STORIA DI S. AGATA

Casale di Serino poi insediamento autonomo, quindi frazione di Solofra.

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S. Agata è posta sulle prime falde e ai piedi dei monti Pergola e S. Marco tra i territori di Solofra (a sud e ad est), di Serino (a nord) e di Montoro (ad ovest).

Si formò nel periodo sannita intorno a Castelluccia che fu per quei pastori, che provenivano dalla valle Sabato, un importante punto di riferimento, perché da esso si controllava la strada che questi percorrevano per raggiungere la pianura dove andavano con le greggi d’inverno. I Sanniti si stanziarono nella conca solofrana tra la collina di starza, dove seppellirono i loro morti, il toro, dove ci fu un insediamento e Castelluccia, mentre usarono il greto del fiume come via per i loro spostamenti. Per questo motivo il fiume si chiamò nella zona di S. Agata rivus siccus, indicando la importante funzione di via che il corso d’acqua creava con i suoi straripamenti (tratturo transumantico fluviale). In questo periodo tutta la conca era già chiamata Solofra (un nome di origine sannita) mentre l’insediamento ebbe come punto di riferimento Abellinum (l’odierna Atripalda).

Quando i Romani sottomisero questo popolo occuparono anche la conca solofrana dove trasferirono i loro soldati. Essi trasformarono il tratturo sannita in via rotabile lungo la quale costruirono le taverne e le loro masserie (villae), come quella di tofola. L’insediamento romano avvenne soprattutto nella zona pianeggiante di S. Agata, appunto lungo la via che, attraversando tutta la pianura di Montoro, giungeva a Rota (poi S. Severino). Questa strada fu di grande importanza perché su di essa si svolgeva il traffico tra Salerno e Abellinum e fu chiamata via antica qui badit a Sancta Aghate. Lungo di essa si formarono i toponimi sferracavallo (si riferisce allo sforzo per salire sul passo), campo castello (si riferisce alla rocca di Castelluccia), fornaci (si riferisce all’abitudine dei romani di impiantare forni per la cottura dei mattoni accanto ai loro insediamenti), taverna dei pioppi (indica l’esistenza di questi posti di ristoro per i mercanti).

L’insediamento romano ai piedi di Castelluccia fu legato a quello di Montoro dove c’era il confine della colonia e dove fu trovata l’iscrizione col suo nome: Veneria (in onore di Venere), Livia (dal nome della moglie di Augusto che aveva ampliato l’insediamento), Alexandriana (ricorda l’ultimo insediamento di soldati orientali dell’imperatore Alessandro Severo). Durante questo periodo fu introdotto nella zona il culto al sole, che ancora oggi si ricorda nello stemma di Solofra e alla luna nella località lunara di Montoro e poi col Cristianesimo quello di S. Agata, che dette il nome a tutta la zona fino alla riva destra del fiume.

Quando cadde l’Impero romano (476) la colonia fu distrutta dagli Eruli, i quali combattettero nella pianura del Sarno una lunga e feroce guerra contro i Bizantini (535-555), durante la quale gli abitanti lasciarono le zone pianeggianti e si rifugiarono sulle falde dei monti in zone alte e più difese, mentre Abellinum fu completamente abbandonata. La conca solofrana, per i suoi naturali elementi difensivi, non perdette l’insediamento anzi se ne formarono due Le Cortine e Cortina del cerro. Le cortine furono infatti insediamenti altomedioevali, le cui case avevano la stessa tipologia delle villae romane della pianura che erano state abbandonate e cioè un cortile centrale su cui si affacciavano gli ambienti abitati e al quale si accedeva da un’unica entrata, che poteva essere facilmente chiusa e isolata trasformando la cortina in un luogo difeso. In più si trovavano in zone alte con vie di accesso strette e protette dalle postazioni di Castelluccia e di Chiancarola. Inoltre il tratto iniziale della pianura di Montoro, la chiusa, fu invaso dalle acque straripate creando una zona paludosa che fu un’ulteriore difesa per gli abitanti della conca contro il pericolo che giungeva dalla pianura.

La vita nella conca solofrana dunque continuò in questi arroccamenti e non si estinse come avvenne in molti altri territori romani in seguito alla invasioni. Quando finì il pericolo barbarico da Salerno giunsero i monaci bizantini per portare conforto religioso alle popolazioni e si stabilirono sulle colline di Montoro in località laura (le laure erano le celle dei monaci) dove impiantarono il culto a S. Michele nella vicina grotta (il culto micaelo nella forma ingrottata è di origine bizantina). Essi diffusero anche il culto di S. Maria del quindici agosto che si impiantò a Solofra e a S. Agata su Castelluccia.

Quando i Longobardi vennero in Italia formarono nella zona il Ducato di Benevento che giungeva fino alla conca solofrana e usarono Castelluccia come luogo di difesa sulla strada, come fece Arechi I di Benevento quando occupò Salerno. Questo duca inoltre rinforzò tutte le zone attraversate della strada potenziando il castello di Rota (S. Severino) e costruendo i castelli di Forino, di Montoro e della Toppola di Serino che dominava la valle del Sabato. In questo momento acquistò importanza militare il complesso montuoso del Pergola-S. Marco perché permetteva il controllo delle comunicazioni che avvenivano tra il bacino del Sabato e quello dell’Irno. Esso fu ulteriormente rinforzato quando ci fu la divisione del grande Ducato di Benevento (858) in due territori (Principato di Salerno e Principato di Benevento) perché il loro confine passò sui monti di Forino-Montoro. In questo momento fu costruita una fortificazione sul lato meridionale del Pergola (il futuro castello di Solofra) che appartenne al castello di Serino, a cui era unito da due strade che giravano intorno ai due monti, una passando per Castelluccia e l’altra per Turci.

S. Agata nel periodo longobardo fece parte del gastaldato di Rota (rotense finibus) che giungeva fino a Serino (usque serrina de ripileia cioè fino alla roccia serrina) sul complesso del Pergola-San Marco e appartenne a Montoro (nei documenti longobardi la località detta valle de la mela, cioè il Melito era in loco montoro). Essa era un locum, cioè un’aggregazione abitativa non autonoma ed aveva nella zona pianeggiante, tra Torchiati e Solofra, due ampi territori che occupavano quasi tutta la parte pianeggiante e cioè il galdo e la selba. Il galdo apparteneva alla famiglia dei principi di Salerno, il che dice il valore del territorio, la selba apparteneva alla chiesa di S. Massimo di Salerno, che era di proprietà di questi principi, i quali anche attraverso di essa controllavano questo territorio di grande importanza proprio perché vi passava la via antica. La selba era divisa in due, selva grande e selva piccola, giungeva fino alle cortine e fu affidata al colono Roregrimo, figlio di Maraldo. Su Castelluccia c’era un fondo detto subtus ipsa gripta con pertinenze di proprietà di un prete, Citro, figlio di Falcone, tenuto dal fratello Falcone. I prodotti dei due insediamenti della conca - Solofra e S. Agata - sia quelli dei campi sia quelli dell’artigianato (lavorazione del legno e del ferro) che quelli dell’allevamento (lana, carne salata, pelli) erano portati al grande mercato di Salerno dove si trasferirono anche diverse persone per tenervi le botteghe.

Quando giunsero i Normanni nell’Italia meridionale (seconda metà dell’XI secolo) il Principato di Salerno fu occupato pacificamente da Roberto il Guiscardo il quale dette il gastaldato di Rota ad un suo guerriero, Troisio, che si chiamò di Rota e introdusse il culto a S. Severino, dando inizio alla famiglia normanna dei Sanseverino. Troisio però, prima di divenire un pacifico conte normanno, devastò le terre del gastaldato tentando di occupare quelle appartenenti alla chiesa di Salerno, quindi anche la zona pianeggiante di S. Agata tanto che la via di Castelluccia non potette più essere usata (incongua ad andandum). Da questo momento prese forza la via di Turci.

Troisio divise la contea in due parti dando il territorio di Montoro - con S. Agata, Solofra e Serino - al figlio Ruggiero I di Sanseverino. Questo territorio poi passò al figlio di quest’ultimo, Roberto I Sanseverino, il quale morì presto lasciando un figlio piccolo, Roberto II, per cui il territorio (Montoro-Solofra-S. Agata-Serino) fu governato dalla madre Sarracena. Durante questo periodo il feudo si ingrandì dalla parte di Serino ad opera di Sarracena e quando Roberto II divenne feudatario (1164) assorbì altri territori tra cui Tricarico e formò il ramo dei Sanseverino-Tricarico.

Roberto II prima di morire (1183) divise il feudo in due parti, una di queste ebbe come centro Serino con S. Agata e Solofra (non Montoro) e fu assegnata al figlio Ruggiero II che dette inizio al ramo Sanseverino-Tricarico. Con questo feudatario alla fine del XII secolo si definì il feudo di Serino dominato dal complesso Pergola-S. Marco intorno al quale da una parte c’era la conca di Solofra (a sud) e dell’altra la pianura del Sabato (a nord). Esso fu unito anche dal punto di vista religioso, infatti Serino divenne il centro di un Archipresbiterato dipendente da Salerno.

Nel periodo normanno si ampliò la consistenza abitativa di S. Agata che fu chiamata vico, il che significa che costituiva un’identità comunitaria distinta, ma non autonoma perché casale di Serino. Qui abitava Guiso di Lando che fu un vice-comes del castello di Serino che governava in nome del feudatario. C’erano varie cortine, ampi fondi, con case e pertinenze: la Corte di Fronda, una ampia e ricca masseria con alberi da frutta e querce posseduta da Urso de Inga, figlio di Falco, che aveva un ampio fondo nella balle della mela (melito), poi da Musando, figlio di Pietro e da Sica, figlia di Lando; la Corte Alamanni, un frutteto e un vigneto anch’esso di proprietà di Urso de Inga di Falco; la Corte garofani una vigna con frutteto posseduta da alcuni coloni di Solofra; la Corte Ramanni e la Corte la Sidilia, due cortine con frutteti e seminativo; cesina longa, un nocelleto tenuto dal colono Giovanni, figlio di Ademaro a sua volta figlio di Costi, di cui il proprietario era ancora un Urso (detto Pausania), figlio di Doferio; a la Selba, un fondo di cui era proprietaria una figlia di Urso, Marotta, e che era lavorato da Alfano e Giovanni, figli di Maraldo; Serroni e serra, due fondi appartenenti direttamente al feudatario Ruggiero II, tenuti dal notaio Albaliano e poi da Ruggiero Spina figlio di Doferio; Croci, un ampio possedimento su Castelluccia con piante di querce e pertinenze posto nella zona di svincolo del passo, appartenente ad un altro Urso, figlio di Guisenolfo, una grossa famiglia di proprietari trasferitisi anche a Solofra e a Salerno, e tenuto da un colono, Salerno (era un faber), e poi da Rogerio de Spina, figlio di Doferio; carpino, un fondo della zona pianeggiante, tenuto da Pietro di Maione; carrano, un terreno arborato vitato della pianura su cui passava la strada che scendeva da Turci, tenuto da Giovanni. Molti di questi fondi furono messi da Sarracena e dal figlio Roberto II sotto la protezione dell’Abbazia di Cava.

Il vico di S. Agata era dunque un insediamento articolato ed intensivo con le caratteristiche masserie a cortine di proprietà di liberi possessori, la coltura specifica e diffusa era il vigneto (come spiega l’impianto dei toponimi vignoli e vigne) che forniva un prodotto pregiato, a cui si affiancava quello dell’olio. C’erano attività artigianali a conduzione familiare tra cui una che diventò una caratteristica del luogo, l’arte della lavorazione del ferro, svolta anche in altri casali di Serino (Ferrari). Tra questi fabbri c’era Salerno con i figli, Malfredo con i figli e Graffio.

Il vico era collegato con Turci da una strada, detta salmentaria, che passava dinanzi al castello giungendovi dal lato ovest della collina. Forte era il legame tra l’insediamento di S. Agata e quello di Montoro, specie per i luoghi intorno alla via, per uno stretto rapporto di scambi di fondi e di persone e per il fatto che erano abitati da ampie e ricche famiglie di coloni e di proprietari. È il caso di Urso de Inca, un proprietario locale, figlio di Falcone i cui beni si estendevano sul crinale da Banzano a S. Agata, scendevano nella zona pianeggiante e comprendevano diverse cortine. Di questa famiglia, da cui si formò il cognome D’Urso e che si qualifica come una delle più cospicue, si riesce a seguire lo sviluppo per tutto il XII secolo. Essa formava un nucleo sostanzioso del casale di cui un ramo si trasferì a Solofra nella zona del Sorbo. Anche le famiglie Vallense e Maginolfo avevano possedimenti tra S. Agata e Solofra. Altro proprietario, i cui beni si trovano tra Banzano e S. Agata, è Alamanno, che dette il nome al suo fondo. Molti proprietari erano chiamati col nome di Maio e Maione, da cui si formò un altro cognome diffuso ed originario della zona, De Maio, che è un patronimico di origine locale.

Va sottolineato il fatto che il feudatario di Serino ebbe a S. Agata possedimenti diretti, come avevano fatto i principi longobardi di Salerno, cosa che indica la fertilità del territorio e le sue prospettive economiche.

La vitalità di questo territorio è dimostrata dal fatto che nel 1195, in pieno periodo normanno, già si trova la chiesa di S. Andrea. Ciò dimostra che si stava formando sul posto una differenziazione tra la popolazione posta in alto che avevano una propria identità intorno alla chiesa, e quella della zona bassa che faceva riferimento all’antico culto di S. Agata.

Con Ruggiero II di Serino-Tricarico nella conca avvenne il distacco del casale di Solofra dal feudo di Serino, dato al figlio Giordano e alla morte di costui alla nipote Giordana come dote per il matrimonio con Alduino Filangieri. S. Agata invece continuò a rimanere nel feudo di Serino, essa però fu favorita da Federico II di Svevia che protesse con prerogative la lavorazione del ferro.

Negli anni di crisi dopo la morte dell’imperatore svevo (1251) la parte pianeggiante della conca, tra Solofra, Montoro e S. Agata, accolse molte persone provenienti dal Cilento, immigrazione che continuò e fu sostenuta anche da Carlo I d’Angiò (1266) e che determinò la formazione del toponimo le celentane che per molto tempo indicò un vasto territorio fin sotto il monte S. Marco. In questo periodo e in questa zona si insediarono sia la famiglia Fasano, a cui Carlo d’Angiò dette l’incartamento su di una terra al galdo (arco-torre), sia la famiglia Guarino, proveniente dalle zone interne tra l’Irpinia e la Puglia, che qui possedette una cortina detta de li guarini.

Con gli Angioini (1266-1432) il feudo di Serino perdette una parte dei territori che aveva nella conca di Solofra e che fece ridurre il casale di S. Agata. Infatti il feudatario Nicola Tricarico durante la guerra fatta dagli Angioini per impossessarsi dell’Italia meridionale parteggiò contro i francesi per cui perdette il feudo e il territorio di S. Agata entrò, insieme a quello di Serino, nei possessi della corona. In questo frangente una parte dal casale di S. Agata, quella alta con la collina del castello, passò a Solofra, concessa da Carlo I al marito di Giordana, Alduino, che era suo fedele. Da questo momento nacquero le due zone di S. Agata di Sopra o di Solofra (la futura S. Andrea) e di S. Agata di Sotto o di Serino.

Alla fine del XII secolo il grande Giustizierato di Principato e terra beneventana, che era una delle province in cui Federico II aveva diviso l’Italia meridionale, fu diviso in due parti. Si ebbero così due Principati, uno detto a serra Montorii citra Salernum (Principato citra) e l’altro a serra Montorii ultra Salernum (Principato ultra). S. Agata con Serino fece parte di quest’ultimo e si trovò ancora una volta in un territorio di confine.

All’inizio del XIV secolo (1309) la dicesi di Salerno indisse una indagine sulle chiese esistenti dei suoi territori, dalla quale si viene a sapere che la chiesa di S. Agata era di una buona consistenza (un valore di 2 once e mezzo) con ben quattro sacerdoti, il cui rettore era di Napoli e che c’era un presbitero di Capua. Per avere un’idea della consistenza della chiesa di S. Agata rispetto a quelle di Serino vale considerare che a Serino furono censite altre due chiese, S. Lucia e S. Lorenzo, che valevano un’oncia ciascuna mentre il monastero di S. Francesco ne rendeva 7. È da considerare la provenienza dei due sacerdoti della chiesa di S. Agata, che indicano che c’era sul posto un’attiva emigrazione che si riscontra anche a Solofra e che portò, lungo tutto il secolo, ad una crescita della popolazione. Nella società santagatina si introdussero famiglie provenienti dalle zone del salernitano o che erano lì emigrate quando c’era stato il trasferimento delle attività artigianali a Salerno e che avevano continuato a mantenere i rapporti con il retroterra. Tra queste ci fu quella dei Russo, lavoratori del ferro a Salerno e in tutta la zona santagatina-montorese, gli Ursone, la famiglia che aveva dominato nel casale nel periodo normanno e che in questo periodo a Salerno aveva una bottega artigiana, i Marangio, che a S. Agata avevano dato il nome ad una cortina (Corte Marangia) da cui erano partiti gli artigiani che poi erano diventati capostipiti di una famiglia salernitana. Qui continuarono a trasferirsi i Guarino, provenienti dalle zone irpine al confine con la Puglia, mettendo in risalto il legame di S. Agata con questa zona ricca di allevamento.

Bisogna tenere presente che il casale, pur facendo parte dell’Universitas di Serino, ebbe stretti rapporti con Solofra considerandosi un tutt’uno col restante territorio della conca, persino i confini tra i due casali omonimi e con Solofra non saranno mai ben definiti e ciò fu un danno per S. Agata, perché il suo territorio subì una forte restrizione ad opera di Solofra che assorbì gran parte della zona pianeggiante proprio perché all’atto della divisione questo confine non era stato ben segnato. Si giunse infatti ad un processo intentato contro l’Universitas di Solofra da quella di Serino che addirittura chiese di possedere il casale di S. Andrea. Di questo processo, che si protrasse per tutto il XVI secolo e che fu vinto da Solofra, si ha un’interessante documentazione dalla quale si possono individuare quali territori l’Universitas di Serino pretendeva da Solofra, avere una idea di quanto fosse ampio il territorio di S. Agata e quanto fu l’ingrandimento di Solofra a spese di S. Agata. Va però detto che a quei tempi non era raro che su alcuni territori gravitassero due Universitas.

Che il rapporto Solofra-S. Agata fosse stretto è dimostrato anche dal fatto che all’inizio del XIV secolo nella Zecca di Napoli lavoravano alcune persone dette di Solofra e che invece erano dell’area santagatina, dove c’era un nucleo della lavorazione del ferro che aveva tradizioni più antiche di quelle di Solofra. La lavorazione dei metalli infatti fu fiorente nel periodo angioino e proprio la zona di S. Agata-Montoro-Serino fu più pronta allo sviluppo di questo antico mestiere. Questa attività subì un incremento sotto re Roberto d’Angiò che permise nel 1316 al feudatario Nicola de Serino della Marra di avere la protezione nella costruzione di nuove forgias pro affilando in illis ferro (le botteghe dei fabbri). Lo sviluppo fu tale che più tardi queste forgias erano tanto sviluppate, con operai specializzati e organizzati, che lo stesso re Roberto si preoccupò di riscuotere direttamente dal Giustiziere la relativa tassa e proibì l’esportazione non solo del ferro, molto richiesto, ma anche del prodotto lavorato. L’attività era così ben sviluppata che i registi angioini parlano in modo specifico delle quadrelle di S. Agata (asticciole dei proiettili lanciate dalle balestre e lavorate in speciali officine) protette dai dazi.

Tutto questo dimostra che nell’area c’era un vero e proprio polo di lavorazione del ferro che si stabilizzò a Serino e che fu sottoposto a protezione, tanto che solo in questi luoghi si poteva vendere il ferro sotto la vigilanza di portolani di corte e il re assunse la privativa di questo minerale. Se si considera che anche Atripalda aveva la lavorazione di questo minerale si ha l’idea di un ampio polo del ferro a cui gli Angioini dettero particolare cura e sostegno con favorevoli condizioni tanto che questo lavoro ebbe sempre confermati i privilegi e forme di organizzazione particolari. E fu a questo polo che attinsero le attività di conio e di lavorazione della moneta del regno di Napoli prima alla Zecca di Brindisi e poi a quella della stessa Napoli.

Nel periodo aragonese (1432-1503) S. Agata si giovò dello sviluppo che ebbero le attività solofrane con cui essa era legata sia nei rapporti commerciali che artigianali. Anche la sua chiesa se ne giovò divenendo parrocchia col fonte battesimale, la sepoltura e i relativi sacramenti.

Nel 1469 il feudo di Serino (quindi S. Agata) passò a Ludovico della Tolfa e nel 1539 al figlio di costui Giovan Battista, feudatari che ebbero diritti sui territori di S. Agata. Successe poi nel feudo Giovanni Antonio Caracciolo di Santobuono, figlio di Costanza della Tolfa (1585) per cui Serino divenne feudo di questa importante famiglia. Nel 1626 Marino Caracciolo di Avellino acquistò da Alfonso Caracciolo succeduto a Giovanni, con privilegio di Filippo IV, la terra di Serino con i suoi casali quindi anche S. Agata (ASN, Titulorum, v. 3, f. 60). Da questo momento Serino fu feudo dei Caracciolo di Avellino fino alla fine della feudalità.

In tutto il periodo Vicereale (1503-1734) a S. Agata vissero attività legate alla coltivazione dei campi e alla concia delle pelli con concerie dislocate lungo la via delle Cortine in stretto legame con le attività solofrane, ma anche con Serino da cui provenivano diverse persone impegnate nelle attività di concia e soprattutto nella lavorazione delle scarpe. Si formò qui una ampia fascia medio-bassa a forte caratterizzazione artigiana con ferriere e concerie da cui solo poche famiglie emersero accedendo al ceto civile. Nel XVII secolo S. Agata sentì fortemente la crisi economica e fu viva l’opposizione alla prepotenze feudali durante la rivolta di Masaniello (1647). Con la peste del 1656 la sua popolazione fu decimata, molte famiglie scomparvero, il sistema socio economico fu stravolto, i fondi rimasero senza proprietari. Il casale allora accolse molte famiglie provenienti da Serino, da Montoro, dal salernitano e dall’Irpinia che si stabilirono nella parte pianeggiante poiché ebbero la possibilità di lavorare le terre rimaste libere. Qui avvenne quindi l’innesto di ceppi che ora costituiscono l’ossatura sociale della comunità santagatina e solofrana.

 

Nel XVIII secolo il catasto onciario dà la possibilità di individuare la consistenza abitativa di S. Agata dove emerge un ristretto ceto civile, forte economicamente anche rispetto a quello solofrano. Dal catasto del 1754, un documento di grande importanza esistente presso l’Archivio di Napoli, risulta che una sola famiglia dominava nel casale. Apparteneva al ceppo dei De Maio con due fratelli Pietro Antonio e Gennaro, quest’ultimo proprietario di una conceria delle Cortine, che denunziò un giro di affari nella mercatura di 6000 ducati mentre a Solofra il più alto impegno pecuniario non superava i 2500 ducati.

Il figlio di Gennaro, Francesco Antonio, anch’egli citato nel catasto come studente a Napoli (16 anni), divenne avvocato e sposò nel 1761 Elena Maddalena Orsini, figlia di Antonio, razionale della Regia camera, dando inizio alla formazione di un nuovo ramo che si chiamò Majorsini.

Francesco Antonio visse a Napoli, mentre la famiglia, che risiedette a S. Agata fu insignita dalla figura di un sacerdote, Francesco Maiorsini il figlio di Pasquale (nato a S. Agata nel 1812), dottore in Teologia e vescovo di Lacedonia e di Amalfi (dove è sepolto), che mantenne rapporti con il suo paese di origine dove consacrò nel 1865 la chiesa che aveva subito un’opera di restauro.

La società santagatina, formata da un ceto bracciantile e piccolo artigiano, favorì il diffondersi di una cellula giacobina che ebbe diretti rapporti con Montoro per i molti legami anche parentali con famiglie di questa zona e che fu sostenuta da una banda di briganti, che si rifugiavano nelle grotte delle montagne tra il Pergola e il monte Garofalo. Le speranze giacobine si diffusero sia nel ceto artigiano che in quello bracciantile, contro l’oppressione delle prepotenze baronali e borghesi. All’inizio i giacobini furono sostenuti anche dal ceto civile che sentiva la necessità di abolire i privilegi feudali che strozzavano l’economia, cosa che era in linea anche con l’atteggiamento rivendicativo solofrano.

 

In questo clima S. Agata ottenne a fine secolo il distacco dall’Università di Serino divenendo comune autonomo (Universitas) ed ebbe il nome di S. Agata di Sotto.

Durante la rivoluzione del 1799 S. Agata fu al centro di quegli avvenimenti, entrò a far parte del Cantone del Volturno il cui capoluogo era Avellino, formò un governo repubblicano a dirigere il quale furono messe persone di sicura fede giacobina, che in sostanza furono le stesse che avevano governato precedentemente, mettendo in evidenza la cellula rivoluzionaria che si era formata in questo casale. Dal suo territorio partirono le truppe verso Montoro per democratizzare quelle contrade e per combattere, in località chiusa, contro quelle del Duca d’Andria e poi a S. Severino. Nello stesso tempo in paese si stabilì una truppa favorevole al re comandata da Mariano d’Arienzo. Ci furono molti contrasti tanto che ben quattro volte fu abbattuto e rialzato l’albero della libertà, espressione della partecipazione a quella rivolta.

Fallita la rivoluzione molti furono condannati o esiliati, ma fu la situazione economica a subire i più gravi danni (scomparve l’arte del battiloro, si ridusse di molto quella della concia), che furono sentiti soprattutto dal ceto artigiano-bracciantile santagatino e ciò contribuì a mantenere vive le istanze rivendicative, tanto che si formarono ben tre Vendite carbonare, che dettero un contributo non indifferente ai giorni della rivoluzione carbonara (1821). In questa occasione furono considerati settari e condannati o perseguitati il sacerdote Gaetano Saviano (insegnante privato), Giovanni Andrea De Maio (Sindaco), Antonio Maria d’Arienzo (primo Eletto), Nicola De Maio (secondo Eletto, definito antico settario ed Oratore della Carboneria), De Maio Pasquale (cancelliere comunale).

In seguito ci furono altri tentativi di reazione che vennero dall’arciprete Carmine Antonio Giliberti che organizzò una nuova setta, quella degli Oppressi e non vinti che comprese 15mila aderenti e si estese a molte zone del salernitano con i quali tentò una rivolta che, anche se fallì (il Giliberti fu arrestato il 17 giugno del 1827, condannato a morte, poi all’ergastolo e poi graziato nel 1841), mostrò che un vivo malcontento serpeggiava nelle popolazioni; e dalla setta dei Filadelfi, diffusa nel napoletano anch’essa decimata con la carcerazione di 45 liberali, tra cui i santagatini Nicola De Maio, Grassi Lorenzo, De Maio Nicolino.

Tutto ciò spiega perché a S. Agata furono accolte favorevolmente le idee delle rivendicazioni sociali portate avanti dal socialismo. Sia a Solofra che a S. Agata si crearono infatti, dopo l’Unità d’Italia, tre Società di Mutuo soccorso di aiuto agli operai, che all’inizio furono moderate ma ebbero anche forme anarchico-rivoluzionarie, si sviluppò un vivo movimento operaio, che chiese aumenti salariali e la diminuzione dell’orario di lavoro, e nel 1903 fu fondata la Lega Pellettieri che fu considerata dalla Polizia "eminentemente sovversiva" perché era svincolata dalla tutela borghese. Il suo organizzatore e presidente fu Ernesto De Maio di S. Agata che ebbe legami con gli ambienti di Napoli, di Salerno e di Avellino, e che, come rappresentante radical-socialista, scriveva sul giornale napoletano "1799", su "Il lavoratore" di Salerno e sulla "Cronaca Rossa" di Avellino con lo pseudonimo Fritz. La Pellettieri ebbe 300 adesioni tra piccoli artigiani a domicilio e operai, avanzò rivendicazioni salariali e dell'orario di lavoro e dette vita ad uno sciopero nell'aprile del 1903 con un vero e proprio braccio di ferro tra gli operai e gli industriali durato 11 giorni, durante i quali tutta la zona e le fabbriche furono presidiate dalle forze dell’ordine sostenute da un reparto di fanteria proveniente da Sarno. In questa occasione la comunità solofrano-santagatina, ebbe la solidarietà dei partiti popolari del Blocco Democratico di Avellino e direttamente l’appoggio del partito socialista irpino, i cui rappresentanti, Pagnotta e Cianciulli, giunsero nella zona, e di quello beneventano cosa che dimostra come le esigenze avanzate da questo movimento operaio erano molto sentite. Anche in Parlamento il PSI dibattette il problema dei pellettieri solofrani e santagatini.

Il rappresentante della Lega solofrana, Ernesto De Maio, tentò una mediazione che non riuscì poiché gli industriali tennero duro facendo prevalere le loro ragioni, per cui lo sciopero falli. Rimase però molto forte la coscienza della lotta di classe e diffuso fu il malcontento intorno alle 55 industrie solofrane e alle otto santagatine. Fu mantenuta in vita la Pellettieri che ancora nel 1904 aveva 332 iscritti ed un programma teso a "riordinare l’organizzazione dei pellettieri, a tenere viva l’agitazione" oltre che ad "educare ed istruire l’operaio" e che fu sostenuta finanziariamente anche dagli emigrati.

Nel 1915 la Lega accolse la partecipazione di  Antonio Famiglietti di S. Agata.

Costui fu un fervido sostenitore delle ragioni dei contadini e degli operai contro il patronato della terra e dell’industria che teneva il potere commettendo soprusi e violazioni di diritti. Dopo la guerra organizzò a S. Agata una sezione socialista, l’"Unione operaia", che subito si arricchì di 80 adesioni causando la violenta reazione della classe che fino ad allora aveva dominato incontrastata. S. Agata mostrò, sotto la guida del Famiglietti, una capacità organizzativa proletaria nuova per un minuscolo paese che aveva sempre gravitato intorno al più grande centro, inoltre quella associazione mise a nudo la mutata consistenza dell’elettorato, frutto delle riforme del 1912, in quanto "80 operai con le loro famiglie costituivano la maggioranza del corpo elettorale locale di appena 210 elettori". Nelle elezioni del 1920 infatti il socialismo vinse a S. Agata, dove governò prima Michele Cotone e poi Antonio Famiglietti, che nel settembre del 1921 fu il sindaco più giovane d’Italia, e a Solofra, dove prese il governo del comune Vincenzo Napoli, mentre alle provinciali il socialista Emanuele Papa (1887-1956) riuscì a soppiantare alla Provincia il forte compaesano Eugenio Giliberti. S. Agata e Solofra in quegli anni furono tra le protagoniste del socialismo irpino accogliendo anche il III Congresso Socialista Irpino.

Famiglietti parla di un paesello povero, poiché costituito nella maggior parte da gente indigente e perché gli amministratori precedenti, tutti appartenenti ai pochi abbienti, non si erano interessati al suo miglioramento, per cui non erano state fatte le opere necessarie ad una civile vita in comune. In questo paese, dice Famiglietti nei suoi Ricordi, "langue tutto, dal servizio sanitario a quello amministrativo, dalla scuola all’illuminazione, dalle strade alla cura del cimitero", problemi che il giovane sindaco affrontò con determinatezza, incontrando molti ostacoli nell’opposizione dei "signorotti" locali. Tra le opere portate in porto da Famiglietti ci furono l’ampliamento della scuola che raggiunse anche le zone isolate e il cambio del nome in S. Agata Irpina avvenuto nel 1923.

Dopo la presa del potere fascista iniziò a S. Agata un’opera tesa ad eliminare ogni opposizione: fu chiuso il circolo "Unione Operaia" (luglio 1923) considerato "un covo di sovversivi", fu sciolta l'Amministrazione comunale socialista (dicembre 1923), fu soppressa l’associazione "Combattenti", costituita da operai e contadini di orientamento socialista, fino a giungere all’assorbimento di S. Agata nel Comune di Solofra, che già aveva aderito al fascismo. Non mancarono azioni persecutorie verso gli elementi socialisti di spicco del paese come quelle contro Francesco Barbarisi, segretario del partito socialista santagatino, attivista ed ex amministratore, che fu costretto ad aderire al partito, e contro lo stesso Famiglietti che fu costretto a trasferirsi a Napoli (1926).

Divenuta frazione di Solofra il piccolo centro visse la crisi del dopoguerra e seppe riprendersi e partecipare alla rinascita degli anni sessanta quando con la Cassa del Mezzogiorno fu data la possibilità a tanti operai di divenire imprenditori e di aprirsi alle prospettive della modernizzazione. Ora il suo territorio è il più direttamente interessato al processo di urbanizzazione e di delocalizzazione industriale che è in atto in tutta la conca solofrana.

N.B. I documenti su cui è basata questa ricostruzione sono in

M. De Maio, Alle radici di Solofra. Dal tratturo transumantico all’autonomia territoriale, Avellino, 1997.

M. De Maio, Solofra nel Mezzogiorno angioino-aragonese, Solofra, 2000;

F. Scandone, Documenti per la storia dei comuni dell'Irpinia, Avellino, 1956;

A. Famiglietti, I miei ricordi, Solofra, 1989;

Archivi di Stato di Avellino e di Napoli.

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