Chiese solofrane

 

Santa Maria dell’Assunta o della Castelluccia

 

La chiesa sorge sul pianoro di Castelluccia dove esisteva un antico culto alla Vergine. Fu Grancia del monastero di S. Agostino.

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Fu voluta all’inizio del XVI secolo dal feudatario di Serino a cui apparteneva la zona, Ludovico della Tolfa.

Fu poi dotata dagli altri feudatari di Serino tra cui i Principi Caracciolo di Avellino.

 

1650. La grancia della chiesa di S. Maria di Castelluccio possiede 40 moggia di terra seminatoria, donatale dal Principe di Avellino e dal Duca di Gravina (ADS, Monasteri).

1653. Relazione del visitatore: Nella grancia di S. Maria di Castelluccia vi è un sol sacerdote.

 

Nel periodo napoleonico, soppresso il monastero di S. Agostino, la chiesa fu assegnata alla parrocchia di S. Agata.

 

 

 

È costituita dall’edificio sacro ed alcuni ambienti una volta abitati da religiosi che ne gestivano i beni.

L’interno semplice e scarno presenta resti di affreschi del XVI secolo.

 

 

 

La tradizione della festa della Castelluccia

 

La festa ricorda un rito antichissimo che risale a quello di S. Maria del quindici agosto celebrato della pieve solofrana e di origine bizantina essendo stato introdotto dopo il Concilio di Efeso (431) dall’imperatore Maurizio che ne prescrisse la divulgazione in tutto l’impero.

 

 

 

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La sera precedente sui davanzali delle finestre veniva posta una candela accesa per accompagnare la Vergine al cielo. Quelle mille luci, nel buio della notte estiva, quando non c’era altra illuminazione, sembravano tante stelle cadute dal cielo o come specchiantesi in una vasta distesa di acqua. Erano pie presenze nell’oscurità. Le notti d’agosto avevano avuto sempre qualche cosa di magico per il fenomeno delle stelle cadenti che atterrivano o riempivano di stupore l’umanità priva delle sicurezze della scienza. In questa pratica, ora perduta, c’è un’intima unione di profano e religioso che non guasta poiché nasce dalla profonda semplicità dell’animo popolare.

Questo evento aveva ancora un’altra pratica quelle delle cento croci e delle cento avemaria che nell’afoso pomeriggio agostano si celebrava nelle chiese dei rioni. Dinanzi all’immagine mariana si sgranocchiava il rosario due volte: cinquanta più cinquanta. Si recitava una giaculatoria, che aveva il senso di un’esorcizzazione dall’influsso del demonio.

Si diceva:

 

Brutta bestia, vattene va’, 
cu ll’anima mia nun hai che ’nce fa.
Io stongo cu la Vergine Maria
e mi faccio ciento croci
e dico ciento avemarie.

 

Quindi si faceva il segno di croce e si recitava l’avemaria.

Chi non poteva recarsi nelle chiese recitava la preghiera in casa. Si vedevano allora nei cortili, sulle terrazze, sulle logge, nel caldo pomeriggio estivo, gruppi di donne e bimbi intorno alla più anziana, uniti nella mistica invocazione.

Dopo ci si sentiva più liberi. Il demonio è fuggito, si diceva, e si continuava il lavoro che la pratica non aveva interrotto.

 

La festa 

 

Il vasto pianoro, irto di rocce, molle di erba, ombroso di boschi, fresco di sorgenti, denominato Castelluccia, domina, come un terrazzo, tutta la valle a nord-ovest. Pregno di ricordi antichi, essendo stato il luogo presente in tutti i momenti storici più importanti della cittadina, in occasione di questa ricorrenza, esso è meta di un vero pellegrinaggio a cui nessuno manca, ognuno secondo le proprie possibilità fisiche. I fedeli raggiungono la chiesetta a piedi, dopo essere saliti sulla frazione di S. Andrea. Hanno percorso un sentiero naturale a mezza costa, prodotto dal passaggio dei muli, delle pecore, dei boscaioli o dalle acque piovane che l’hanno modellato nei secoli. Hanno indugiato lungo l’erta: uno sguardo al panorama della valle scorto tra la folta vegetazione, un altro al cippo di travertino e all’epigrafe che ricorda l’antico percorso, il pensiero rivolto agli eventi passati, mentre il canto inneggia alla festa imminente. Finalmente la meta è raggiunta, la folla si spande tra gli ampi spazi fino alle antiche fornaci. Alcuni sono in chiesa ad onorare la Vergine, altri già sotto l’ombra a rinfrescarsi, altri in giro tra le bancarelle, tutti con nell’animo il desiderio di unire la gioia festosa della scampagnata al desiderio dell’omaggio alla Vergine. C’è chi ha raggiunto la chiesetta la sera prima, ha dormito tra l’erba nei campi o in rifugi di fortuna, protetto dal caldo estivo. Ora costoro si uniscono ai nuovi arrivati.

Il suono della Banda della Castelluccia guida la festa, segue la breve processione, accompagna le danze. La banda è costituita da quattro elementi che suonano il tamburo, i piatti, il flauto dolce e la zampogna. La musica è una specie di tam tam melodico ed è eseguita con schiettezza e semplicità. I musicanti sono sempre gli stessi: il padre il posto al figlio per conservare la tradizione. Il giorno precedente hanno percorso le strade dell’intero paese come per chiamare i fedeli al pellegrinaggio.

 Ora tutti sono uniti nella gioia e nella fede, la festa religiosa si confonde facilmente con quella profana. Si canta e si danza all’ombra dei secolari castagni. Sono danze antiche, tarantelle e rustiche gavotte. Dal canto profano si passa a quello religioso, poiché la semplicità di questa gente non conosce le distinzioni venute poi (1960).

 

La festa testè ricordata, da noi vissuta, è simile a quella dell’inizio del secolo, raccontata dal poeta solofrano Carmine Troisi, in questi tre sonetti.

 

I

Rocce su rocce, aguzze, nude, erette, 
vigne all’intorno e ripidi querceti: 
vi menan su viottoline strette,
che di torrenti son talora greti.
 
Doviziosi e soffici tappeti 
d’erba a la sommità maggio vi mette: 
più o meno bianche, solitarie e chete, 
appaion sparse rustiche casette.
 
Poggiata su un aereo macigno, 
di contro al ciel perlaceo d’occidente, 
con nuvolette candide di cigno,
 
incide la sua sagoma nitente 
un’antica chiesuol, da cui benigno 
un senso emana, silenziosamente.
 
 
II
 
E ha, ne l’anno, anch’essa il suo festivo 
giomo, la pia chiesuol vecchia e romita: 
scottan le rocce allora, al sole estivo, 
e il bosco a l’ombra sua la gente invita.
 
Per erta via di ciottoli gremita, 
montano a sciami l’infocato clivo 
i villici del borgo, e calamita 
è la Madonna assunta al seggio divo. 
 
Entrano e stan rapiti a rimirare 
quello che fu la meta del viaggio: 
il luccicante e ben guernito altare.
 
Fuori, sotto un castagno o sotto un faggio, 
dei bettolieri badano a vantare 
lor ghiotta merce a chi vuol fame assaggio.
 
 
III.
 
Ma più caratteristica è la notte 
della vigilia: da nessun si dorme: 
scoppiano fuochi d’artificio in forme 
varie e ne tonan le propinque grotte.
 
Pestato è il suol da rustiche gavotte, 
si che ne serba per un pezzo l’orme. 
D’altri devoti sovraggiungon torme. 
Or questa si saccheggia, or quella botte. 
 
Poi van man mano i lampioni appesi
 morendo come l’alba s’avvicina 
sdraiansi alcuni, stanchi, nei maggesi. 
 
Anche nel ciel muor qualche stellina 
intanto la campana, a tocchi estesi, 
 il segno de la messa mattutina.

 

 

 

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