Francesco Guarini

 

visto da

 

Michele Grieco

 

Fu uno dei primi studiosi del pittore solofrano con la sua opera Francesco Guarini da Solofra nella pittura napoletana del600, Avellino, 1963 (da cui sono tratte queste osservazioni).

 

 

 

La pittura napoletana nel Seicento

 

Il Seicento napoletano nella pittura fu una delle migliori stagioni dell’arte meridionale, un vitale momento in cui per la prima volta Napoli fu in primo piano in Italia e in Europa.

Gli artisti che dominarono nella pittura napoletana del secolo, subirono l’influsso del Caravaggio durante i suoi due soggiorni a Napoli (1606-1607 e 1609), che fu una lezione attenta al mondo reale (“realismo caravaggesco”) e con un modo tutto nuovo di usare la luce e il colore. Furono abbandonati allora i temi, i moduli e gli stili della scuola manieristica, artefatta e soprattutto non vera, caratteristica della pittura napoletana.

Il nuovo modo di rappresentazione pittorica ebbe due filoni: uno seguito da Giuseppe Ribera che dette più forza alla drammaticità del Caravaggio mettendo insieme il “buono” e il “perverso”, il “lieto” e il “macrabo”,  il “sacro” e il “profano”, oppure alternò ora l’uno ora l’altro di questi elementi contrastanti; e l’altro seguito da Massimo Stanzione, che invece attenuò le violenze e le asprezze del Caravaggio.

Queste due diverse poetiche artistiche, di comune origine caravaggesca, si andarono differenziandosi e non ebbero punti d’incontro tranne che in Francesco Guarini, rude e potente, che svolse un ruolo di primo piano in questo periodo rivoluzionario della civiltà pittorica napoletana.

Napoli, a causa della esperienza del Caravaggio diventò, insieme a Bologna e a Roma, il centro più importante della penisola, in cui gli artisti riuscirono a tradurre in opere nuove la iconografia, i valori e le conquiste del grande Maestro, soprattutto nel grande ruolo dato alla luce unita al colore nella costruzione delle figure e degli ambienti.

Il primo ad apprendere la lezione caravaggesca fu il Battistiello poi seguirono il Ribera, lo Stanzione, il Guarini, il Fracanzano ed altri.

Il Ribera improntò le sue opere ad un “naturalismo plebeo”, i suoi personaggi diventarono “tormentati” attraverso l’uso audace della luce ed ebbe una cerchia di allievi che sentirono l’influsso della sua potente personalità.  Anche l’altro maestro, lo Stanzione, usò la luce nel modo caravaggesco dandole la funzione di modellare le cose rappresentate, ma fu meno crudo.

Attorno a questi due seguaci della lezione del Caravaggio si collocarono tutti i discepoli che impararono questa nuova modalità per esprimere l’esperienza della vita quotidiana, del vero e della natura. Soprattutto l’uomo fu protagonista delle opere di questi artisti, rappresentato come un pastore, un viandante, un provinciale angariato dalla prepotenza del baroni, oppure fu una madre in ansia per l’avvenire dei figli, insomma fu il mondo degli umili e degli oppressi ad essere rappresentato.

La lezione del Ribera o dello Stanzione per i seguaci delle due scuole non fu un’adesione astratta, ma una cosciente adesione vissuta e fatta propria. Lo si vede nelle loro pennellate forti e spesse, nei loro giochi di luce, nei volti piegati ed estenuati dalla fatica quotidiana o erosi dagli anni.

I vecchi pezzenti ricoperti di lane pesanti o di pelli pecorine, i pastori assonnati e seminudi, i patriarchi, le madonne, i santi ritratti nell’esperienza quotidiana, le figure tolte dalla bottega artigiana e dalla strada e messi in risalto dalla luce e dal colore nelle opere di questi artisti hanno un grande significato. Tutti questi soggetti fecero sì che questa arte divenisse documento di una condizione sociale in fallimento, la denunzia di un’ingiustizia disumana, l’interpretazione di un mondo che s’avviava al tramonto. Così nelle chiese del meridione si diffuse la lezione del Caravaggio con tele violente e forti, popolate di autentici esseri umani, fratelli nella lotta per l’esistenza , molto più vicini e confidenziali.

La stagione di questi artisti però fu breve infatti si concluse tragicamente, sopraffatta dalla terribile pestilenza. Essa ebbe come ultimo rappresentante il Cavallino che riassunse tutto il travaglio degli artisti che lo avevano preceduto anticipando le conclusioni a cui perverranno gli artisti del Settecento.

 

 

Francesco Guarini

 

Il primo Guarini.

 

Nel quadro e nei fermenti della pittura dell’epoca va collocata l’opera di Francesco Guarini, nato a Solofra (1611) e venuto giovanissimo a Napoli seguendo il padre Giovan Tommaso, che con i suoi concittadini si recava nella città per difendere i privilegi solofrani contro le pretese del feudatario Pietro Orsini.

Il giovane Francesco apparteneva ad una famiglia di artisti. Pittore era stato il nonno Felice (dipinse un «San Giuliano» nella omonima chiesa di Solofra), pittore e scultore era il padre (autore di una «Pietà» nel refettorio di S. Maria delle selve, dei 21 quadri del soffitto della navata centrale della Collegiata e delle 25 tele del soffitto della chiesa dello Spirito Santo.), un pittore manierista, arido, ma con una vena inventiva soprattutto nei temi paesaggistici. Pittori erano anche i fratelli: Antonio, delle cui opere non si sa nulla e Giuseppe (una tela nella chiesa del Soccorso ed una in quella del Popolo).

Era chiamato il Guariniello per distinguerlo dal padre e con questo nome si unì alla schiera dei giovani che frequentavano la bottega del Ribera e dello Stanzione.

Nella pittura del Guarini ci fu un periodo in cui l’artista seguì l’influsso dello Stanzione ed un periodo in cui, per dare maggiore rilievo al suo realismo, seguì la scuola del Ribera, quando si ebbe la sua migliore produzione. Poi nell’ultimo periodo riprese la maniera stanzionesca ma vi aggiunse una visione più naturalistica.

La prima formazione del Guarini avvenne sulle opere maggiori dello Stanzione dove il maestro mostrava di seguire più chiaramente la lezione rivoluzionaria del Caravaggio, sono opere di grande potenza che avviarono l’arte del Guarini. Non ci furono opere notevoli, esse comunque seguirono il maestro nella tematica, nell’architettura dei quadri, nel colore.

Non ancora l’artista era riuscito a liberarsi dall’atmosfera che regnava nella bottega paterna dove si preparavano le sculture di legno che dovevano arricchire la Collegiata. Di questo periodo ci sono in S. Andrea e in S. Agata ed anche in San Michele quadri che rappresentano madonne, anime purganti, aride, non vive, dove è chiaro l’influsso paterno e dove solo qua e là si nota la lezione dello Stanzione.

Il Guarini non tardò però ad acquisire un linguaggio pittorico nuovo, disadorno, rude e semplice che gli ha fatto acquistare un posto di primo piano nella pittura di derivazione caravaggesca napoletana.

Era il 1623 quando aveva cominciato a frequentare la scuola napoletana e già nel 1630 iniziò ad inviare al suo paese natale i primi violenti teloni per il soffitto di San Michele. In questa prima pittura c’erano influssi scolastici che stavano per tramontare e c’era il crudo caravaggismo che urgeva.

Espressione di questo tipo di pittura sono due pale intitolate “Madonna del Rosario”, una in S. Agata e l’altra in S. Michele. Nella “Madonna tra gli angeli” e nel “Cristo confortato nel deserto dagli angeli” si individua qualche segno di un superamento di questo primo periodo mentre nel “Battesimo di Cristo” del soffitto di San Michele è chiara una svolta nell’arte del Guarini che mostra di aver bene assimilato la lezione dello Stanzione. Ed ancora di questo periodo sono le quindici formelle che circondano la pala di S. Agata e che narrano i quindici misteri del Rosario e una serie di piccoli quadri ora al Museo Nazionale di Capodimonte.

In queste opere l’autore, allontanandosi dall’antico modo di rappresentare, esprime un gusto paesano e pastorale, polemico, quasi un bisogno di evasione verso forme più semplici, in esse si rivelano già bellezze e tocchi di colore non conosciuti dalla pittura napoletana del tempo.

 

 

Guarini “polemico”.

 

Le opere migliori del Guarini sono le tele del soffitto della Collegiata di S. Michele dove l’artista mostra di aver raggiunto in modo saliente il naturalismo napoletano e che furono assegnate al Guarini per concorso. Sono espressione degli anni più intensi dell’attività del Guarini in cui l’artista pose in essere una polemica con lo Stanzione quando si staccò dalla pittura del maestro dando l’avvio alla “nuova pittura guariniana”.

Siamo intorno agli anni ’30 e dalla scuola dello Stanzione si allontanarono altri pittori. Erano artisti novatori, detti i «poeti novi» della pittura napoletana, attratti fortemente dalla parte più rivoluzionaria della pittura del Caravaggio e che dettero inizio ad un «realismo caustico e violento» e che divennero rappresentanti del naturalismo del 600 napoletano.

Questa pittura fu detta «polemica» perché fu il documento di una condizione sociale non prospera. Essa si ispirò ad una realtà contadina, campagnola, provinciale per argomenti e personaggi, fu quindi una pittura ben definita. Nacque dalla bottega del Ribera dove ebbe il suo centro. Gli artisti furono: Aniello Falcone, Giuseppe Ribera, Bartolomeo Bassante, Giovanni Do, Antonio De Bellis, Francesco Fracanzano e Francesco Guarini che furono rappresentanti di una rigogliosa estate naturalistica. Essa sarà spazzata via dalla peste del 1656 e non avrà più continuatori.

Fu un’arte “dura”, “paesana” che su diffuse facilmente tra questi artisti che rappresentarono la realtà quotidiana e provinciale fatta di madri dolci e tragiche, di vecchioni rotti e scavati dalla fatica, indomiti, pazienti. Essi sono i migliori temi dati proprio dal Guarini nelle tele del soffitto della Collegiata composte proprio nel momento in cui (negli anni 30-37) l’artista si distaccò dallo Stanzione ed elaborò una poetica personale, di grande intransigenza che lo divise anche dai suoi stessi compagni e che lo portò ad avvicinarsi ai temi più violenti del Caravaggio e del Ribera, riuscendo a riunire e riassumere in una sintesi poderosa le due scuole caravaggesche.

Nel soffitto di San Michele il Guarini mise in evidenza il dramma con un colore vigoroso, con ombre robuste e vivi chiarori, con sbattimenti di luce. Qui mirabilmente rappresentò i fatti salienti della vita di Cristo (dall’”Annunciazione” all’”Assunta”) creando un “poema cristologico” che lo face un sicuro maestro, capace di saper vedere e interpretare il mondo circostante.

C’è in queste tele un’architettonica ridotta, una grande docilità espressiva in cui la luce, lo spazio e le forme si compongono in una sintesi di grande incisività, c’è una poesia “semplice e rude”, un attento interesse al ritratto, una pennellata densa fatta di grandi macchie di luci e di ombre che fanno del Guarini una personalità di livello artistico diverso dai suoi maestri, con una pittura naturalistica e aspra.

 

Il primo capolavoro da considerare è l’”Annuncio ai pastori”, un’opera meno tenebrosa e più ricca di pennellate di luce, dove la luce si fa lenta e solenne, severa e raccolta, abbraccia i volumi e li definisce, li illumina, dà loro spazio alla maniera del Caravaggio, dando anima e vita ad un interno di una capanna pastorale. La luce fa emergere dall’ombra volti di donne e uomini, si insinua nel fondo e rianima i musi delle pecore, mentre in primo piano scolpisce la mirabile figura femminile di spalle. Non c’è qui di caravaggesco solo l’uso della luce, c’è anche la disposizione delle figure, c’è la scena naturalistica nella sua potente realtà fatta di gesti quotidiani, di cose di ogni giorno, di costumi del tempo creata quasi per denunziare la miseria di un ambiente, l’indigenza degli umili sudditi della provincia. È questo il capolavoro più paesano del Guarini, l’opera più significativa del pittore del suolo natio, memore degli umili pastori, dei conciatori di pelli e dei fabbricatori di cotti.

Altro capolavoro di colori, di ombre, di pennellate è “Il sogno di Giuseppe” in cui è chiaro il ricordo degli angeli del Caravaggio, dove la pennellata diventa ricca di luce sulle carni dell’angelo, umano come non mai, e s’incupisce nella figura di Giuseppe, impietrito nella stanchezza. Sullo sfondo si apre una porta che mette in una stanza ove si staglia la figura di Maria in preghiera. Sono figure solidamente costruite, lontane dai modi di dipingere, sono essenziali, scabre, primitive quasi introducono all’altro capolavoro “La visione che precede la fuga in Egitto” ove il Guarini spinse ancora di più la sua ricerca naturalistica, la sua visone di un’arte che fosse quotidiana osservazione e trasformazione in poesia della vita che lo circondava. Anche qui c’è l’essenziale, due figure in primo piano, nitide bloccate dalla luce che crea le ombre: una popolana intenta a dare il latte e il figlio. Tra Maria e Giuseppe, più in ombra, un angelo, che del cielo ha solo le ali, sbracciato, indica al Patriarca, immerso nel sonno, la via d’Egitto. Il naturalismo di questa tela presente fin dalle fasce colorate del bambino, nei cocci dell’ammattonato e nelle pieghe della veste di Maria, collocano questa violenta visone al di là delle ricerche del Ribera. Il Guarini qui ha raggiunto la sua maturità artistica.

C’è un’altra tela che esprime la visione sintetica che della vita ebbe il Guarini, “La presentazione della Vergine al tempio”. Essenziali sono i colori, le figure, i gesti, la stessa architettura, che limita nello spazio breve di una piazza la scena, mentre di mistico c’è solo il volto di Maria fanciulla. Di spalle, posizione non insolita nella pittura guariniana, c’è una popolana, in vesti paesane con sulla testa un canestro con biancheria.

L’”Annuncio a Maria” rappresenta tre figure su uno sfondo incerto: un angelo robusto muscoloso, come lo sapeva creare solo il Caravaggio, due popolani atterriti, vestiti degli abiti quotidiani, scuri. Qui la pennellata è ruvida e spessa. Si ha l’impressione di trovarsi di fronte ad una pagina di realistica e rude poesia.

Nella “Circoncisione” ci sono i vecchioni guariniani, un tema ricorrente in questo periodo. È una composizione un po’ bizzarra per il copricapo e per le vesti pompose del barbuto Simeone, di un colorito vivace, mosso nel gesto del circoncisione, il cui volto è reso più realistico dal berretto rosso e dalla mantelletta gialla. L’opera mette ancora più in risalto il momento polemico della pittura guariniana e accosta l’artista ai ribelli naturalisti del suo tempo. La scena ha il centro nell’atto del circoncisore e del vecchio intento a leggere nel libro antico la parola del profeta. Gli sta di contro la modesta figura della Vergine quasi in ombra perché tutta la luce e i colori sono chiamati a far blocco sulle vesti e sulle carni delle figure in primo piano.

Nella “Visione di Zaccaria” (1637), il Guarini impianta una scena affollata, limitata ed approfondita dai massicci pilastri e dalla disposizione, su diversi piani, di figure monumentali di vecchie, di donne che assistono all’interrotto sacrificio del Patriarca. Gli scalini dell’altare, disposti orizzontalmente, allargano ed ampliano la sacra rievocazione, dando un senso visivo dello spazio. Su tutta la scena si distende un vento di attesa, di stupore. I vecchi che si affacciano ai pilastri e le donne che sono rappresentate in una monumentalità che si trova solo nei personaggi dell’”Annucio ai pastori”, sono espressione di una grande potenza interpretativa. Ogni volto di donna è un ritratto, ha un’anima, un qualche cosa da comunicarci. Tratte dal suo ambiente, dalla sua gente, altre madri, ripetono o anticipano un motivo che è ricorrente nelle sue tele: la maternità.

È quasi misterioso, nella visione poetica del Guarini, l’interesse del senso materno. Nei suoi capolavori il brano più bello e più caratteristico è quasi sempre una donna che allatta, sia se rappresenti la Madonna o una giovane madre popolana, o una concreta figura di contadina. Forse l’ispirazione gli veniva dai bassifondi napoletani o dalle strade della sua contrada, ove le madri dinanzi alla soglia delle case porgevano il petto colmo al figlio, in un gesto di naturale bellezza.

Col “Giovacchino tra i pastori” siamo ancora tra i capolavori. Anche qui la luce, sapientemente distribuita, mette in risalto solo la figura poderosa del Patriarca, ritraendolo di spalle e indugiandosi a modellarne la ruvida veste oliva e la possente testa. I pastori emergono pallidamente dall’oscuro fondo, immersi nel sonno in tante solide forme bloccate.

Dopo queste opere il Guarini si distaccò dal suo rude e scabro linguaggio naturalistico e intraprese una nuova ricerca, da artista decadente, riaccostandosi allo Stanzione e impostando tele che lo fanno definire “Guarini stanzionesco”.

 

 

 

Crisi guariniana.

 

Con la “Sine macula” (1637) inizia una nuova ricerca stilistica e coloristica. La sua pennellata si fa più chiara, si riempie di luce, le pieghe s’infittiscono, i panni si fanno di seta, cangianti, svolazzano, perdono la pesantezza e la ruvidità dei violenti teloni del transetto della Collegiata, sono pieni di caroselli di angeli che limitano le figure, deformano l’architettura, sicché l’occhio si smarrisce e non abbraccia bene l’insieme.

 Il Guarini, come tutto l’ambiente artistico napoletano, acquista forme più sottili e leggere. In questa nuova ricerca egli si avvicina allo Stanzione che elaborava un linguaggio caravaggesco di superficie, più di forma che di contenuto.

Il primo documento di questa crisi è proprio la “Sine macula” composta subito dopo la “Visione di Zaccaria”. Il divario tra le due opere è netto e chiaro. Qualcosa è intervenuto per far allontanare in modo così preciso il Guarini dalle posizioni oltransiste del Caravaggio se nello stesso anno compose opere così diverse. Questa opera comunque apre una nuova fase nell’arte del Guarini.

In questa tela, commissionata dalla Congrega della Carità dei Bianchi, su uno sfondo aurorale campeggia un’immagine muliebre, che ha perduto la “sodezza” e la “plasticità” delle popolane Madonne del soffitto sammicheliano per assumere carni luminose e sete sgargianti in un tripudio di angioletti. Unico ricordo del tempo migliore, segno di una visione e di un magistero non ancora spenti, è il paesaggio ai piedi del quadro.

Di questo periodo fa parte “L’Annunciazione”, collocata al centro del transetto della Collegiata (1642), dove il Guarino si fa gentile, squisito nelle forme, raffina la sua gamma coloristica, toglie violenza alla luce; il volo degli angeli diventa un vortice, le carni si fanno delicate. L’angelo ha il volto incorniciato di riccioli al vento ed ha perduto l’antica umanità degli angeli del ciclo precedente. La Vergine però conserva nel gesto la naturalezza e la monumentalità delle primitive figure, è ancora una popolana che umilmente s’inchina.

Di questo periodo sono ancora le tre pale rappresentanti la Madonna del Rosario (in S. Domenico, in Materdomini e in casa Di Donato) delle quali la migliore è la “Madonna del Rosario” in San Domenico di Solofra, commissionata al Guarini dalla Principessa Dorotea Orsini, ritratta dal pittore in piena immagine, in basso, a sinistra del quadro. È la composizione più ricca e ampia dopo l’”Annuncio ai pastori” e “La visione di Zaccaria”, dove il Guarini ritrova la sua pennellata antica, nel delicato gruppo della Madre e del figlio, e la sua inconfondibile poesia nel ritrarre le energiche figure dei santi, come San Domenico “severo e maestoso” e San Pietro martire “bruscamente ardito”. Magnifici poi sono i ritratti, in piena persona della principessa e del Vescovo col suo decoratissimo piviale che potrebbe essere Fabrizio Sabelli, allora cardinale-arcivescovo di Salerno.

Altre due tele che meritano di essere lette attentamente sono quelle del soffitto di S. Agata (“Il taglio delle mammelle” e “Martirio sulle braci”), qui c’è una chiara conoscenza del nudo guariniano. Nell’episodio de “Il taglio delle mammelle” il Guarini riprende ed esaspera quasi la ricerca naturalistica degli anni migliori, dandoci ancora una volta una serie di ritratti: dallo esperto carnefice, che stringe tra le dita la vergine carne del seno della Santa; all’aiuto, che, non staccando lo sguardo dal corpo seminudo, affila i coltelli sulla pietra acciaina; al vecchio sadico, che sensualmente sorride e protende le mani, quasi per godersi l’immacolato bel corpo, modellato con raffinata esperienza. Magnifici sono poi i fiotti di luce sul cosciale e sul braccio del carnefice, sulle carni giovanili della Martire e sulle larghe maniche della camicia del vecchio. L’aspro realismo della scena, piena di contrasti, colloca questa violenta ed energica opera guariniana nel numero dei capolavori, eseguita subito dopo i teloni sammicheliani, infatti questi quadri furono commissionati al Guarini dal principe Marino Caracciolo di Avellino, il quale, dopo aver visto “con infinita meraviglia quel soffitto bellissimo, ambì averne anch’egli uno di pregio non minore nella chiesa di Sant’Agata”.

Nell’altro episodio, quello del “Martirio sulle braci”, la scena si fa più distesa, meno attenta, in cui le figure risaltano lungo un’architettura di tre tondi archi, ed è approfondita dal pavimento a mattoni bicolori, su cui è adagiato, tra carboni accesi, il corpo della Santa, “ancora più nudato dell’altro”.  

Nella “Maddalena in estasi” dell’Ospizio Guarino l’artista accentra la sua attenzione al bel corpo della penitente, che modella da maestro, affidando alla luce il compito di mettere in risalto le forme dell’estatica santa, che, nel rapimento, rimane bloccata tra il gioco della luce e delle ombre. In basso a sinistra il ritratto del committente, Fabrizio Guarino.

Nel “Sacrificio d’Isacco” della parrocchiale di Sant’Andrea, il Guarini riprende i temi biblici. Di questo periodo della sua stagione pittorica è il paesaggio che gli fa da sfondo, in un lento digradare di monti, che accompagnano e meglio definiscono la diagonale aperta dai tre personaggi della scena sacra. In questa tela c’è ancora l’”energia” guariniana presente nel volto in iscorcio del giovane sacrificando, nella fune che gli lega i polsi, nella sciarpa calcinata che cinge i fianchi del sacrificante e nello scorzuto tronco d’albero e nelle foglie di quercia.

La Vendita di Giuseppe” (S. Andrea) si riallaccia nei colori violenti e nella vitalità delle figure dense pittoricamente al primitivo momento naturalistico, quando il Guarini usò un linguaggio forte plebeo, sociale, polemico.

 

 

L’ultimo Guarini.

 

In questo ultimo periodo il Guarini si avvicina ancora di più allo Stanzione con opere che sono rielaborazioni del maestro, documenti quasi irriconoscibili, ma dove ci sono i segni dell’antica poetica.

Il “Transito di San Giuseppe” (Chiesa di S. Diego in Napoli) è infatti una rielaborazione del medesimo tema trattato dallo Stanzione. Di esso c’è una seconda edizione nella chiesa di S. Sossio in Serino che è migliore e può definirsi un tardo capolavoro che suggella una vita intensa ed operosa. Nell’architettura, nell’uso della luce, nelle vesti, nei panciuti agiolotti c’è un nostalgico ritorno all’antico.

Altra tela, anch’essa un ritorno agli anni dei violenti teloni sammicheliani, è la “Madonna del Suffragio”, opera forte energica, espressiva,  tormentata.

 

 

 

 

 

 

Home

 

Pagine guariniane

 

Scrivi

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Cronologia guariniana.

 

1611, gennaio 19.

Nasce a S. Andrea ecco l’atto di nascita: Die 20 mensis Januarii 1611 fuit baptizatus a me Francisco Garzillo, Cappellano et Rectore et Curato parochialis Ecclesiae S. Andreae, filius Tomasius de Guarinis et Juliae de Vigilante ciniug., natus die 19 eiusdem mensis et fuit impositum nomen Felix, Franciscus, Antoniu; et mater quae illum suscepit de fonte baptisimi ffuit Gratia de Juliano opstretrix»

 

1623. 

Entra nella bottega di Massimo Stanzione.

 

1634. 

Esegue la «Madonna del Rosario» in S. Andrea.

 

1637-1642

Colloca i teloni del transetto del soffitto della Collegiata di Solofra dalla «Visione di Zaccaria»(1637) all’«Annunciazione» (1642).

 

1643 e oltre.

Lavora ai dipinti del soffitto della parrocchiale di S. Agata su commissione del Principe di Avellino, Marino Caracciolo.

 

1644, maggio 5. 

Scrive una lettera al Signor Don Ferdinando Orsini, principe di Solofra. Si trova nel libretto: Il vinto Inferno da Maria. Rappresentazione sacra di Honofrio Giliberto di Solofra, Trani, per Vincenzo Valerii, 1644.

 

1645.

Esegue la pala della «Madonna del Rosario» nella Chiesa di Santa Maria di Materdomini di Nocera.

 

1646

Esegue l’altra pala della «Madonna del Rosario» di casa Di Donato di Solofra.

 

1649.

Dipinge la terza pala della «Madonna del Rosario» in S. Domenico di Solofra su commissione della principessa Dorotea Orsini.

 

1650.

Su commissione del Monte dei Morti della Collegiata esegue il «Transito di San Giuseppe» in seguito la seconda edizione del SS. Corpo di Cristo (in S. Sossio di Serino).

 

1654, giugno 13.

Muore in Gravina di Puglia. Circa la sua morte c’è chi dice che sia morto di veleno propinatogli da un rivale in amore facente parte della corte dell’Orsini. Un’altra versione dice che sia morto di malinconia per l’uccisione della donna amata contesagli da un rivale. Una terza versione dice che l’Orsini lo abbia fatto avvelenare perché l’artista non era disposto a seguirlo a Roma.

 

 

 

 

 

Nota sulla grafia del cognome di Francesco Guarini (1611-1654).

 

 

 

Dice il più completo studioso di Francesco Guarini, Michele Grieco, Francesco Guarini da Solofra nella pittura napoletana del 600, Avellino, 1963, (pp. 83-84): «Il vero esatto nome è Guarini, non Guarino, come ci accerta:

- l’iscrizione posta nel 1653 all’altare ov’è il quadro della «Madonna di Costantinopoli», in S. Andrea di Solofra, ove si legge: Franciscus Guarini pinxit;

- la lettera dedicatoria del Nostro al Signor Don Ferdinando Orsini, dove in calce è sottoscritto: «Humilissimo servidore Francesco Guarini»;

- il fatto che «Guarini» è dato con insistenza nelle cronache locali e negli scritti a Lui dedicati da studiosi della sua Terra;

- l’Arciconfraternita dei Bianchi in Solofra, nella Tabella dei Defunti, ov’è ricordata l’epoca della sua morte e dove si legge: «Francesco Guarini Pittore insigne, morto il 13 luglio 1654».

 

 

Osservazioni posteriori:

- Sull’atto di nascita c’è una correzione avvenuta con altro inchiostro che trasforma «Guarino» in «Guarinis».

- La famiglia dell’artista è indicata negli atti notarili dell’epica con la dizione «Guarino».

 

 

Deduzione:

 

È chiaro che il Guarini ha voluto creare una distinzione con la sua famiglia originaria, tramandando ai posteri la grafia «Guarini» (lo dice la sua firma sulla lettera scritta all’Orsini). Ciò si spiega col fatto che i suoi congiunti (nonno, padre e fratelli) erano pittori molto mediocri del manierismo, che egli a Napoli faceva parte della prestigiosa scuola del Ribera e dello Stazione di derivazione caravaggesca e che lui stesso con le sue opere aveva operato una rivoluzione nella pittura napoletana tanto che la sua è definita «nuova pittura guariniana».

È pienamente giustificato pertanto la distinzione che volle operare anche col cambio del cognome, cosa d’altra parte molto ricorrente tra gli artisti.

Questa operazione all’epoca era possibile attraverso la via seguita dall’artista data la estrema imprecisione dei cognomi e non essendovi alcuna via giuridica.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Collegiata

Nel 1522 sul luogo della preesistente chiesa di S. Angelo inizia la costruzione della nuova chiesa.

Nel 1526 il Collegio dei canonici della chiesa parrochiale dell’Angelo viene trasformato in Collegio Newl

1529 la Bolla di Papa Clemente VII eresse a Collegiata la parrocchia di S. Michele Arcangelo di Solofra. N

1533 Gli spazi interni della Collegiata sono già definiti.

1561 la costruzione era completata

1563 era terminato l’organo

1579 inizio lavori dell’organo e la cantoria

1611 Francesco Corani stipula un contratto per il completamwento del disegno del portale di pietra della porta maggiore

1614 viene messo in opera una parte del portale

1685 consacrazione della Collegiata in presenza del Cardinale Vincenzo Maria Orsini (poi Benedetto XIII)

 

 

Chiesa a tre navate con facciata tripartita che anticipa la ripartizione dello spazio interno. La scansione verticale è ottenuta dalla trabeazione orizzontale della facciata presente anche all’interno.. La trabeazione del secondo livello si riporta a tutta l’altezza e richiama le sottostanti cornici marcapiano, così all’interno il grande soffitto chiude maestosame4nte lo spazio in alto e si raccorda alle cornici sottostanti

 

 

La decorazione lignea della navata è firmata da Giovaqn Tommaso Guarini artista morto nel 1637 la doratura fu effettuata dal 1631 al 1633