Giuseppe senior

 

 

Figlio di Giacinto, nacque il 17 febbraio 1728, si dedicò agli studi giuridici e fu discepolo di Pasquale Cirillo. Ebbe una vasta cultura tanto da parlare correttamente, il latino il greco e l’ebraico ed essere annoverato tra i dotti della Napoli settecentesca.

Insegnò Diritto Naturale (1752), Istituzioni civili (1762), Pandette (1785).

Ebbe una scuola privata molto frequentata, che fu centro della diffusione delle idee dell’Illuminismo moderato.

La prima pagina dell’opera di Giuseppe Maffei Istitutiones juris civilis neapolitanorum

La sua opera principale, del 1784, fu una sistemazione storica di tutte le norme e le consuetudini del Meridione.

 

Era necessario che si prendesse coscienza dell’intero corpus juris napoletano che era passato attraverso vari sistemi legislativi mai abrogati per cui si era accumulata un’enorme congerie di leggi farraginose e contraddittorie che dovevano essere giustificate e spiegate proprio dalla storia.

 

Indicò un filo conduttore che portava il diritto, attraverso le variegate vicende del passato fino al suo tempo in opposizione con l’indirizzo antistorico del cartesianesimo.

 

Era convinto della validità del divenire storico che si esprime nelle consuetudini che diventano leggi.

 

Partecipò direttamente al processo di rinnovamento del riformismo settecentesco in posizione moderata ma a sostegno delle istanze di innovamento. Come tale fu aperto alle innovazioni che venivano dalla Francia sia quando fu Censore dei libri, permettendo l’accesso di molte opere provenienti da quel paese sia quando fu incaricato di rinnovare l’Università di Catania e quando fu rettore dell’Università di Napoli (1792).

Per queste sue aperture subì il carcere e la chiusura della scuola.

Ma la sua statura era così alta che ebbe riconfermato l’insegnamento all’Università alla cattedra di Diritto romano, restandovi fino alla morte avvenuta nel 1812.

 

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Fu il più rappresentativo tra coloro che respirarono l’aria di rinnovamento del Settecento napoletano e che riuscirono ad immergere la mentalità cartesiana in quella napoletana. Apparteneva ad una di quelle famiglie che avevano contribuito a tenere stretti i legami con Solofra, e che nella Napoli del Settecento ricopriva un ruolo importante nei gangli della nuova aristocrazia. Frequentatore dell’Accademia degli Oziosi nella casa napoletana del suo amico Niccolò Maria Salerno, si era formato alla scuola di Pasquale Cirillo e del Vico. Seguendo il filosofo napoletano il Maffei trovò nel cartesianesimo uno stimolo alla riflessione e al superamento di quel metodo, nella conquista del mondo della storia. Col rigoroso processo proprio della ragione, che era la ricchezza del cartesianesimo che neanche il Vico disprezzava, il Maffei, nell’applicare l’insegnamento vichiano, si volse al passato, correggendo il pessimismo in cui la nuova filosofia lo avvolgeva. Attraverso il percorso delle istituzioni civili del Meridione, indagate nella sua opera maggiore, il Maffei scese nelle pieghe più genuine del vivere alla ricerca, nei "fatti", della ragione delle leggi, una "ratio" dell’ordine sociale. La sua fu un’indagine nelle stratificazioni del comportamento umano e nelle articolazioni del costume, avendo ben chiaro il senso della complessità e della dinamicità dei fenomeni umani, per individuare elementi comuni e strutturali utili a spiegare gli istituti giuridici della società, e a dare un contributo ad una rifondazione giuridica e teorica dell’"auctoritas". Con lui la "giurisprudenza storica", divenuta investigatrice, da una parte evitava il pericolo di travisare, con la perdita della prospettiva storica, le istituzioni del passato, dall’altra era tesa ad individuare modalità di interpretazione della realtà napoletana da cui dedurre i mezzi per l’azione riformatrice. Uno spirito "riformatore", dunque, il suo, improntato al concetto che l’uomo, nel cambiamento, deve agire, non spinto da irrazionali mode innovative ma aderendo alla realtà in cui si trova. Questo, tradotto in termini contingenti, significava che, date le peculiarità del Regno di Napoli, che non erano quelle francesi, non era "congeniale" al napoletano chiedere la caduta della monarchia. L’analisi del Maffei sull’origine dei feudi portava avanti, da una parte, la polemica antibaronale, sostenendo di risolvere il problema feudale per gradi perché i baroni del suo tempo non erano il baronaggio che aveva procurato i danni del passato, dall’altra, indagava il fondamento storico della sovranità feudale di Roma su Napoli, affrontando il complicato problema del rapporto con la sede pontificia. Era uomo del suo tempo anche quando sceglieva il latino per la sua dissertazione, perché questo esprimeva quel bisogno, da più parti sentito, e proprio del riformismo napoletano, di andare alle "migliori fonti" della lingua di Roma, e perché evidenziava quell’amore per la pagina scritta che non conosceva "la giurisprudenza pratica" del suo tempo. Il Maffei - colui che "disimpegna[va] gli affari collo scrivere piuttosto che coll’arriga" - sentì infatti, come magistrato e insegnante, tutto lo spessore politico e civile del suo impegno, teso ad incidere sulla realtà del suo tempo. Come professore all’Università e di una scuola privata, partecipò al processo di rinnovamento, che si era innescato a Napoli, in una posizione riformista, che mise in evidenza, soprattutto quando fu Censore dei libri, dando la possibilità a molti studi che venivano dalla Francia rivoluzionaria di avere accesso in Napoli; poi quando collaborò alla riforma dell’Università, di cui fu rettore; e quando aderì al fervore di studi e di idee che precedette il ’99. Per questo subì la carcerazione, durante l’opera repressiva dopo la scoperta della prima congiura giacobina nel 1794, e la chiusura della scuola privata, prima della fuga del re.

 

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Dice di lui il Giliberti:"Rutilat eu Lucifer axe / Eu Maffejus eques, Patronus sedulus / aequus: Princeps ante alios amnes oracula legum / Enodat, vitorque Fori ceertamina pugnat" (Pantheon Solophranum, Abellinum, 1886).

 

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