggi di come il Fasano risolve le difficoltà di traduzione, spesso dando libero sfogo al diletto, al gioco dialettale, per ritornare subito al modello, tanto che il testo a fronte sembra quasi che gli serva da binario. Senz’altro la struttura della stanza tassiana lo aiuta, perché se la sua chiusa gli permette di spaziare nella napoletanità, la stessa realtà conclusa dell’ottava gli rende facile, in quella successiva, il ritorno al modello. Per entrare nella operazione della traduzione fasaniana si confrontino queste ottave che descrivono il campo dopo lo scontro finale tra l’esercito pagano e quello cristiano:

Così si combatteva; e ’n dubbia lance

col timor le speranze eran sospese.

Pien tutto il campo è di spezzate lance,

di rotti scudi, e di troncato arnese:

di spade a i petti, a le squarciate pance

altre confitte, altre per terra stese;

di corpi, altri supini, altri co’ volti,

quasi mordendo il suolo, al suol rivolti.

 

Giace il cavallo al suo signore appresso;

giace il compagno appo il compagno estinto;

giace il nemico appo il nemico;

su ’l morto il vivo, il vincitor su ’l vinto.

Non v’è silenzio, e non v’è grido espresso;

ma odi un non so che roco, e indistinto;

fremiti di furor, mormori d’ira,

gemiti di chi langue, e di chi spira.

 

L’arme, che già sì liete in vista foro,

Faceano or mostra spaventosa, e mesta;

perduti ha i lampi il ferro, i raggi l’oro;

nulla vaghezza a i bei color più resta.

Quanto apparia d’adorno, e di decoro

nei cimieri, e ne’ fregi, or si calpesta;

la polve ingombra ciò ch’al sangue avanza:

tanto i campi mutata havean sembianza.

Cossì se commatteva, e sse campava

nfra la speranza nziemme, e lo spaviento.

Ne autro bene llà cchiu sse trovava,

che dd’arme rotte lo sfracassamento:

chi co na spata mpietto spasemava,

n’autro ll’ha pe li scianche, e n’have abbiento;

chi a la sopina, e cchi de facce nterra,

sparpetajeva, e ll’arma po le sferra.

 

Stiso stà lo cavallo, e lo patrone,

e ccammarate rente a ccammarate;

e spesso li nnemice a nnemmice, e ncrosione

e binte, e benceture ammontonate.

Li strille fanno na confoseone,

comme quanno so rrotte mareggiate.

Ne nfra tanto delluvio puoie sapere,

s’uno jastemma, o dica miserere.

 

Ll’arme, che accosì belle a bedè foro,

darriano mo malinconie, e ppaure.

Poco luce lo ffierro, e mmanco ll’oro:

va te le rova cchiù tanta colure.

Li ricche sfuorgie, e arrobbe de tresoro

so ffango, e scarpesate a le cchianure.

E la porva è ppe ghionta a lo zeffunno.

Comme le scene soie vota lo Munno!

 (XX, 50-52).

 

Nella prima stanza la tendenza ad unificare (il termine "arme" e l’aggettivo "rotte"), le sottolineature uditiva e motoria insieme ("sfracassamento", "spasimava", "n’have abbiento" e "sparpetajeva"), l’intervento finale hanno un forte sapore napoletanesco. Nella stanza seguente il ricorso al termine più generico ("ammontonate") ma di forte efficacia e la scelta sintagmatica ("li strilli"), più forte di quella tassiana ("non so che di rauco"), preparano la trasformazione dei "mormorii d’ira", dei "fremiti di furore" e dei "gemiti" in "bestemmie" e "miserere", che sono un vero parlare popolare. Nell’ultima strofa, accanto ad un dialetto ingentilito, ci sono espressioni propriamente napoletane, che non si possono rendere in italiano se non perdendo la loro vivacità ("va te le trova cchiù tanta colori"), ci sono i napoletanissimi "scarpesate" e "a lo zeffunno", e infine la sapienza popolare finale che sentenzia malinconicamente.

E ancora:

Tal rabbellisce le smarrite foglie

a i mattutini geli arido fiore;

e tal di vaga gioventù ritorna

lieto il serpente e di nov’or s’adorna.

Accossì ssciore muscio va peglianno

bellezza la matina a la rosata;

e accossì llustra e rriccia la chiommera

sponta ad uno quann’esce de galera.

(XVIII, 16).

 

Qui, alla costruzione diretta dei primi due versi, succede un’immagine completamente diversa dal serpente tassiano: colui che esce di galera cui spunta una capigliatura copiosa. Se il primo paragone del fiore, che alla rugiada del mattino si rinnova, è aderente alla situazione di Rinaldo, il secondo, come dice il Momigliano "stride", per cui il Fasano si sente libero di spaziare con una sua immagine, che pure attiene alla situazione dell’eroe appena uscito dalla prigionia di Armida.

A volte sembra che il Fasano gareggi col suo modello con versi non men vivi di quelli tassiani:

.

Ogni cavallo in guerra anco s’appresta;

gli odi e ’l furor del suo signor seconda

raspa, batte, nitrisce e si raggira,

gonfia le nari e fumo e foco spira.

 

Lor s’offrì di lontano oscuro un monte

che tra le nubi nascondea la fronte

 

Ma s’a l’honor mi chiami e che lo stimi

debito a me non ci verrò restio.

 

Già fera zuffa è ne le corna e innanti

spingonsi già con lor battaglia i fanti

Ogne ncavallo nculo have chiappino

e cchiù dde li patrune so arraggiate

uno sbruffa, uno gira, uno ciampeja,

N’autro se mpenna e n’autro scaucereia. (XX, 28).

 

Scoprettero nna grossa montagnnaccia,

che dde nuvole havea na cappa nfaccia. (XV, 33)

 

Ma si a sto nore mm’apre la portella

che mme toccasse, traso volentiero. (V, 12)

 

e inanti Già s’è azzoffata la cavallaria

e sse fa nnante mo la nfantaria. (XX, 31).

 

 

Si esamini la diversa soluzione finale fasaniana di questi prelievi:

Replica il re: "Se ben l’ire e la spada

dovresti riserbare a miglior uso

che tu sfidi però se ciò t’aggrada,

alcun guerrier nemico io lo ricuso".

 

Al fin colà fermossi ove le prime

e più nobili squadre erano accolte

e cominciò da loco assai sublime

parlare ond’è rapito ogn’uom ch’ascolte.

Come in torrenti da l’alpestre cime

soglion giù derivar le nevi sciolte

così correan volubili e veloci

da la sua bocca le canore voci.

Lebbrecaile lo rre: buono farrisse

pe n’autro ppoco de te stare a spasso

ma si te dico nò tu te darrisse

nnanema e ncuorpo mmano a Ssautanasso (VI, 14).

 

Nfina llà sse fremmaie ddove mettette

li cchiù mmasaute e nnobbele sordate

e ppo ncoppa no prievolo sagliette

e pparlaie co pparole nzoccarate.

Ognuno lo sermone ne scennette

cchiù ca lo sciorentino le ffrettate

cchiù cca no turzo nuie napolitane

o maccarune li palermitane. (XX, 13).

 

Si consideri l’atteggiamento di partecipazione amichevole in questa stanza:

Mente, de gli anni e de l’oblio nemica,

de le cose custode e dispensiera,

vagliami tua ragion sì ch’io ridica

di quel Campo ogni duce e ogni schiera.

Suoni e risplenda la lor fama antica

fatta dagli anni omai tacita e nera.

Tolto dai tuoi tesori orni mia lingua

ciò ch’ascolti ogni età, nulla l’estingua.

Mammoria, de lo tiempo lo trommiento,

despenza de le ccose care e ammate,

mme parerria de fa no trademiento

si mme nne scordasse uno de st’armate.

Saie ca sso Viecchio nò nn’ha ssentemiento

de nne fa troppo azziune norate.

Fata mia bella, miettetelle a mente

e facimmole bive aternamente. (I, 36).

 

Ecco una stanza della quale dice il Magalotti: "Strano anzi divino entusiasmo di fantasia da capo a piedi, e se ’l Tasso risuscitasse rifarebbe la sua su questo modello, e si terrebbe a onore ‘gire esso appriesso a la coglionatura’" 95:

Tacque; e concorde de gli augelli il coro,

quasi approvando, il canto indi ripiglia.

Raddoppian le colombe i baci loro;

ogni animal d’amare si riconsiglia:

par che la dura quercia, e ’l casto alloro,

e tutta la frondosa ampia famiglia,

par che la terra e l’acqua e formi e spiri

dolcissimi d’amor sensi e sospiri.

Nche scompie, secotaie lo concestorio

D’aucielle e pparze dire: "Ll’haie nzerrata".

E accommenzaieno no gra mmasatorio,

pocca ognuno nc’havea la nnammarata.

Ll’arvore po no frasconeatorio

fecero nziemme, comme pe basata,

e la terra e ll’acqua tutta grellejaje,

E no sciore co ll’autro se scergaje. (XVI, 16)

__________

95. Cfr. A. Dardi, op. cit., p. 73. Il verso napoletano citato dal Magalotti è del Fasano.

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Ecco infine la traduzione di uno dei più bei notturni del poema dove la riuscita fasaniana non è felice:

Era la notte, e ’l suo stellato velo

chiaro spiegava e senza nube alcuna;

E già spargea rai luminosi e gelo

di vive perle la sorgente luna.

L’innamorata donna iva co ’l cielo.

le sue fiamme sfogando ad una ad una;

e secretarii del suo amore antico

fea i muti campi e quel silenzio amico.

La notte nchella notte happe golio

vedè le ffiglie soie belle e llociente.

E la luna le disse: "Nce voglio io

spenzà sorbetta d’ambra a ssi contiente.

Co lo cielo facea lo percopio

Arminia e ghiea sfocanno li trommiente;

e dde li gran sospire segretarie

Nn’erano chille luoche soletarie. (VI, 103).

Qui lo spettacolo del cielo stellato si riduce nelle due personificazioni quasi capricciose, comunque affatto capaci di riprodurre la tassiana atmosfera di pace che calma il cuore di Erminia, la quale sembra molto artificiosa, in una cattiva resa che si evidenzia nella brutta riuscita dei versi finali.

Nonostante i limiti oggettivi di una operazione del genere, bisogna dire che, sia nei punti in cui il napoletano segue il testo tassiano, sia nei punti in cui il Fasano si allontana dal modello, la traduzione mette in evidenza l’originalità e la peculiarità della lingua napoletana, la sua forza, il suo potere rappresentativo, vivo e immediato, anche la sua lascivia, che è il potere del pensare e del parlare popolare e si trovano le ragioni della naturalezza e della genuinità di cui parla il Redi.

Si deve a questo punto aggiungere che questo esito potette realizzarsi, in modo così vivo e schietto, per l’origine paesana del Fasano. In tutta l’opera si coglie infatti la civiltà contadina e artigianale del suo paese di origine, quella popolanità napoletana che è prettamente paesana e non certamente cittadina, anche se mediata dalla cultura, e che emerge qua e là, forse al di là della stessa intenzione dell’autore.

Che Napoli e il suo ambiente sia presente nell’opera fasaniana è già stato detto, anzi nella citazione dei luoghi napoletani il Fasano puntigliosamente dà indicazioni e precisazioni; parimenti si coglie la realtà metelliana e di tutta la costiera amalfitano-sorrentina96 negli elementi attinenti al mare, alla pesca, alle attività marinaresche, che sono citati con la perizia e la competenza di chi le vive come attività giornaliere e che sottintendono conoscenze particolari e vissute. Ci sono inoltre precisi riferimenti cavesi - al "monte Pertuso de la Cava" (IV, 6), alla chiesa della Trinità di Cava (XVI, 34), alla proverbiale litigiosità che oppone i salernitani ai cavesi - mentre della costiera il Fasano cita, oltre ad diversi luoghi, un proverbio ("io scialo e ddormo a Bico"), dando in nota partecipate spiegazioni (XX, 86).

Molto più precisi e circostanziati sono i richiami alla realtà solofrana, della quale sono riscontrabili, al di là di qualche elemento del paesaggio97, precisi riferimenti, il primo dei quali e il più caratterizzante è quello che riguarda l’attività artigianale principale locale: la concia delle pelli, della quale sono usati termini tecnici, che solo chi ne ha diretta dimestichezza può conoscere.

Si considerino i versi: "E cco lo scuto suio c’havea fi a sette / sole una ncoppa ll’autra de mezina", dove il termine "mezina" traduce l’espressione tassiana: "dure cuoia di tauro", con in nota la spiegazione che le "mezine" sono i "cuoi da solar scarpe", e con l’aggiunta che "suolo di mezina" è "la parte più doppia del cuoio"98. Ancora il verso, in cui Armida, visto che il suo strale non ha colpito Rinaldo, pensa che le sue membra siano coperte di diaspro ("Vestirebbe mai forse i membri suoi di quel diaspro ondei l’alma ha si dura"), è tradotto: "Besogna che lo cuorio ll’haggia muollo", attingendo alle conoscenze sul comportamento del cuoio, che, solo "molle", cioè bagnato, può essere trapassato più facilmente. Altro riferimento molto preciso si trova nell’invettiva di Argante che si prepara al duello contro i cristiani:

Po dice: "Hann’a bedè sti pisciavine

mo mmo che dde Tancrede nne fa Argante.

E boglio spestellà ss’autre assassine,

justo comme se fanno fave frante,

voglio fa de le ccoiera marrocchine

e cordovane, e dde le ddoppie addante:

la carne a ccane e l’ossamma ch’avanza

nfarinole la voglio mannà nFranza99. (VII, 54).

 

Qui il Fasano, allontanandosi completamente dal testo, dice tra l’altro che vuole fare dei cristiani "ccoiera marrocchine e ccordovane" e "ddoppie addante", dove, ai termini, che indicano tecniche precise di concia, si aggiunge l’uso che ne fa l’autore, e che corrisponde esattamente ad un’invettiva solofrana: "fare la pelle" (nel senso di "conciare la pelle"), riferita in modo minaccioso a quella di persone nemiche. In altro luogo lo stesso traduce il tassiano "barbaro è di costume" così: "de le ccoire farria sole de scarpe" (XV, 28), dove c’è un chiaro riferimento non solo alla concia e alla confezione delle scarpe - altra attività solofrana100 - ma alla rozzezza del conciapelle, che solo uno del posto poteva usare spontaneamente ed per celia101. Ci sono ancora altri precisi riferimenti a questa attività e ai suoi prodotti, per esempio tutte le volte che il Fasano usa il vocabolo "cuoiere", che è un preciso termine locale102, o "correa" (VII, 107), con cui si indica una cinta di cuoio, o "scardosa" (XV, 48), che non è aggettivo di scarda ma un sostantivo indicante un preciso tipo di pelle ruvida, come lo stesso spiega in nota; quando cita la mortella (VI, 51), l’erba conciante venduta dalle spezerie solofrane103; quando parla della lana - prodotto principe dell’allevamento e della concia - nelle espressioni: "de lana no ballone" o "a la balla ch’ammassa lana" (XI, 40), e poi: "si nne cardaste lana" (XII, 38), "e saie cardà la lana" (I, 47); riguardanti, le prime due, una modalità di conservare e vendere la lana, le altre, una delle operazioni elementari su questo prodotto, la cardatura; quando menziona le "carcare" ("ma fa la notte peo de sei carcare", "so ddoie carcare ll’uocchie"), cioè le fornaci per la calce - addirittura sei -, il che dimostra che l’autore conosceva quest’attività e questo prodotto essenziale in conceria104; e infine quando nomina il "cantaro", una tinozza per la concia (X, 56).

Altra attività solofrana presente nei versi del Lo Tasso napoletano è la salatura delle carni, specie quelle di maiale, produzione molto diffusa a Solofra e che richiede la presenza di diverse botteghe per la macellazione delle carni. La espressione: "e dde nnemmice fecemo salate" [dei nemici facemmo una strage] (VIII, 13), ed altre simili richiamano, nella loro significazione, proprio la grande quantità di animali uccisi per questa attività; mentre la frase: "nè a lo mercato fanno strille tale / ciento mmorre de puorce a ccarnevale" (XV, 51), si riferisce al fatto che per Carnevale, essendo il maiale pronto per la macellazione, ne cominciava la vendita, tanto che questo era anche un tempo di scadenza dei contratti di compravendita; né mancano riferimenti al lardo, un prodotto usato essenzialmente nella concia105.

Si trova l’ambiente solofrano nei richiami alle attività pastorali e alla lavorazione del latte106; quando si parla del visco, prodotto usato nell’uccellagione e nella concia; quando ci si riferisce al rapporto dell’artigiano col garzone ("fare lo masto"), e persino all’emancipazione, quell’atto legale col quale il padre liberava dalla patria potestas il figlio per renderlo autonomo nella contrattazione mercantile (XV, 8). Infine come non vedere il mulino, che i Fasano avevano nelle loro terre, nella citazione di un particolare, cioè del "taccariello", un legno che sta sulla ruota e che, girando, fa un rumore stridulo (V, 25)? E si trova Solofra in tutta una serie di citazioni, di proverbi, di paragoni che costituiscono un habitat dominante, e che, se possono benissimo essere anche napoletani, sono sicuramente presenti anche a Solofra107.

In conclusione si deve dire che la presenza del paese natale nella traduzione fasaniana più che altro rappresenta un diffuso e denso sottofondo che va molto al di là dei riscontri che si sono fatti, e che permettono di gustare più a fondo la napoletanità, che è pure quella della provincia, di una provincia molto napoletanizzata, proprio come quella solofrana, perché facente parte dell’ampio hinterland partenopeo.

 

 _____________

96. Cfr. A. Dardi, op. cit., p. 73. Il verso napoletano citato dal Magalotti è del Fasano.

97. Un esempio è dato dalla descrizione dell’approdo della nave dei guerrieri cristiani nell’isola dove Armida tiene prigioniero Rinaldo che avviene in un paesaggio tutto napoletano ("Lo mare è n’autra Vaia abbonacciata / ncoppa ha na serva justo la Pelosa / nfra li duie munte comm’a Mmarmorata, / ne scola n’acqua fresca comme rosa") (XV, 43) con i richiami al mare di Baia, alla selva della Pelosa e alle acque della Marmorata, un amenissimo luogo della costa di Amalfi.

98. Nella espressione: "nce puoi vedè cose galante de pagliara e cciardine ch’è no spasso" (XVI, 41) c’è un caratteristico paesaggio solofrano, dove i giardini, anche quelli detti "di delizie", si alternavano ai pascoli in cui il pagliaio era un elemento dominante.

99. Con questo vocabolo si indicava a Solofra esattamente questo tipo di cuoio (ASA, B6533 e sgg).

100. Il corsivo evidenzia i termini che interessano. Anche in altro luogo è citato il cordovano (VI, 52).

101. La confezione delle scarpe era un’attività strettamente legata a quella del conciapelle, infatti le concerie non di rado avevano locali adibiti a questa attività artigianale, la quale nell’opera ha un altro richiamo nel termine "chiantaruole" (I, 60), che sono i chiodi con la testa piatta usati per le scarpe, dette "chiantarelle".

102. Tra i detti proverbiali solofrani ce ne sono alcuni che sentenziano questa caratteristica. Cfr. S. Giliberti, Proverbi e detti dell’Irpinia: Solofra, Atripalda, 1988.

103. "Cuoiere" è il referente solofrano di pelle conciata dura (I, 22) ed è usato dal Fasano non solo con questa accezione ma anche per tradurre il generico termine "pelle". In altro luogo dice "ncoppa ssi cuoiere vuoste" (X, 68) che traduce il tassiano "sopra voi l’Imperio ho pieno".

104 La spezeria, che a Solofra vendeva anche prodotti per la concia, e l’arte dello speziale sono ricorrenti nella traduzione fasaniana in cui si nota una chiara conoscenza dell’arte medica e si citano diversi medici, che il Fasano doveva conoscere bene, data la tradizione di famiglia. Lo stesso Redi era esperto e studioso di medicina. Si è già detto che i Fasano a Solofra possedevano una spezeria ed una macina per preparare questa erba alla concia.

105 Rispettivamente per i versi citati: XV, 28; IV, 7. La famiglia Fasano a Solofra possedeva una "carcara". Più avanti il Fasano parla anche di "cauce forte" (IV, 31), caratteristica espressione locale che significa "calce viva" non ancora idratata che a contatto dell’acqua sviluppa calore e "bolle", infatti il sintagma fasaniano è riferito all’amante che brucia di amore (IV, 31).

106. Di questa attività, documentata fin dall’XI secolo, negli Statuti solofrani, del XVI secolo, ne è regolata l’igiene proprio per il gran numero di tali botteghe. Tra gli altri riferimenti si citano quelli relativi all’attività delle "chianche" che preparavano e salavano la carne e che erano luoghi sporchi di sangue: "cchiù se chiancheava", "ch’è na sanguenacciaria" (XX, 92), "guerra n’è cchesta è cchianca sì, è scafaccio / ca llà è la carne e ccà lo coltellaccio" (XX, 56), "facea macello" (XX, 95); alla salatura delle carni: "a ccomprì la salata" [a terminare la salata, cioè la strage] (X, 59), "Via su corrimmo mo a Gierosalemme / a fare na salata de Salemme") (I, 27); all’uso del lardo: "scotenata" (con questo termine si indicava il togliere la cotenna dalla pancia del maiale con cui si ungeva la pelle) (I, 68), "comme lardo a ssole" (XIII, 61), "e fa tanto de lardo" (I, 86).

107 Si citano il dispregiativo: "guarda vuoje" ("guarda buoi", così erano indicati gli armentieri) (V,19), il proverbio: "ca la vacca è la nosta" (III,70) e le espressioni: "janca cchiù de joncata" (il Fasano spiega che "joncata" è "latte rappreso senza salare" e aggiunge che è detta così perché si pone tra i giunchi mentre se è posta tra le felci è detta "felciata") (IV, 24), "po comm’a ccrapie dero duie sbalanze / quanno vanno nnammore a pprimmavera" (VI, 40).

108 Vale citarne alcune espressioni: "llà nterra", "Michelasso" (XV, 63), "lassa fa a Cola" (II,46), "vale na rapesta" (II, 74), "chisto a cchiù dd’uno romparrà li cuorne" (III, 60) "a ffa li marcanciuni" (II, 79); e i proverbi: "o maccherone mio saltami in ganna", "ncagno de fico, haverraie molegnane" (II,69) "De casa e ppoteca se nce mette (VI, 27), "Vanno a la spaccatrammola le ccose" (I, 31).

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