Approfondimenti: Onofrio Giliberto

 

Un dilettoso edificio

La produzione letteraria di Onofrio Giliberti

di

Carlo Coppola

 

S O M M A R I O

Capitolo I: Onofrio Giliberto e la società del suo Tempo. Tracce di una doverosa biografia (1618-1665). Il contesto storico-geografico. Le lettere di dedica.

Capitolo II: Onofrio Giliberto nel panorama intellettuale del suo tempo: il teatro. Introduzione. Vita e morte di San Rocco. Il Vinto inferno da Maria.

Capitolo III: Altre forme di scrittura e la giunta al romanzo: temi e problemi. Le ruote dell’Universo in cui compendiosamente si descrivono le cose celesti e sublunari. Il Cavalier de la Rosa, overo aggiunta a le gare de’ disperati.

Capitolo IV: Alla ricerca del Convitato di Pietra".

Materiali gilibertiani, appendice al capitolo I. Copia dall’originale e trascrizione del testamento del dottor Onofrio Giliberto da Solofra. Le Lettere di dedica.

Materiali gilibertiani: appendice al capitolo II. Atto I di Vita e morte di San Rocco. Atto I de Il Vinto inferno da Maria.

Materiali gilibertiani appendice al capitolo III. Le prime 41 pagine de Il cavalier de la rosa […].

Materiali gilibertiani: appendice al capitolo IV. Intorno a Giacinto Andrea Cicognini e al Convitato di Pietra (Barcellona 1936) di Benedetto Croce. Don Juan: Mito e Historia di M. R. Barnatan (originale). ‘Don Giovanni’ de Mozart. Mito e interpretation deldonjuanismomasculino di Lucia D’Angelo (originale).

Bibliografia. Scelta ragionata dei siti internet consultati.

Le lettere di dedica

Poco o nulla sappiamo circa l’opinione e relativa collocazione politica di Onofrio Giliberto all’interno della società solofrana del suo tempo, ma possiamo a buon diritto ritenere che egli sia stato vicino se non fautore della fazione filofeudale, la stessa che aveva contribuito al ritorno dell’aristocrazia ed alla riduzione delle libertà dell’Universitas di Solofra. Questo si potrebbe desumere da probabili interessi che egli avrebbe potuto avere nella gestione del suo ingente patrimonio ed anche perché dovette essere tra i consiglieri legali della famiglia Orsini a Solofra, se è giusta la mia interpretazione di alcune carte conservate presso l’Archivio di Stato di Avellino e da me consultate. Si tratta di sentenze da lui rese e di una annotazione fatta da un notaio operante a Solofra nel Settecento. Infatti, chiamato a dirimere alcune contese tributarie tra feudatario e cittadini appartenenti a famiglie o corporazioni che in passato avevano goduto di sgravi fiscali per le loro attività, il Giliberto diede sempre ragione al primo, costringendo ad ammende e pagamenti di ingenti interessi il contendente sconfitto.

Vi è poi una pagina, di cui si dirà l’importanza in seguito, scritta dal notaio Vito Antonio Grassi, che in un volume manoscritto, le cui carte sono conservate presso detto Archivio di Stato, dice a proposito del nostro autore che egli fu "di massimo senno nel consigliare in materia di legge".

(Vito Antonio Grassi, Genealogie e Ragguagli Istorici del antico e moderno Stato di Solofra e Sua universitas, 1722, manoscritto B 6767-6798, presso l’Archivio di Stato di Avellino).

Onofrio Giliberto inoltre – e questo è il dato più importante per la nostra indagine – dedicò ai Principi di Solofra, o ai loro "congiunti", tutte le sue opere, con un’unica eccezione nel 1644, quando Il Vinto Inferno da Maria fu dedicato al pittore Francesco Guarini, e solo successivamente a Ferdinando Orsini.

L’importanza delle lettere di dedica è fondamentale per tentare di ottenere un quadro generale, oltre che per circoscrivere le motivazioni, non solo occasionali, nell’ambito delle quali nascono e fioriscono le opere letterarie. Queste di Onofrio Giliberto, in particolare, mancando un sicuro supporto storico cronachistico, richiedono una minuziosa attenzione verso ogni parola che possa servire per comprendere un’intenzione, un messaggio, una necessità in più dell’autore.

Quelle in nostro possesso sono sette, e tutte, come si è già detto in precedenza, firmate ‘da Solofra’. In realtà di queste una, ovvero, la dedica de Il Vinto Inferno da Maria, indirizzata solo in un secondo tempo a Ferdinando Orisini, potrebbe essere annoverata tra i piccoli componimenti encomiastico-elogiativi non solo per la posizione anomala – è posta alla fine dell’opera – ma anche perché risulta priva di data e firma. Per questo sarebbe da escludere dal numero delle lettere che resterebbero sei. Ma andiamo con ordine.

Nel 1642 Onofrio dedicava a don Fabrizio di Capua, Principe della Riccia e Gran Conte di Altavilla, la sua prima opera a noi pervenuta, Vita e morte di San Rocco.

(Questa lettera non è riportata come le altre lettere di dedica integralmente nella sezione dei Materiali gilibertani in appendice al lavoro).

Di questa dedica pare certa la motivazione dovuta alla impossibilità di dedicare l’opera al legittimo principe di Solofra Ferdinando II Orsini, che doveva essere ancora giovane e contare politicamente meno del di Capua all’epoca della stesura del testo.

Quest’ultimo era imparentato con gli Orsini, in quanto fratello di Aurelia di Capua, moglie di Flaminio II e nonna di Ferdinando II, ma soprattutto – lo si evince dalla lettera – era "congiunto di sangue" di donna Beatrice Orsini. Non sappiamo esattamente quale sia il grado di parentela, anche perché non è stato possibile ancora individuare storicamente il personaggio di Beatrice.

Probabilmente si potrebbe restringere l’identificazione o ad una figlia di Flaminio II ed Aurelia di Capua, o ad una figlia di Dorotea Orsini e del cugino Pietro II Orsini. Propendo personalmente per la prima ipotesi perché in quel caso Beatrice sarebbe figlia della sorella di Fabrizio di Capua, e quindi sarebbe più plausibile la parentela ‘di sangue’.

L’autore, inoltre, dichiarava in una sorta di captatio benevolentiae la propria presunta inabilità al lavoro. Questa veniva esplicitata in una dichiarazione di estraneità verso la materia drammatica da parte del Giliberto che si diceva impegnato invece in "occupationi legali".

Secondo una tradizione letteraria assai consolidata, almeno a partire dalla grande stagione dell’Umanesimo alla corte napoletana degli Aragona, continuava vantando per prima cosa le grandi doti di una donna della famiglia, qui Beatrice appunto:

 

Vergine sì religiosa e di spettabil vita, che come vero specchio d’honestà vive da tutti ammirata: di quella Beatrice io favello, che abbandonate le pompe, e’ i fasti del mondo in angusta cella racchiuder si volle per goder poscia, con più sicurezza, gli spatiosi campi dell’Empireo.

 

Attraverso l’intercessione ed il suggerimento di costei, l’opera aveva potuto essere portata a termine nonostante le tante esitazioni ed era nata, poi, l’idea di dedicare al di Capua lo scritto. Per questo, e sempre in linea con la tradizione umanistica, venivano menzionate e celebrate con giusta semplicità le glorie della famiglia di Capua e gli antenati:

 

la onde essaminando ancor io i sacrificij offerti da V. E. all’Immortalità delle sue sinnumerabili Virtù, e ‘l famoso grido e la gloriosa fama de’ suoi Antenati, e’ quali sovente, per la fedeltà, ch’a lor Regi portarono, quasi amorose farfalle, a volontaria morte si esposero.

 

Gli esponenti della famiglia di Capua, infatti, erano stati tra i pochi a rimanere sempre fedeli agli Spagnoli sia durante la Congiura dei Baroni che nelle vicende avvenute all’indomani della discesa del Lautrek. Alcuni personaggi della casa di Capua, per non aver concesso ai Francesi il passaggio attraverso le loro terre, pagarono con la vita la fedeltà agli Aragona, e la famiglia fu insignita del titolo di Gran Conti di Altavilla. L’importanza di don Fabrizio era dunque assai notevole. Egli non è solo il destinatario occasionale dell’opera ma viene erto anche a difensore di essa. Quest’ultima funzione è ben spiegata col riferimento alla "spada del valore", ed allo "scudo della Virtù", che per tradizione erano stati vanto e simbolo della fedeltà al legittimo sovrano e protezione per gli abitanti del feudo. Ora la spada e lo scudo diventavano significativamente un ideale della difesa da coloro che si sarebbero schierati contro l’opera denigrandola. La lettera è firmata 5. di Marzo 1642.

30 Agosto 1643 è la data della seconda lettera in nostro possesso, quella di Le stravaganze d’Amore e d’Amicizia. Essa è indirizzata a don Ferdinando Orsini Conte di Muro, Duca di Gravina e Principe di Solofra. Il tono è qui rivolto in modo evidente verso il puro encomio, senza arditi paragoni con pianeti e stelle, ed il sole a cui di solito Onofrio paragona gli eredi maschi della famiglia Orsini è per giunta menzionato solo una volta. In effetti si tratta essenzialmente di un elogio delle virtù personali di Ferdinando:

in lei risplende la sovra humana nobiltà de’ suoi natali, si scorge la schiettezza nel trattare, s’ammira la bontà de’ costumi, riluce la chiarezza de’ gesti, fiammeggia la purità dell’anima, e in lei lampeggia la corporal bellezza, così fra i mortali luminosa, e vaga, come lucido è il Sole tra le Stelle.

È da sottolineare in queste parole il dato della nobiltà dei natali che si riferisce senza dubbio al fatto che Ferdinando fosse il figlio di due Orsini, Dorotea e Pietro, e che dunque fosse l’unico erede maschio di due differenti rami dello stesso casato. L’importanza di questo matrimonio dovette essere fondamentale per l’assetto politico della zona del Sarno ed anche per la Puglia, dove gli Orsini avevano sparse numerosissime proprietà, perché si sarebbero riunite in un’unica persona ossia nel figlio maschio della coppia tutti i possedimenti che i due rami avevano, oltre un gran numero di titoli nobiliari. Forse però la parte più significativa della lettera è costituita dalle righe iniziali, in cui Onofrio dichiara: "Ho voluto pure una volta pubblicare all’universo, ch’io sono di V. E. affettuoso servo".

Questa frase, al di là della occasionalità letteraria, sembrerebbe assai banale, ma qualche riga dopo Onofrio riprende:

son sicuro, che conosciutasi la mia servitù con V. E. l’invidiosa maledicenza non havrà ardire di lacerare questo rozzo parto della gioventù; e acciocché conoscano i mordaci Aristarchi (e a lor dispetto imparino a tacere) chi sia, che questa mal composta operetta prottegge, , in brevissimo giro di parole, manifestare al Mondo il meraviglioso tesoro delle virtù e grandezze di V. E. sgombro però d’ogn’aura di adulatione.

Il passo si potrebbe intendere in due modi che "l’invidiosa maldicenza" sia il solito atteggiamento di coloro che criticano, come si è visto anche nel caso di Vita e Morte di San Rocco, oppure si potrebbe trattare della smentita ad una testimonianza secondo la quale i rapporti fra il Giliberto e don Ferdinando non erano buoni, e questo confermerebbe il tono della frase iniziale assai preciso e perentorio nell’affermare un atto di devozione.

Terza lettera dedicatoria è quella de Il Vinto inferno da Maria che fu indirizzata al pittore Francesco Guarini, di cui Onofrio Giliberto doveva avere molta stima tanto da elogiarlo non solo come "famoso pittore" ma anche da innalzarlo a suo "padrone colendissimo". Nato nel 1611, Guarini, di poco più grande del Giliberto, si era distinto a Napoli alla scuola di Massimo Stanzione, ed aveva goduto subito un grande successo per l’efficacia emotiva espressa dai personaggi da lui raffigurati e per la vitalità dei forti accenti coloristici da lui adoperati in modo unico (Per altre notizie sul Francesco Guarini si confronti M. Grieco, Francesco Guarini nella pittura napoletana del 600, Pergola 1963, tra i primi studi critici sul personaggio). La dedica che il nostro autore compone per lui, però, riveste anche un enorme valore soprattutto per la biografia del pittore, poiché rientra nella polemica sul suo cognome. Il Guarini, infatti, apparteneva ad una famiglia di artisti solofrani, formatisi in botteghe napoletane minori e ritenuti scarsi imitatori di questo o quel maestro; il cognome della famiglia era Guarino e non Guarini. Francesco volle cambiare il proprio cognome perché non gradiva essere confuso con i suoi – non degni del livello da lui raggiunto – e questa lettera costituisce il primo scritto indirizzato a lui col nuovo cognome. Inoltre, il pittore in una seconda lettera in cui si dichiarava indegno della dedica di un così illustre esponente della cultura quale il Giliberto e offriva l’opera a lui affidata a Ferdinando Orsini, si firmò per la prima volta Francesco Guarini.

La dedica al Guarini costituisce, poi, un momento di polemica nella quale Onofrio Giliberto prontamente ribadiva l’appartenenza alla terra di Solofra dell’amico pittore, che veniva messa in discussione dall’appellativo di ‘napoletano’ spesso da lui adoperato al posto della determinazione da Solofra.

Occorre, sottolineare che il Giliberto concepisce per questa lettera uno stile assai particolare in cui risaltano il tono e la costruzione tipica dell’arringa tribunalizia dalla quale si ricava la genialità del pittore Guarini che viene paragonato al pittore di Zeusi morto per un eccesso di risa davanti alla sua stessa raffigurazione della "sconcia vecchia", simbolo dell’estremo realismo raggiunto dalla pittura ellenistica.

Risulta anche interessante notare come Giliberto concepisca la variazione del topos della captatio benevolentiae in maniera assai particolare facendola scaturire dal rapporto tra la "rozza penna", quella sua, e il "pennello emulator di Prometeo", a cui fa eco la risposta del pittore in cui pennello diventa rozzo e la "penna famosa".

Restano, infine, le lettere delle due opere non drammatiche, ossia Le Ruote dell’universo e Il cavalier de la rosa, in cui il tono della esposizione si fa meno solare e meno ricco delle reminiscenze della tradizione dell’encomio e del panegirico di stampo umanistico.

La prima è rivolta allo stesso don Ferdinando Orsini e porta la data del 5 Marzo 1646. La richiesta di protezione e la dedica vera e propria sono poste alla fine, dopo una lunga tirata concepita in tono assai oscuro, con un periodare complesso che rende a tratti poco comprensibile, come non era mai capitato, il senso primo delle parole dell’autore. Pare, in sostanza, che egli si riferisca agli influssi delle stelle sul genere umano, sottolineando che a questi neppure gli uomini dediti all’adempimento delle virtù possono sfuggire: anch’egli, dunque, che si accorge di non poter venire meno a queste, cerca la protezione di chi, come don Ferdinando Orsini, è sfuggito all’ "oppressione di tempo" ed alla "persecutione di Fortuna". Per questo rivolge un discorso contro gli astri, che decidono il destino degli uomini. Le stelle, però, non sono l’unico elemento contro cui Onofrio rivolge la sua arringa, infatti, precisa: "Il cielo, se ben si scopre mentitore nell’opre di Natura, e co’ suoi lucidi occhi, dimostra, che della sonnacchiosa mortalità è custode". Ed anche per questo motivo si pone sotto la protezione di don Ferdinando, tanto che ribadisce: "Sono io dunque sicuro, che mi verrà concesso di schernire l’onte della Fortuna, se verrò protetto da un’heroe così grande".

La lettera si chiude, poi, con una "profondissima riverenza" allo stesso signore.

Per quanto concerne Il cavalier de la Rosa overo aggiunta a le gare de’ disperati, abbiamo infine una lettera per ciascuna delle due edizioni. È stato possibile rintracciare solo una, quella dell’edizione veneziana del 1663. Essa è indirizzata a don Pietro Francesco Orsini duca di Gravina, principe di Solofra e Galluccio, e conte di Muro, che sarebbe diventato prima domenicano col nome di Vincenzo Maria e sarebbe poi salito, nel 1724, al soglio di Pietro col nome di Benedetto XIII. La lettera, che reca la data del 15 novembre 1660 non contiene nessun riferimento biografico al dedicatario che alla data della stesura dell’opera aveva dieci anni.

Io gli invio, e sia per picciola arra del riverente affetto, e della devota servitù, con possesso, e sicurezza, che vantando solo eccessi di nobiltà, del grande animo del donatore, non della picciolezza del dono resterà appagata, e per fine humilissimamente, la riverisco.

 

Questa dedica si deve considerare come un autentico moto dell’animo di Onofrio, che dovette essere tra i precettori del giovane principe, rimasto orfano di padre a soli otto anni.

Essa rappresenta anche una sintesi di poche righe del contenuto dell’opera, l’avventura del Cavaliere della Rosa di cui secondo un topos letterario si invita il giovane signore a piangere le sventure ricordando che "è attributo inseparabile delli Prencipi suoi pari il commiserare le sciagure di chi geme depresso sotto ruota di tempestosa Fortuna".

In realtà la lettera chiarisce le motivazioni con cui l’opera stessa è concepita, come un particolare tipo di romanzo di formazione il cui contenuto risulta perciò funzionale alla dedica fatta al giovane principe.

 

Capitolo III

 

Altre forme di scrittura e la giunta al romanzo: temi e problemi

 

 

Le Ruote dell’Universo, in cui compendiosamente si descrivono le cose celesti e sublunari.

 

Le ultime opere che prendiamo in esame sono Le Ruote dell’Universo, in cui compendiosamente si descrivono le cose celesti e sublunari del 1646, e Il Cavalier de la Rosa, overo agiunta a le gare de’ disperati, di cui furono stampate due diverse edizioni nel 1660 e nel 1663. Le due opere, oltre ad essere le uniche non drammatiche dell’intera produzione sin a noi pervenute, sono anche le uniche, assieme alle Stravaganze d’Amore e d’Amicizia, ad essere state composte in prosa.

Lo sviluppo dello stile narrativo contribuisce a determinare un netto divario con lo stile precedente dell’autore, che si fa più asciutto e meno problematico nella affannosa ricerca retorica della parola estrosa, con un apporto maggiormente critico nell’uso delle fonti, che inevitabilmente segnano la materia trattata.

Della prima opera – che per comodità indicheremo solo come Le ruote dell’universo – si erano perse le tracce dopo che Benedetto Croce nel citato articolo su Onofrio Giliberto e del suo Convitato di Pietra (B. Croce, art. cit., Bari 1936) ne aveva dato notizia. Egli, però, non indicava né se l’opera fosse in suo possesso, né in quale biblioteca si trovasse. Essa fu casualmente da me individuata nella "Biblioteca Nazionale Sagarriga-Visconti Volpi" di Bari con collocazione 112-B-2.

Questa copia proviene, probabilmente da uno dei fondi più antichi della biblioteca, forse dal "Fondo Cotugno", in cui sono contenute anche altre numerose pubblicazioni di carattere scientifico. Quasi tutti i testi acquisiti dal fondo recano un timbro di appartenenza, ma il testo del Giliberto ne è privo; non è da escludere però, che come altri, esso sia entrato nella biblioteca in momenti differenti, rispetto all’intero corpus del fondo. Tutto questo non è stato possibile accertarlo, poiché non ci è stato permesso consultare l’inventario originario e completo del fondo in questione, o altri documenti d’archivio che spieghino da dove tale opera provenisse prima di entrare nella Biblioteca Nazionale di Bari.

Sempre per lo stesso motivo non è stato possibile recuperare una qualsiasi, seppure parziale, storia della tradizione del Le Ruote dell’universo, che avrebbe un grande valore non solo dal punto di vista della critica testuale, ma soprattutto, in questo caso specifico, per comprendere chi fosse davvero il pubblico a cui era destinata questa singolare produzione, che, come altre del Giliberto, risulta assai difficile da collocare in un preciso filone di studio.

Quello da me consultato è comunque, quasi certamente lo stesso esemplare letto da Benedetto Croce, il quale sosteneva che la copia da lui visionata fosse unica superstite, ed a proposito di questa parla di uno dei libri più noiosi che siano mai stati scritti, ribadendo in più parti il suo grave giudizio di discredito.

È chiaro che ci troviamo di fronte ad un’opera scientifica, almeno nelle intenzioni dell’autore, e che certamente mostra l’abitudine a far risalire tutti i fenomeni di carattere fisico ad eventi od interventi sovrannaturali. Per questo la lettura del testo può risultare tediosa se affrontata in chiave scientifica.

L’importanza di questa composizione è soprattutto strumentale. Essa può servire in primo luogo per ricostruire il tipo di fonti che caratterizzano l’intera produzione gilibertiana, con l’effettiva presenza e ricezione dei classici latini quali Cicerone, Seneca, Plinio, probabilmente Quintiliano, e di Dante di cui viene presa in esame non solo la Divina Commedia, ma anche il Convivio ed il de Monarchia.

Con quest’opera del Giliberto viene, inoltre, chiarito il tipo di letture e di formazione dell’autore che dovettero essere di stampo teologico in un contesto storico-geografico in cui tale impianto serviva da filtro per qualsiasi tipo di letture, da quelle più strettamente etico-morali a quelle politiche e sociali, a quelle di svago.

Impressa in Napoli per i tipi di Novello de Bonis, l’opera si articola in diverse sezioni nelle quali si affrontano geograficamente le varie parti dell’Universo aristotelicamente inteso.

Vengono chiariti problemi di geografia infernale lasciati insoluti da Dante nella Commedia, e calcolate distanze con senno di scientificità, come ad esempio la distanza della sede infernale dalla superficie terrestre. Questo dato, come altri dello stesso genere, può farci oggi sorridere ma certamente doveva essere di grande interesse per quanti non potevano accettare su base morale le teorie scientifiche di Niccolò Copernico e di Galileo Galilei. La maniera di affrontare tali problemi di geografia è certamente nuova rispetto al modello dantesco ma anche messa a confronto con le posizioni assunte da altri scienziati che avevano illustrato e commentato l’ordine celeste in tempi più vicini al Giliberto.

L’uomo con le sue conoscenze, evitando la fenomenologia empirica intesa come verifica diretta dei fenomeni, calcola con i propri parametri le proporzioni in cui tale realtà ultramondana è collocata e le distanze che la separano dall’ecumene. Certo è che la riduzione di tali argomentazioni a parametri umani serve in primo luogo ad adeguare tale realtà a forme che l’intelletto umano può, se non dominare, almeno comprendere. Questo sforzo di riduzione attuato al fine di rendere possibile la comprensione è presente come nota peculiare in tutta l’opera. Il singula enumerare (Ho preso qui a prestito i due termini latini dall'interessante e presziosa opera che Gincarlo Roscioni dedicò al suo amico Carlo Emilio Gadda un lungo saggio tra gli altri La disarmonia prestabilita, Torino 1969) delle varie parti dell’universo prevede l’omnia circumspicere e quest’ultimo serve, oltre che a spingere verso la conoscenza di qualcosa che sarebbe di per se stesso, e in sé, inconoscibile, anche ad esorcizzare la paura ancestrale di realtà ultraterrene negative che in un’epoca di caccia alle streghe dovevano essere sentite come particolarmente presenti ed oppressive. Il progetto non vuole contraddire, alla fine, la volontà iniziale di rendere le realtà ultraterrena in tutte le sue infinite combinazioni, perché solo ‘l’irreale è incombinabile’. Gli andamenti descrittivi si confondono continuamente acuendo la percezione di una visione tra aulico e grottesco, tra una potenzialità tecnico-scientifica ed una puramente linguistica nel rapporto tra narratore e congetturante, con la visione sdoppiata dello stesso narratore orante mentre si accosta ai misteri del Paradiso. Tutto è supportato dallo sviluppo di uno spazio meccanico interno, che si apre in cerchi concentrici, con implicazioni intrinseche di significato, e attraverso situazioni in cui la parola, risultato di calcoli pseudo scientifici, risulta essere il centro dinamico e provvisorio di molteplici relazioni. Esse si ottengono in modo da arrivare a creare logicamente una sintassi che serva a verificare esternamente ciascuno dei sintagmi narrativi. Quello che compone l’universo per Onofrio è dunque la coincidenza d’innumerevoli fattori riconosciuti, ma e questo mi pare straordinario che possono essere tutti rappresentati. L’impossibilità di una descrizione davvero puntuale è comunque riconosciuta, perché la totalità vuole essere specificata ma non può esserlo completamente. Di essa si possono identificare e riconoscere le ‘cause postulatrici’, infatti, l’omnia circumspicere è un allargamento che non nasce dall’esigenza di dire tutto, ma di arrivare a quanto è più possibile riprodurre mediante l’immaginazione. In ogni caso la teoretica gilibertiana non riesce ad essere sempre fedele a se stessa. Il naturalismo di Onofrio non è qui fine a se stesso, come può capitare in altre opere, ma è circoscritto da ‘peculiari infiniti’, che rischiano di spegnere l’interesse per l’opera in una enumerazione quasi fangosa in forma di catalogo è di qui nasce il giudizio di Benedetto Croce.

Il prezzo da pagare è l’analisi dei dettagli che si rivela, proprio come la ricerca delle cause, "una tela di ragno che rischia d’imprigionare non la mosca, per cui è stata filata, ma il suo scrupoloso e improvvido costruttore, il quale di quando in quando insorgerà in veementi ribellioni contro la rete che da ogni parte lo serra, ma continuerà al tempo stesso a renderne le maglie sempre più fitte e impenetrabili: inseguendo la ricerca delle più remote e inafferrabili motivazioni, e proclamando attendibile solo la mappa che registri la totalità dei rilievi e degli accidenti." (Ho qui riportato C. Benedetti, La soggettività del racconto, Napoli 1984)

Si è detto che il principale modello seguito dal Giliberto nel caso di quest’opera è la Commedia di Dante. Ma "se la disposione progressiva degli episodi della Commedia segue la logica dottrinale richiesta dal poema allegorico-didattico" (F. Tateo, Simmetrie dantesche, Bari 2000), questa stessa attenzione allegorica è disattesa ne Le Ruote del universo, a tutto vantaggio della spinta didascalica e ‘scientifica’. La prima è qui, certamente, preponderante e si innesta su di una solida base di conoscenze erudite e di approfondimenti propri in questo caso della osservazione guidata della natura e dei fenomeni naturali. Dallo studio ornitologico alla botanica, ai movimenti dei pesci, ogni conoscenza scientifica è utilizzata affinché rientri nel grande progetto di assegnare aristotelicamente ad ogni elemento naturale un suo ambito, in modo da far rientrare, con la tecnica della dispositio, sapientemente ed iperbolicamente applicata, tutti gli ambiti-regni, fino alla più esatta suddivisione in ruote. In realtà la denominazione ruote che potrebbe avere innumerevoli ascendenti, non trova una autentica motivazione se non nella concretizzazione e banalizzazione della reminiscenza dantesca degli angeli che spingono i cieli sotto forma di ruote.

Non bisogna mancare, tuttavia, di osservare come accanto all’impianto scientifico, ed a quello morale e didascalico – che nulla ha di allegorico – vi è anche un forte richiamo alla previsione dei fenomeni naturali. In questo caso non vi è nulla di eccepibile rispetto alla ortodossia cattolica, in quanto la previsione è ottenuta attraverso lo studio della natura iuxta propria principia (Prendo qui solo a prestito parte del titolo dell’opera di Bernardino Telesio). Infatti, Onofrio sottolinea più volte – e credo senza secondi fini – come la Divina Volontà sia l’unica in grado di disporre della conoscenza delle cose e che nessuna possibilità oggettiva di divinazione è data all’uomo. È questo il caso, ad esempio, del calcolo della durata del mondo, per cui egli commenta che qualsiasi calcolo resta quantomai fittizio, non prima però di aver esposto alcune teorie di cui ha sentito parlare. Ad ogni buon conto tale testo fu frainteso da Antonio Graziani (Graziani A. Memoria del primicerio D. Giovan Sabato Iuliani e di alcuni buoni cittadini di Solofra, Avellino 1889) che sottolinea come il Giliberto abbia previsto il passaggio di una cometa portatrice di cattivi presagi e come non si sia sbagliato nel calcolo della data del passaggio di questa. Graziani metteva però in risalto, l’opera di divinazione relativa ai presagi e scambiava il Giliberto per un valente matematico, dove per matematico poteva essere inteso l’infamante giudizio di praticante della astrologia. Questa posizione, probabilmente diede adito a considerare Onofrio un don Ferrante, fra i tanti eruditi del Seicento.

 

Il Cavalier de la Rosa, overo agiunta a le gare de’ disperati

 

Aspetto di notevole interesse della produzione gilibertiana appare, infine, il romanzo Il Cavalier de la Rosa overo aggiunta a le gare de’ disperati, stampato per la prima volta a Napoli da Novello de Bonis nel 1660 e una seconda volta a Venezia nel 1663.

Allo stato delle nostre conoscenze non possiamo effettivamente dire come mai l’opera del Giliberto sia stata ristampata a Venezia, ma possiamo fare due ipotesi. Innanzitutto Venezia rappresentava, forse seconda per importanza solo a Genova, uno dei centri italiani di maggiore sviluppo, stampa e diffusione del genere del romanzo e soprattutto di quello che non sviluppava temi picareschi provenienti dalla Spagna. Per questo stesso motivo era poco probabile che anche una seconda edizione riveduta e accresciuta potesse essere stampata a Napoli, centro che non ebbe mai tra le sue peculiarità letterarie il romanzo e che nel breve periodo in cui fu interessata dallo sviluppo di questo genere ne sfruttò soprattutto le caratteristiche più vicine al gusto spagnolo, come hanno dimostrato gli studi critici e bibliografici condotti da Albert Mancini (Mancini A. N., "Il romanzo del Seicento. Saggio di bibliografia (prima parte)", in Studi secenteschi, XI, 1970. id, "Il romanzo del Seicento. Saggio di bibliografia (seconda parte)", in Studi secenteschi, XII, 1971. id., Romanzi e romanzieri del Seicento, Napoli 1981).

La seconda ipotesi ci arriva da un fortunoso riscontro. Alla fine del romanzo è posto l’elenco dei Libri Volgari, Romanzi, e Belle Lettere, che si trovano, appresso il Turrini.

In esso si trovano citate Le gare de’ disperati col Rosmindo ed altre numerose di Ambrogio Marini quali il Calloandro fedele ed il Calloandro Smascherato. Niente di più facile che lo stesso editore abbia voluto stampare anche le variazioni che il Giliberto aveva compiuto partendo dallo stesso testo. Questo dato ci viene confermato da una interessante nota esplicativa dello stesso Mancini, che considera il lavoro del Giliberto come un accrescimento delle Gare del Marini, e queste ultime quali derivazione di un precedente filone argomentativo di romanzi picareschi spagnoli (id., Romanzi e romanzieri del Seicento, Napoli 1981).

Ma torniamo al Cavalier de la rosa. Le due edizioni presentano alcune differenze di carattere stilistico oltre che naturalmente dal punto di vista grafico, ma per opportunità non mi soffermerò qui su questo aspetto, limitandomi a dire che esse sono presenti soprattutto in alcune righe dell’incipit, e furono probabilmente attuate dallo stesso autore nel tentativo di rendere meno ‘napoletana-solofrana’, e più raffinata la lingua della composizione che di per sé, in realtà, non presentava particolare eccessi dialettali o gergali.

Dal punto di vista storico-critico, si tratta di un’opera che tende ad accostare il genere della trattatistica politica a quello, più ameno, e largamente di moda in quegli anni, del romanzo. L’opera potrebbe essere tra i primi tentativi di romanzo di formazione.

Non possiamo ben dire a chi sia rivolta l’opera di formazione, se al giovane principe Orsini al quale è dedicata la composizione (Vedi Capitolo I " le lettere di dedica"), oppure, se il romanzo abbia una valenza politica e sociale e per questo sia indirizzato – andando oltre la lettera di dedica – alle classi solofrane economicamente emergenti. In quest’ultimo caso a doversi ‘edificare’ sarebbe il borghese, ad esempio il ricco commerciante di pelli, colui che tenta la scalata della società. Come Il Cavaliere de la rosa diventa nobile per meriti acquisiti nei confronti del re Ricando, così il commerciante solofrano, ormai borghese, ha approfittato del momento di vacanza del potere causato dalla debolezza dinastica degli Orsini, ed è diventato sempre più forte e incontrastato all’interno delle istituzioni della città. Il riferimento alla cavalleria sarebbe in realtà una sorta di metafora per indicare il tentativo di autolegittimazione da parte delle classi emergenti. Così anche l’estraneità territoriale del cavaliere al suo nuovo regno, rappresenterebbe una forma di differenziazione socio-politica dello stesso rispetto al contesto politico precedente. In questo caso Onofrio avrebbe sfruttato l’opportunità di educare il rozzo mercante, la cui ascesa l’autore comprendeva essere inevitabile, benché a malincuore rispetto alla propria posizione politica.

Nel caso in cui l’opera fosse stata rivolta al giovane don Pietro Francesco Orsini principe di Solofra e Galluccio, duca di Gravina, conte di Muro, l’autore avrebbe ricercato – ed è forse questa l’ipotesi più plausibile – la strada di educare sin da piccolo il futuro feudatario. Per sua sfortuna però Pietro Francesco, si fece domenicano e fu poi eletto papa col nome di Benedetto XIII, e beffa della sorte, suo fratello Domenico divenuto feudatario di Solofra resse il feudo commettendo ogni tipo di sopruso e prepotenza. (Si veda il Capitolo I "Il contesto storico e geografico").

In ogni caso il Giliberto costruisce la narrazione seguendo i canoni del romanzo dell’epoca e la diffusione mirata che questo aveva.

Ambienta il suo racconto al termine di una non chiara visione onirica dove è addirittura in discussione il rapporto fra accadimenti reali e sogno, da cui sembra dipanarsi il racconto vero e proprio secondo un preciso gusto o stilema dell’autore che si può riscontrare anche nelle prime pagine di Vita e Morte di san Rocco ed anche in ossequio al modello che stava seguendo: Le gare de’ disperati poste in appendice a Il Calloandro fedele di Ambrogio Marini.

Al di là di queste notizie è interessante notare come l’utilizzo della forma del romanzo consenta al Giliberto di evitare una serie di problematiche quali la discussione intorno alla religione cristiana ed il ricorso ad una superficiale e statalistica idea del divino, come dovere ed abitudine, che rientra anche nelle prerogative del sovrano e delle classi dirigenti. La posizione fantastica e atemporale consente inoltre un ricorso a esempi di carattere filosofico e morale circa la maniera o le maniere di reggere lo stato senza dovere incorrere in discussioni circa una presa di posizione sulle reali e concrete necessità economiche e sociali.

Egli insomma può permettersi con l’impiego di questo genere letterario, di affrontare in maniera quasi divulgativa una serie di occorrenze etiche sulla ragion di stato, lascito della più ampia stagione umanistica napoletana ed italiana in genere, senza il timore di essere chiamato a rendere conto in una sede culturale della scarsa originalità con cui affrontava il tema della istitutio principis con le sue varianti.

In contrapposizione al discorso del Giliberto, l’opera del Marini riassumeva "pateticamente, come in una sorta di testamento letterario dell’autore, i caratteri della sua opera" (E. Raimondi, Trattatisti e narratori del seicento, Napoli 1660), che come sottolinea Ezio Raimondi, si reggeva e finiva per consumarsi sui propri limiti in modo da "vivere qualche ora al giorno" e "tra castelli in aria". Onofrio conferisce, invece, al Cavalier de la rosa overo aggiunta a le gare de’ disperati un più ampio respiro fin dall’inizio. È certo che il modello offerto dal Marini doveva essere assai presente, ma al personaggio sempre in ombra del Cavalier della Morte disegnato dal suo predecessore, Onofrio Giliberto contrappone il Cavalier della Rosa che è visto, e vede il mondo da più parti: una storica e politica, ed una personale e affettiva. Muove, infatti, da una contrastante tensione morale tra le necessità della vita pubblica e quelle della sfera privata, perché nasce da qualcosa di indicibilmente concreto, come gli ufficii nei confronti dello stato, e quelli che l’amore per quanto libertario impone alla vita di coppia.

Il metodo di scrittura apparentemente pesante, con brani narrativi intervallati da lunghe riflessioni sull’etica del buon governo, risente della lezione di propedeuticità offertagli dal periodo vissuto a Napoli negli anni della formazione, che dovettero essere gli stessi dei moti masanelliani e della repressione sfociata in pubblici supplizi.

Il giovane Onofrio, che proprio negli anni della rivolta completava i sui studi universitari di diritto, dovette confrontare quanto appreso nelle aule universitarie con una realtà di repressione, seguita al malessere costante, che in tutta la sua durezza si rifletteva a pieno nel sangue, nel putrido, nell’annientamento, nelle pubbliche torture alle quali venivano condannati i rivoltosi. Un panorama questo destinato a cambiare per sempre l’immaginario collettivo di una intera generazione di intellettuali.

Non bisogna, però, credere che quello di Onofrio sia un punto di vista di simpatia verso quei casi della storia napoletana in cui la lotta antispagnola si era fatta più forte, in una sorta di sotteso irredentismo napoletano giustificato dal cattivo comportamento di coloro che reggevano le sorti dello stato, ma si tratterebbe solo di una reazione emozionale particolarmente interiorizzata soprattutto perché risalente agli anni giovanili. Il Giliberto, infatti, converte questa emozione in un invito alla pietas e alla moderatio, indirizzato al lettore dell’opera.

Il buon governate deve, dunque, in primo luogo non estremizzare i conflitti, non mettere i sudditi nella necessità di ribellarsi, e per farlo non si deve comportare come hanno fatto molti in passato rubando e defraudando i sudditi, sia che si tratti del popolo, sia che si tratti dell’oligarchia. Per attuare questo progetto il sovrano non deve recepire ed incentivare la delazione.

La narrazione delle storie che compongono la complicatissima trama del romanzo si sviluppa in vario modo. Spesso attraverso uno strano ‘passaparola’ e dialoghi fra i personaggi, altre volte è invece proprio il re saggio e giusto che espone al Cavaliere de la Rosa i principii, quasi in un racconto di fatti lontani nella memoria ma assai presenti nella effettualità del tempo, sicché, in quest’opera i contenuti morali ben si fondono con la trama della narrazione.

Numerose sono le digressioni di carattere squisitamente morale sulla figura del principe e sui suoi usi e costumi. Interessante è anche il passo in cui il re racconta al Cavalier della Rosa di quei principi che vogliono spogliare i vassalli dei loro averi, e sottrarne le ricchezze col pretesto che a loro si deve ‘ubbidienza’. Sembra qui chiaro il riferimento alla congiura dei baroni del regno contro re Ferrante che aveva fatto in modo da sottrarre le ingenti ricchezze, derivanti dalla grande flotta mercantile, al conte di Sarno Franceso Coppola. Le opere drammatiche del Giliberto fino al romanzo in prosa sembrano quasi un pretesto per ricercare nuove forme e soluzioni, non passive ma attive che servissero ad evitare il ripetersi di ciò che era accaduto nel recente quanto stigmatizzato passato.

Egli mostrò in tutte le sue opere a noi pervenute il bisogno di sostenere o confutare principi giuridici e loro applicazioni, la maggior parte dei quali riguardavano la gestione dello stato ed i comportamenti del Prencipe dibattuto fra res publica e res privata. Fonti del dibattito sembrano essere le stratificazioni di quasi due secoli di machiavellismo, e molto più concretamente le si possono ricercare nelle classiche esercitazioni di dialettica e retorica condotte nelle aule universitarie.

A questo punto ci si potrebbe domandare perché venga impiegato il romanzo e non la ‘trattatistica’ dialogica sul modello ciceroniano filtrata attraverso i grandi esempi dell’Umanesimo. A questa domanda si potrebbe rispondere che semplicemente non andava di moda, il che sarebbe corretto in parte, ma sicuramente nel caso di Onofrio assai banale. C’erano anche da tenere presenti le temperie culturali napoletane di quegli anni in cui forme rivisitate del Tasso e del Marino offrivano ottimi spunti ma anche modelli dai quali era quasi impossibile prescindere. La forma del romanzo, come in precedenza quella rivisitata del dramma, doveva servire a scorporare ed alleggerire la gravità dei temi espressi rendendo visibili e fortemente riconoscibili i grandi ambiti della tradizione presi in esame e considerati più come singoli exempla non più sufficienti ad affrontare indenni il passaggio generazionale. Questo serviva indubbiamente a dire in forme nuove ed accettabili dal gusto seicentesco i temi lungamente elaborati dalla tradizione classica ed umanistica. Questo processo avveniva chiaramente ma non poteva essere altrimenti indifferente alla coercizione dei giochi della corte napoletana.

Per spiegarci tutto questo occorre considerare ancora una volta l’importanza delle conoscenze culturali di Onofrio Giliberto e la sua reale intenzione pedagogica che come mai in precedenza si riflette nel testo. Per questo occorre fare una nuova digressione.

Nel 1581 Claudio Acquaviva (Claudio Aquaviva fu il quarto Generale della compagnia di Gesù) fu eletto preposto generale della Compagnia di Gesù. In quello stesso tempo Martino Fornari (M. Fornari, Institutio confessariorum, ea continens, quae ad praxim audiendi confessiones pertinent, Roma 1606) gesuita, docente a Padova, divenne teologo del patriarca di Aquileia.

Il primo si preoccupò di approntare per la stampa il manuale sulla reggenza dell’ordine composto dal confratello e nella funzione di preposto generale, concesse facoltà di stampare l’opera del Fornari garantendola come rispondente alla linea teologico-morale della Compagnia e strumento proprio dei confessori, ben conosciuto perché usato durante gli esercizi spirituali, quando il testo era ancora manoscritto.

Altri manuali per i confessori erano stati scritti, altri se ne scrissero dopo l’Institutio del Fornari. Nessuno di quelli fu però imposto con tanta accorta programmazione.

Fu stampato in dodicesimo, in sedicesimo, ed in formati approntati su misura, quindi come libricino tascabile. Si pensò di evidenziare gli argomenti a margine delle pagine, di pubblicare un doppio indice: quello dettagliato dei libri, trattati e dei capitoli, e l’altro, Index rerum memorabilium, costituito da circa duecento voci.

L’opera doveva essere la guida per tutti i confessori della Compagnia, ma anche per quelli degli altri ordini, per i secolari e, in più, doveva essere utile ai penitenti, come si ricava dal frontespizio e dall'introduzione dell'autore. Fu scritta in latino perché fosse universalmente intesa. Edita nel 1606 a Roma, nel 1607 ebbe una prima ristampa nella stessa città e altre ristampe a Ingolstadt, a Cracovia, a Colonia, a Parigi.

L’opera scritta dal Fornari e diffusa dall’Acquaviva, quasi a completamento dell’impegno imposto all’ordine dal Fondatore vide ulteriori ristampe.

Oggi si è tentati di riproporla per meglio verificare quanto essa abbia influito sulla formazione delle coscienze dei cattolici di tutta Europa, ma durante gli anni in cui il Giliberto operò essa dovette essere impiegata anche a fini pedagogici di stampo laicale. Onofrio che la trovò nella biblioteca di un suo cugino, padre di mons. Costantino Vigilante (Costantino Vigilante (1685-1754) fu vescovo di Caiazzo, e come confessore del re Carlo III di Borbone partecipò al moto innovatore messo in atto da questi. Il Vigilante apparteneva ad un ceppo solofrano che era una forza economica di grande importanza nella società locale. Laureato in utroque jure all’Università di Napoli ebbe un’ampia educazione classica, si interessò in modo preminente della Francia, nazione di cui studiò la lingua e la storia specie quella delle lotte religiose, approfondì i problemi del Regno di Napoli, studiò medicina e geografia. Queste notizie e altre di seguito sono dedotte dallo studio dei libri della sua biblioteca di Solofra e dal loro inventario di prossima pubblicazione), dovette adoperare questo testo sia come manuale per la direzione della coscienza, sia per estrarne principi di mitezza nell’esercizio della res publica riportati nel romanzo.

È importante sottolineare che nell’esame dei comportamenti il Fornari indaga fino in fondo la società dei suoi tempi e divide i direttori spirituali in varie classi. Alla prima classe assegna le guide dei sovrani e dei religiosi; alla seconda i custodi del diritto, dai giudici ai notari; alla terza tutti gli altri, sposi, genitori, scolari; all’ultima i mercanti e i militari.

I sovrani e i principi andavano consigliati a non essere superbi, avari, ingiusti, a non dichiarare guerre se non per causa legittima, a non esigere tributi non consentiti, a non esercitare monopoli, a non emanare leggi ingiuste né corrompere i giudici. I confessori però non dovevano mai inserirsi nelle decisioni di stato. In questo capitolo si elude la questione spinosissima del regicidio che fu causa, forse, dell’uscita dalla Compagnia, nel 1581, di Giovanni Botero, autore della Ragione di stato.

I giudici dovevano essere onesti, come quelli tebani che Plutarco dice senza le mani per non dovere accettare offerte; dovevano essere clementi più che severi, accettare gli appelli giusti e visitare le carceri per accertarsi della condizione umana in cui erano tenuti i condannati. Gli avvocati non dovevano difendere cause ingiuste né dovevano perdere quelle giuste per negligenza, per accordo con gli avversari, per vizio dei testimoni o per altri illeciti. Non dovevano rifiutarsi di difendere i poveri. I notari dovevano essere diligenti conservatori degli atti, non dovevano stipulare per gli usurai né raccogliere le ultime volontà degli incapaci.

I docenti dovevano saper bene insegnare, osservare i programmi e distinguere tra studio e curiosità, non dovevano rilasciare diplomi ai non meritevoli e insegnare scienze false. Dovevano coniugare sempre la scienza, ossia il sapere, con le virtù senza le quali la prima sarebbe stata come una spada nelle mani di un pazzo. I medici dovevano avere scienza e pratica. Dovevano visitare e studiare l’ammalato e il male, non dovevano protrarre a lungo la malattia per fine di lucro, dovevano salvare sempre la vita, impedire quindi gli aborti, e assistere i poveri.

Gli sposi non dovevano consumare il matrimonio prima della benedizione, dovevano astenersi dall’atto procreativo durante le malattie, in caso di pericolo d’aborto e prima della comunione; dovevano dare ai figli il nome dei santi protettori, non dovevano parlare in loro presenza di argomenti scandalosi né essere mai sboccati, perché ci si doveva considerare sempre coram Deo et Angelis. La donna-moglie doveva essere diligente e preparata nell’amministrazione domestica.

I militari dovevano combattere guerre giuste, portare il cero dell’Agnus Dei, confessarsi prima della battaglia e non essere bestemmiatori, rissosi, giocatori, rapinatori, ladri e lussuriosi. I mercanti non dovevano frodare sui prezzi, pesi e misure, né spacciare moneta falsa o praticare cambi lucrosi. In tempi di carestia non dovevano nascondere le vettovaglie. Dovevano pagare la giusta gabella, non praticare l’usura, non commerciare merce rubata.

Oltre ogni legge civile, quella che si cercava di radicare nelle coscienze, poneva limiti a ogni straripamento individuale o collettivo capace di rovinose conseguenze nella societas cristiana dell’Europa cattolica nell’età della Riforma.

Onofrio Giliberto riprendendo l’opera del Fornari fa propri i suoi contenuti per tutte le categorie considerate, lasciando insoluto il dibattito se anche i governanti debbano sottostare alle norme disposte per la gente comune, una volta dismessi i paludamenti e le pompe degli apparati.

Dobbiamo infine ricordare per dovere di cronaca una nota del notaio Vito Antonio Grassi che operò a Solofra dal 1701 al 1722, che nei suoi Genealogie e ragguagli Istorici del antico e moderno stato di Solofra e sua Universitas (Vedi Capitolo I "Le lettere di dedica") così scrive de Il cavalier de la rosa overo aggiunta a le gare de’ disperati:

E soprattuto [bisogna ricordare] la composizione nobile fatta da lui [Onofrio Giliberto] con questo titolo il cavalier de la rosa seu aggiunta alle gare de disperati che diede alla luce nel 1660, dal quale si apprende il modo del buongoverno, scritto tutto enigmatico.

Questo parere è assai interessante per comprendere il giudizio verso quest’opera espresso da un contemporaneo che ne riconosce l’importanza ed il reale significato pedagogico.

 

Capitolo IV

Alla ricerca de Il convitato di pietra

 

In conclusione mi sembra opportuno spendere qualche parola sul grande assente di questo studio, Il Convitato di Pietra, opera per il quale ancora oggi Onofrio Giliberto è noto a qualche studioso.

Non sappiamo quasi nulla di quest’opera assai famosa del Giliberto, ma possiamo ricostruirne la presenza e le tracce almeno fino alla seconda metà del Settecento, quando continuavano a circolare due edizioni tradotte in francese e numerose ristampe bolognesi.

Originariamente, secondo Benedetto Croce, questo Convitato doveva essere una traduzione o riadattamento del Burlador de Seviglia di Tirso de Molina. Non sappiamo nulla circa l’effettivo contenuto dell’opera, ma è molto probabile che il Giliberto sia intervenuto con variazioni sul tema facendo risaltare gli aspetti etici e la dissolutezza di don Giovanni, magari con il ricorso ad elementi magici, visioni oniriche e battaglie tra gerarchie diaboliche ed angeliche.

Al potenziale impiego di questi espedienti letterari ci fa pensare, oltre lo stile stesso dell’autore, anche una importante testimonianza di Andrea Perrucci nella ‘lettera al lettore’ anteposta al suo Convitato di Pietra del 1690:

AMICO LETTORE

So molto bene che non ti giunge nuovo il titolo di quest'opera tragica; ma se già l'hai contemplata nuda, accetta di gradirla vestita di qualche ornamento, se è vero che:

"Spesso un bel manto accresce la bellezza".

Quest'opera è nata sotto un aspetto di pianeti così benigni che al suo solo nome la gente è corsa ad ammirarne le meraviglie; e che meraviglie, se in essa si trovano pietre parlanti. Poiché il nuovo è ciò che piace di più, quest'opera ti si presenta davanti con nuove gale. Ammirane la bellezza come una nuda statua; e ricordati che anche le statue degli antichi furono adornate di vesti preziose. Se l'abito di questa non sarà prezioso, non sarà stata una mancanza di chi l'ha vestita, poiché egli ha provveduto ad abbellirla con diversi gioielli presi in prestito dagli erari di più ingegni. Potrebbe essere che il suo giudizio si sia ingannato, ma ad ogni modo l'ha fatto per farti piacere.

Non spaventarti vedendo il numero dei personaggi, poiché un attore rappresentandone molti, potrà far sì che l'opera venga rappresentata da non più di otto attori, essendo le parti compatibili: alcuni attori che recitano nel primo atto, non comparendo più possono recitare altre parti nel secondo e nel terzo atto, come potrai ben renderti conto rileggendo il testo. Non mi resta da dire altro; ti chiedo solo di compatire i miei errori, anche se è superfluo ricordartelo, se sei virtuoso. Così come saprai capire da solo che le parole di Fato, Destino e altre, sono dettami di un abbellimento poetico e non dogmi di un'anima cattolica, la quale scrive per diletto le opere di finzione in qualità di poeta, ma sente come cattolico la verità della sua sacrosanta fede. Vivi lieto.( Enrico Preudarca(alias Andrea Perrucci), Il convitato di pietra, in Napoli per Giovan Francesco Paci M.DCXC, ad istanza di Francesco Massari.)

Osserva Roberto De Simone (Roberto De Simone, direttore d’orchestra e compositore napoletano, è stato il curatore per la casa editrice Einuadi di molti testi della tradizione napoletana. Ha curato tra gli altri Il Convitato di Pietra di Andrea Perrucci. ) nell’introduzione a il Convitato di Pietra del Perrucci:

In realtà il Perrucci da esperto conoscitore di lazzi e tirate, rivestì precedenti canovacci dell’Arte con battute che accolse dalla tradizione orale dei comici come egli dichiara all’amico lettore:

So molto bene che non ti giunge nuovo il titolo di quest'opera tragica sott’occhio; ma se già la contemplasti nuda, degnati di gradirla vestita di qualche ornamento, s’egli è vero che spesso accresce la beltà un bel manto (Rispetto al testo citato in precedenza quello riportato da De Simone presenta numerose varianti, ma non mi sembra qui opportuno aprire una discussione sulla loro tipologia o sulla preferibilità di una lezione rispetto ad una altra. Per questo ho riportato qui la citazione completa.). È probabile che egli intendesse qui riferirsi ad un Convitato di pietra di Onofrio da Solofra, stampato in Napoli, per le edizioni di Francesco Savio, opera da ritenersi perduta, di cui abbiamo notizia da Benedetto Croce.

Probabilmente l’opera drammatica del nostro autore non doveva avere, almeno in origine, necessità di essere messa in scena, perché essa era del tutto completa ed efficace già alla lettura e probabilmente non aveva quelle caratteristiche di rappresentabilità che un istrione come il Perrucci andava ricercando. Con questo non si vuole togliere merito all’opera di quest’ultimo ma solo porre su due differenti piani, come è giusto, la configurazione letteraria del dramma rispetto alla pur meritoria opera perrucciana di voler dare leggibilità e dignità ai canovacci che dall’opera letteraria partivano. Mi sembra inoltre chiaro – e superfluo da sottolineare – che i canovacci del convitato di pietra, così numerosi in area napoletana durante il corso del Seicento, da richiedere l’ordinamento realizzato dal Perrucci, dovevano essere stati tutti o quasi tutti attinti dall’opera del Giliberto. Infatti, anche se non si vuole che essa sia la prima traduzione o adattamento in italiano del dramma di Tirso, e si pretende in base a congetture di parte che essa sia successiva a quella del Cicognini o pseudo-Cicognini (Benedetto Croce, infatti, non attribuisce Il convitato di pietra stampato a Bologna nel 1640 a Giacinto Andrea Cicognini, ma ad un autore da lui indicato come pseudo-Cicognini) e magari copiata da questa, è indubitabile che in area napoletana essa sia la prima con questo nome e di questo argomento, anche tenendo conto del fatto che durante la seconda metà del Seicento nessuna delle compagnie di comici spagnoli portò in scena a Napoli un convitato di pietra.

Ma se questa ricostruzione ci può servire a ridare importanza all’opera del Giliberto, che fu letta nel corso del tempo e presa a modello da Molière e dalla drammaturgia francese oltre che da Goldoni, poco ci aiuta a ritrovare l’opera perduta. Tante piccole testimonianze che giungono da varie fonti non ci dicono nulla di concreto e non abbiamo neppure un frammento o una citazione diretta sulla quale poter discutere, anzi quei pochi giudizi espressi non fanno che rendere sempre più problematica una qualsivoglia idea su quest’opera.

Uno di questi giudizi proviene dalla autorevole penna di Carlo Goldoni contenuta nella prefazione al suo Don Giovanni Tenorio, ovvero il dissoluto punito. Si tratta di un parere sulla differenza fra il testo di Onofrio Giliberto e quello di Giacinto Andrea Cicognini.

Goldoni nota, infatti, una minima differenza fra i due testi.

Vi è inoltre da ricordare, più di recente rispetto al Goldoni, l’opinione di Gendarme de Bévotte (A cura di G. Gendarme de Bévotte, Le festin de pierre avant Molière: textes publiés avec introduction, lexique et notes par G. Gendarme de Bevotte, Paris, 1907), del 1907:

"Rien, ni chez Tirso, ni chez Cicognini, n’a pur fournir à notre auteur l’idée du pélerin. Elle se trouvait certainement pour la primière fois dans le texte de Giliberto. Je n’ai pu découvrir celui-ci l’avait prise".

In realtà negli ultimi trent’anni sono riprese le ricerche del testo di Onofrio Giliberto, forse strumentali ad una migliore comprensione del Le festine de Pierre di Molière. Così Giovanni Macchia (Giovanni Macchia era nato a Trani nel 1912; di lui si ricordano molti scritti che hanno segnato un’epoca e nuovi percorsi per l’intera francesistica. Tra i suoi più importanti saggi ricordiamo Vita avventura e morte di Don Giovanni (1978) , Il mito di Parigi (1981), Il silenzio di Moliére (1985)), illustre francesista tranese recentemente scomparso, iniziò uno studio assai approfondito sulla figura di don Giovanni e sul suo mito. Dal più recente dei suoi più importanti lavori, Tra Don Giovanni e Don Rodrigo, stampato dalla casa editrice Adelphi nel 1989, traiamo questo importante contributo :

Il mito di Don Giovanni, dopo quasi tre secoli di florida esistenza, più di quello di Faust, è un mito moderno, nato dalla realtà e non dalla visionaria fantasia. […] Per secoli il mito di Don Giovanni prese il nome dal Convitato di pietra, da quella statua di marmo che con la sua mano gelida trascinava il grande peccatore all’inferno, tra il disordine di una tavola ricca di vini e di vivande. Era affidato solo a quel guastafeste l’incarico di rappresentare il fine edificante del dramma, che faceva, dopo gli spaventi, andar tutti a letto tranquilli. […] Con tutti i suoi vizi egli aveva in sé qualcosa di eroico, e quel pubblico popolare, lettore delle vecchie canzoni e dei poemi eroicomici, aveva bisogno di un eroe, fosse pure un eroe del male. La figura di Don Giovanni col tempo si ingrandì sempre di più. […] Fin dagli inizi il gesuita Tirso de Molina che nel suo Burlador aveva affrontato il tema della predestinazione e del libero arbitrio, liberò il titolo dall’immagine funesta di quel convitato (confinato nel sottotitolo), e situò in primo piano la figura del beffatore, beffatore delle donne, della morte e di Dio. E nel suo Don Giovanni Molière, che sul palcoscenico non amava vedere i cadaveri, finì col sopprimere dai personaggi il Commendatore, ucciso alcuni mesi prima (anche per rendere meno incredibile la vicenda), e nella scena del banchetto fece apparire la statua ma quasi per un distratto ossequio alla tradizione. Nel 1651, un grande attore della Compagnia dei Gelosi, Giovan Battista Andreini, si decise a restaurare dai tanti guasti subiti il Convitato di pietra, e gli dedicò un immenso poema drammatico che intitolò: Il nuovo risarcito Convitato di pietra. […] E, come Cervantes aveva fatto con Don Chisciotte e Tirso col suo Burlador, a Don Giovanni misero dietro un servo, creatore di lazzi e di variazioni buffonesche. Restarono famose le prodezze che nel suo Convitato eseguiva l’Arlecchino Domenico Biancolelli. Di questa grande tradizione comica neanche Mozart e Da Ponte vollero liberarsi. (Tratto da G. Macchia, Tra Don Giovanni e Don Rodrigo, Milano 1989)

Ma oltre a Giovanni Macchia, non molti studiosi italiani hanno approfondito il mito del Don Giovanni; così non ha fatto, invece, un intero filone di critica spagnola in cui si sono susseguiti almeno negli ultimi dieci anni numerosi studi su questo tema. Tra i più interessanti vi sono due studi di cui non ho trovato traduzione in Italiano e che qui riporto in una mia traduzione almeno parziale. In essi viene anche citato il nome di Onofrio Giliberto come autore di passaggio all’interno della storia della tradizione letteraria del cosidettodonjunismo’.

Il primo di questi dal titolo "Don Juan: mito e historia" è a firma Marcos Ricardo Barnatan (Marcos Ricardo Barnatan, editorialista e curatore della pagina culturale del quotidiano spagnolo El mundo, è inoltre tra i maggiori conoscitori di Luis Borges, di cui è stato anche tra i curatori dell’unica edizione autorizzata della opere) ed è un breve sunto critico dello sviluppo in epoca moderna del tema del ‘don Giovanni’:

Le avventure del leggendario seduttore sivigliano conosciusciuto come don Juan Tenorio, sono state un tema trattato dalla migliore letteratura universale. La storia di questo personaggio frivolo e cinico, simbolo dei piaceri leggeri e di una vita senza preoccupazioni abbandonata agli immediati desideri della carne, è servito da esempio per numerosi lavori teatrali di dignità letteraria nelle più svariate lingue.

Gli Spagnoli crearono una piece sulla sua origine sivigliana, ma la sua culla è stata sempre assai discussa, alcuni la pongono in Portogallo, altri in Italia, altri nella Germania medievale. Soggetto ubiquo e fantastico, è disegnato nel folclore e nei racconti popolari spagnoli, però non arriva ad interpretare un'opera letteraria, fino all’apparizione della commedia in tre atti di Tirso de Molina dal titolo il Burlador de Siviglia o el convidado de piedra del 1630.

Accompagnato dal suo fedele servitore Catalinon, don Juan seduce con inganni le signorine di Napoli, prima di andare a Siviglia dove, con abili strategie, si nasconde nella stanza di doña Anna, la giovane figlia del comandante Gonzalo de Ulloa. Le grida di Anna richiamano il padre che trova la morte nella spada libertina, non prima di maledire il suo assassino.

Ma la storia continua quando don Juan visita la tomba di don Gonzalo, e con animo di burla, invita a cena la statua. Qui si produce lo strano prodigio: la statua accorre all'invito e porta il peccatore con se all'inferno.

A questa curiosa mescolanza di comedia di cappa e spada e auto sacramental, seguirono le pieces italiane del Giliberto e di Andrea Cicognini (1650) che continuavano l'operato di Tirso, indurendo il carattere dell'eroe, e furono seguite da altre tragicommedie francesi, che le imitarono.

Alla stessa fonte si ispirò Molière che nel 1665 dava alle stampe il suo Don Giovanni o il convito di pietra, nel quale il nostro campione interpreta nuove avventure aggiungendo ai suoi vizi l'ipocrisia, e un vivere alla moda assumendo lo spirito del libero pensatore, e dotando di caretteristiche comiche alla pari Don Giovanni, e Sganarelle suo servo. E come una matrioska Thomas Corneille nel 1677 lo imita con versi francesi.

In Spagna, Tirso avrà i suoi primi imitatori in Antonio de Zamora che ebbe a rappresentare nel 1714 la sua commedia. Mentre in Italia Carlo Goldoni affronta le medesime tentazioni, con il suo Don giovanni, o il dissoluto punito. Più tardi il romanticismo tedesco riscatterà il mito nel romanzo Don Giovanni di Hoffmman, un libero rifacimento della nota opera don Giovanni di Mozart. E dobbiamo senz’altro nominare per dovere di cronaca l’opera del danese Helberg (1791-1860) che nel 1814 pubblicò in forma poetica il suo Don Juan, prima di giungere al poema burlesco di Lord Byron.

Il tema è stato sviluppato dal poeta inglese come una commedia cinica, condotta con totale naturalezza, abbandonando qualsiasi intento di demistificazione del personaggio o della sua impronta letteraria. Questo, a dire il vero, secondo una linea di tradizione assai consolidata nella letteratura inglese, formata da una parte dagli scrittori satirici, e dall’altra dagli umoristi del secolo XVIII.

È importante sottolineare tuttavia il cambio radicale dello scenario di azione: Don Juan nella penna di Byron viaggia attaverso le isole greche, si vede coinvolto in imprese con dei pirati, e venduto come schiavo a una sultana turca, giunge a San Pietroburgo dove è accolto nelle comprensive braccia di Caterina II, dalla quale è inviato in Inghilterra per compiere una missione politica.

La cristalizazzione del mito, continuando ancora attraveso molti scrittori passa per Pouchkine e Alessandro Dumas. Quest’ultimo appronta l’intero testo su Don Juan Tenorio de Zorrilla in ventuno giorni lo fa rappresentare per la prima volta nel 1844, e la ripete ritualmente nella notte dei defunti ricordando che in essa capita l’unica possibilità per la salvezza del peccatore grazie al cammino d’amore compiuto dalla novizia doña Inés. Il donjuanismo, del quale nella tradizione spagnola vi è un’eco tanto grande, è stato un fenomeno molto studiato da Gregorio Marañón che lo qualifica come infraviril, all’ispanista Maurice Mohlo, che considera questo mito indissolubilmente unito a quello di Don Quijote nella grande operazione propriamente spagnola di apporto all’immaginario collettivo della civiltà occidentale.

Il secondo articolo ‘Don Giovanni’ de Mozart. Mito e interpretación deldonjuanismomasculino, che sono riuscito a trovare solo su internet, non è disponibile a quanto pare – in Italia su supporto cartaceo – e porta la firma di Lucia D’Angelo.

Questo articolo se pur non riflette nello specifico la situazione del Convitato del Giliberto ben ci fa comprendere il terreno di attecchimento e l’impostazione psicologica del personaggio di don Giovanni quale uomo fuori da un preciso contesto temporale ma straordinario nella sua modernità.

Per problemi di lunghezza la traduzione dell’articolo non è da me riportata interamente; infatti, mi limito a proporre qui sotto solo una breve sezione di carattere introduttivo sulla psicologia del mito, non tanto sugli effetti quanto sui significati e sulle condizioni che hanno portato a stigmatizzarne la valenza, fino a fare di don Giovanni, il mito simbolo di una crisi dei rapporti interpersonali fra uomo e donna oggi. Per una più ampia fruizione del testo, riporto comunque l’originale in appendice:

"En el reino del hombre siempre tenemos la presencia de cierta impostura..." (J. Lacan)

È indiscutibile che la insistente ricerca dell’uomo di produrre l’incontro con la donna espressa, nella figura del "donjuanismo" maschile, ha attratto l’interesse, della psicanalisi dagli albori fino ad oggi come discorso che abbraccia per intero la sfera culturale.

Il mito di "Don Juan" l’imperterrito seduttore, sopravvive da tre secoli, ma ciò non ci vieta di provare ad interpretarne gli elementi stessi della condanna: egli infatti, non incontra la donna ma immagina di averla incontrata e inciampa inaspettatamente nel "convidado de piedra" che ne è il Padre. Tuttavia, tanto il mito quanto il "donjuanismo" maschile resistono nel nostro tempo, che non pare peraltro interessato alle avventure galanti, quanto piuttosto forse all’intento di distruggere i simboli maschili, dalle maschere agli abiti con i quali si possono vestire gli uomini, per sostenerne il richiamo alla "virilità", "genere" maschile e singolare nel tentativo di giungere all’incontro con l’altro sesso.

Lacan, dall’inizio dei suoi insegnamenti della psicanalisi ha messo in guardia dal disorientamento al quale si può essere esposti se si contribuisce a promuovere lo svincolamento tra il sesso e il genere, uscendo dalle coordinate di una definita identità sessuale, l’uomo e la donna, il maschile e il femminile, in una contemporaneità nella quale è evidente il declino della figura paterna all’interno della società occidentale. Ci invita, pertanto nella parte finale del suo seminario "La relación de objeto" (1956) a percorrere altre strade ed usa più precisamente per questo il mito di "Don Juan" e ad esso aggiunge una personale interpretazione del "donjuanismo" avvertendo che gli psicanalisti non si reclutano tra coloro che si abbandonano interamente alle "fluctuaciones" della moda in materia psicosessuale.[…]

Questa è la ragione per la quale crediamo opportuni i tentativi di sostenere l’interpretazione a cui è pervenuto Lacan del mito di "Don Juan", e più precisamente di quello che egli designa come "apice" del personaggio "Don Giovanni" (Mozart), quasi a dimostrare che la prospettiva psicoanalitica del "donjuanismo" non si disperde nelle necessità di definirne il gerere e la sua presupposta identità maschile; quello che veramente si sovverte e si radicalizza a partire dalla sua interpretazione circa il mito, e ciò che si produce in definitiva, è un cambio del genere del mito stesso.

 

 

 

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